In uno dei tanti e brevi monologhi delle “Invasioni Barbariche”, Pierre Courzi dice, l’intelligenza non è una caratteristica individuale. È un fenomeno collettivo, nazionale e intermittente.

Se non certo del fatto che possa essere definito “nazionale”, inteso come appartenente ad una nazione, quanto più ad un gruppo culturale, possiamo trovarci abbastanza in sintonia con la provocazione che sia collettivo ed intermittente. Se infatti l’intelligenza tout-court, quell’ammasso rilevante di sinapsi che conducono ad un qualche plusvalore culturale umanitario, o anche solo del tutto privato e narcisistico, è decisamente un tratto individuale, del tutto slegato da dinamiche sociali multiple; possiamo altrettanto trovare indubbio che il fiorire, il rigogliare, l’arrampicarsi e addizionarsi di manifestazioni d’accrescimento dello scibile, di interpretazione del circostante, siano legati alla massa critica che l’intelligenza è in grado di addensare. Due persone intelligenti sono meglio di una, insomma. Lo sono per l’umanità, e lo sono innanzitutto per loro. Una delle frasi più geniali che ho letto di recente, di uno degli uomini meno geniali e più potenti dell’arte contemporanea di oggi, riguardava le nuove tecnologie:

la cosa brutta delle nuove tecnologie (riferito all’arte visuale) è che invecchiano subito.

Questa frase è acutissima sia perché è vera, sia perché possiamo capirla tutti senza sforzi eccessivi. È sufficiente aprire un cassetto di casa e osservare con compassionevole melanconia un cellulare di solo qualche mese fa. Ci sembrerà sicuramente la brutta copia di qualcosa che usiamo oggi oppure il fantasma di un’abitudine ormai perduta, come scrivere lettere o utilizzare un compact disc. Quello è l’effetto della tecnologia su di noi; la foto di un nostro vecchio documento d’identità, buono per i ricordi e poco altro. Perché nel continuum infinito che è rappresentato dalla nostra esistenza, in movimento, è proprio la tecnologia a invecchiare prima di noi, o forse dovremmo dire, che invecchia per noi. Le cellule e gli atomi che da dentro il nostro organismo si muovono, quelle del tavolo che sembra rilucere sotto al computer che usiamo per lavorare a tarda notte e che è costituito da fasci di molecole in una data gerarchia e ordinamento atomico tutte in sub-movimento, possono essere idealizzate come una “infinity-net” (se avete confidenza, è l’opera dell’artista Yayoi Kusama, e anche, in parte, il titolo del capolavoro post-moderno-avveniristico di David Foster Wallace). Una rete infinita apparentemente immobile ma che se osservata in silenzio si muove vorticosamente, così come le opere della Kusama che ci danno il capogiro dopo qualche breve secondo. Nonostante tutte le promesse di felicità e l’infinità dei mondi che ci aprono, le tecnologie infinite non esistono.

Queste file miliardarie di molecole, dopo mesi diventano reperti archeologici ai nostri occhi, poi per la nostra cultura contemporanea (in pratica non funzionano più in continuità con le loro sorelle sul mercato) e, passo successivo, diventano energia nei termovalorizzatori, rifiuti riciclati, quelli che piacciono tanto al Paul Auster di Trilogia di New York. L’infinito tecnologico siamo solo noi, insomma. Il cervello umano che è lo chassis di tutta questa evoluzione (che a me piace chiamare, transumanza o anche spostamento culturale, quasi a ricordarmi che non sono più evoluto del mio trisavolo, ma solo spostato nell’asse temporale).

Se, per chiudure, non sono quindi in grado di rispondere circa la discontinuità ecco invece in cosa consiste la collettività dell’intelligenza secondo il personaggio di Courzi: è l’addensarsi, l’humus, la biodiversità. Quella che ha consentito all’insalata di Anselmo o alle mani apollinee della Nike descritte dai più grandi autori in visita alla Grecia o al Louvre e ripresa da milioni di macchine fotografiche personali di addensarsi e consolidarsi, come un seme, dentro il nostro sostrato culturale ben oltre quella falda superficiale di polvere che il sistema operativo di un iPhone o un ultimo tablet in commercio, il visore 3D del cinema o di un’opera in un museo, possano provare a scalfire. Perché l’insalata, come il carbone di Kounellis e persino il sapore di ”West” della pubblicità Marlboro stanno dentro di noi, le mani, i denti e nervi dei nostri padri, nonni, avi, e alcune di queste addirittura nelle callosità nevrili di qualche uomo antichissimo, e irradiano, stanno, nella nostra cultura. Ecco che vederle di nuovo in uno scatto di vita di Joel Meyerowitz ci riporta dalla retina al cervello tutto quello che siamo, che eravamo, e che, oserei dire, fino a che io possa vedere, che saremo.