C’è un’opera molto nota di Felix Gonzales Torres, del 1991. L’opera consiste in qualcosa come settantacinque chili di caramelle, tutte confezionate in carte di diversi colori. La prima volta che l’opera fu esposta, le caramelle erano addossate in un angolo, contro la parete dell’Art Institute di Chicago. I visitatori erano invitati a partecipare all’opera in prima persona, prendendo liberamente una o più di quelle caramelle per farne ciò che volevano. Le caramelle erano moltissime, ma il loro numero non era infinito, perciò entro un arco tempo non prevedibile, ma certo, l’opera era destinata a scomparire, a venire letteralmente consumata. La cosa interessante è che l’opera in realtà fu pensata dall’artista come un ritratto. Il titolo è infatti Untitled (Portrait of Ross in L.A.). Ross era il compagno dell’artista, malato, a quel tempo, di AIDS. Ogni caramella che veniva consumata era dunque un piccolo momento di vita di Ross che, con un gesto drammatico e poetico insieme, ogni volta se ne andava per sempre.

Una delle caratteristiche più interessanti di quest’opera è che, nella metafora delle caramelle, il ritratto, la persona, quindi, il suo volto e la sua personalità, sono identificate con il suo tempo. La montagna di caramelle significava, infatti, il tempo da vivere. Il tempo a disposizione di Ross e di chi lo amava per stare con lui. Sottrai una sola caramella da una montagna di 75 chili e neppure te ne accorgi. Ma la differenza, sottile e tragica, esiste, eccome. Si nasconde in qualcosa di piccolo, di fragile e fugace. Gonzales Torres sembra volerci dire che il nostro tempo non è che la somma di tanti piccoli momenti non più grandi di una caramella. Ne siamo consapevoli? Il titolo di questo mio intervento parafrasa ironicamente quello di un libro di Derrida. Al giro del secolo xxi, nell’anno 2000, il filosofo francese pubblicò Ciò che resta del fuoco[1], un testo scritto nella forma del “poliloquio”, come diceva lo stesso Derrida, cioè un soliloquio a più voci. Il libro parla della cenere, di ciò che resta quando il fuoco, e l’energia che esso simboleggia, si è consumato e ha consumato tutto. Noi qui non parliamo del fuoco, né della cenere che questo lascia e in cui esso trasforma ogni cosa, ma del vuoto. Il tempo libero è, paradigmaticamente, il tempo vuoto, il tempo lasciato libero dalle attività lavorative. Può essere il tempo che dedichiamo alle persone che amiamo, alle distrazioni, agli hobbies, alle passioni. A tutte quelle cose che, insomma, non trovano spazio nella nostra “agenda” quotidiana del necessario.

Nel maggio del 1969, Theodor W. Adorno durante un intervento alla radio tedesca poi divenuto famoso, si soffermò proprio sul tema del tempo libero, «die Freizeit». Per Adorno, il concetto stesso di tempo libero implica una sorta di stato, più o meno consapevole, di schiavitù. «Ich habe kein Hobby», diceva perciò Adorno. «Non ho nessun hobby». Dal suo punto di vista l’idea stessa del tempo libero rientra, infatti, in una certa concezione della società industriale, che tende a organizzare ogni attimo di tempo, magari per impedire che accada qualcosa di imprevisto che scompagini gli schemi. Una società siffatta non lascia in realtà alcuna libertà, proprio perché costruisce dei frames all’interno del quale possiamo, in modo appunto controllato e quindi illusorio, esercitarla. Perciò il filosofo non ha hobby. Perché difende la sua libertà e il suo tempo, se ne fa carico.

Theodor Adorno nel suo studio

Riflettendo sulle parole di Adorno, cogliamo però anche un secondo aspetto. Pensare al nostro tempo come suddiviso tra tempo libero e tempo impegnato, o non libero, costruiamo nella nostra mente un’immagine di discontinuità. Un po’ come se, nell’installazione di Gonzales Torres, le caramelle non fossero tutte uguali, sebbene multicolore, ma alcune fossero diverse da altre. Più grandi, più piccole, dislocate in un altro spazio e così via. Ma la percezione reale del tempo non è discontinua, al contrario. E non è tutto. Curiosamente, nell’epoca dell’industria 4.0 il discorso di Adorno prende un significato tutto nuovo. Viviamo un’epoca in cui il lavoro, nel senso tradizionalmente inteso, scarseggia e la robotizzazione tende sempre più a sostituire l’essere umano in diversi mestieri. C’è dunque il rischio reale che del nostro tempo non ci resti altro che quello libero, liberato dal lavoro, che si sta trasformando. Questo è un bene o un male? Certo è interessante che noi percepiamo questa trasformazione, almeno parzialmente, come un rischio. Ma per rispondere alla domanda sollevata dalla riflessione di Adorno, vorrei raccontare un altro aneddoto, che ha sempre per protagonista un filosofo. Questa volta si tratta di Jean Paul Sartre. Si dice che Sartre una volta, al ristorante, abbia rivolto al cameriere che lo stava servendo la domanda, apparentemente banale, ma in realtà fondamentale: «Chi sei?». Il cameriere, evidentemente digiuno di esistenzialismo francese, rispose ingenuamente: «Sono il cameriere». La risposta a Sarte non piacque per nulla. «Non sei il cameriere», lo corresse subito, immaginiamo stizzito, «tu fai il cameriere». C’è dunque una distinzione tra chi siamo e il lavoro che facciamo. A volte, se siamo fortunati, il lavoro racconta molte cose di noi. Eppure -− probabilmente per la nostra sanità mentale − è necessario che noi troviamo il tempo per assaporare semplicemente il nostro essere, scevro da altre definizioni o costrizioni, viverlo fino in fondo. Il tempo libero può essere dunque qualcosa che ci aiuta a trovare chi siamo? Ma, se Adorno aveva ragione e il tempo libero non è che un frame lasciato vuoto da altri per noi, controllato da altri per noi, come possiamo trovare lì noi stessi? E se il tempo che noi percepiamo effettivamente, fenomenologicamente, nella nostra esistenza, non è di fatto discontinuo, ma fluisce in modo ininterrotto, in che modo possiamo percepire noi stessi per quello che siamo e non attraverso quello che facciamo? Proviamo a mettere insieme l’immagine dell’opera di Gonzales Torres, le parole di Adorno e l’aneddoto di Sartre. Che ne è del nostro tempo (libero)?

Quando si parla di libertà, specie in ambito sociologico o politico, di solito si distingue tra libertà “da”, che implica la rimozione da una costrizione; libertà “di”, cioè la possibilità di prendere iniziative e decidere per noi stessi; oppure, ancora, libertà “per”, che implica la possibilità di orientare il nostro agire secondo un’intenzione o un fine, magari condiviso con la comunità. La libertà però, in tutti questi casi, appare in qualche modo condizionata, concessa, nel migliore dei casi regolamentata per consentire una buona pace sociale. Libertà, però, come ci avvertono i filosofi fin da Cartesio, non è semplicemente libero arbitrio, cioè fare ciò che si vuole, senza limiti o confini, infischiandocene delle conseguenze. Libertà è invece l’esercizio di un diritto, o qualcosa di ancora più profondo. «Libertà è partecipazione», diceva Gaber molto tempo dopo. Ma partecipazione a che cosa? E in che tempo? Schelling, e con lui Pareyson più tardi, diceva che la libertà è il concetto più radicale e profondo di tutti. O la libertà è totale e radicale, oppure non è. La libertà, per Schelling, precede addirittura l’essere: Dio stesso decide di essere, sceglie tra essere e non essere, ancora prima di esistere. Perciò la libertà non va confusa con il semplice libero arbitrio. Ma che cosa ha a che fare tutto questo con l’idea di tempo libero? In realtà, con tutte queste riflessioni, il concetto stesso di tempo libero è diventato per noi piuttosto problematico.

Abbiamo detto che il tempo libero, il loisir, è libero proprio perché la maggior parte del tempo che abbiamo a disposizione, invece, non lo è. La definizione stessa di tempo libero implica infatti, come suggeriva Adorno, che altri, o altro, per noi abbiano deciso del nostro tempo. Ma siamo sicuri che sia questo il modo giusto di gestire, e soprattutto di gustare, le nostre caramelle? Ci piace l’idea? All’idea di tempo libero vorrei, però, contrapporne un’altra. Quella di tempo vuoto. I due concetti sembrano sovrapponibili, ma a ben guardare non è così.Il tempo vuoto è il tempo lasciato vuoto dalle attività, il tempo che non viene consumato, conteggiato, calcolato dalla nostra “agenda”. A differenza del loisir, il tempo vuoto appare davvero un modo per assaporare quella libertà di cui si diceva prima. E tuttavia, proprio perché, per dirla con Schelling, la libertà o è del tutto radicale, oppure non è, del vuoto abbiamo paura. Il rischio è che il tempo vuoto, a differenza del tempo ridotto in frames già compilati con attività cool e socialmente riconosciute, potrebbe condurci a confrontarci con qualcosa che temiamo moltissimo. L’incontro con noi stessi, con le nostre paure e le nostre ombre, è infatti molto meno rassicurante del controllato tempo libero.

Ma se fosse proprio il tempo vuoto la nostra via di salvezza?

Nella Piccola Storia della Fotografia[2], Walter Benjamin parla dei primi dagherrotipi. Il tempo di esposizione prolungato in maniera tanto innaturale, eppure necessario per i primi prototipi di macchine fotografiche, finiva per alterare l’apparenza delle persone, i loro visi, le loro posture. Ma, nota Benjamin, proprio questa alterazione, questa attesa forzata, finiva per rivelare cose nelle immagini che altrimenti sarebbero rimaste nascoste. Il tempo di esposizione, tempo non speso, lasciato vuoto, illuminato a forza, diventava così un tempo di rivelazione. Tra i vari esempi Benjamin, nello stesso luogo, mostra l’immagine di Kafka da piccolo, fotografato, all’età di soli quattro anni, con in mano un cappello grigio e troppo grande per la sua testolina di bambino. Il bambino, che ancora non dovrebbe conoscere la differenza tra tempo libero e tempo non libero (ma è proprio così, per i bambini, oggi? a volte l’agenda dei piccoli è riempita dagli adulti fino all’inverosimile!), tra ciò che è e ciò che fa, è costretto dal fotografo a stare lì fermo ad aspettare, senza fare nulla. Aspettare che cosa? Aspettare lo scatto, il via del fotografo. Qui Kafka appare sofferente, impaziente, eppure obbedisce e resta immobile. È un paradosso. In Paradoxical economies, nel 2008 presso la Ikon Gallery di Birmingham, Cesare Pietroiusti, artista che lavora dando luogo a situazioni, appunto, paradossali ma che scatenano profonde riflessioni, inscenò quanto segue. In un esercizio commerciale, per ottenere la merce, non era necessario pagarla con del denaro, ma occorreva dedicare all’oggetto desiderato due cose in apparenza effimere: tempo e attenzione. In sostanza, l’oggetto desiderato andava guardato per un certo numero di minuti, durante i quali l’attenzione dell’avventore doveva concentrarsi unicamente su quell’oggetto. Se state pensando che sarebbe bello, e magari più facile, poter pagare le cose così, provateci. Non è affatto semplice come sembra concentrare tempo e attenzione su qualcosa per un tempo innaturalmente lungo. Non ci siamo abituati. Vero è, però, che il tempo, tradotto in valore, assume un significato tutto nuovo. Da un lato, ci rivela qualcosa che sospettavamo: non tutte le cose per cui spendiamo dei soldi meritano davvero la nostra profonda attenzione. Ma dall’altro, la riflessione di Pietroiusti, conduce a una conclusione inaspettata. A differenza delle caramelle di Gonzales Torres, che, proprio come la vita, lasciavano tutto al caso, e all’imponderabilità, qui l’artista invita a quantificare il tempo, a calcolarlo. I due artisti giungono però a una conclusione analoga: il tempo sfugge al calcolo, resiste a essere trattato come una mera quantità stimabile. Einstein, non c’è che dire, sarebbe stato d’accordo.

Anish Kapoor, «o il vuoto».

Se il tempo fosse davvero quantificabile, e divisibile in frames controllati e perfettamente organizzati, il tempo vuoto verrebbe completamente cancellato, non esisterebbe più. Non resterebbe che spazio da riempire, di volta in volta, secondo uno schema in gran parte prevedibile. Ma è solo nel tempo vuoto che può avvenire la rêverie, e con essa la creazione e ri-creazione di noi stessi. La rêverie è quello stato sognante in cui non solo immaginiamo il mondo come lo vorremmo, ma in cui il nostro cervello produce immagini, crea e si ri-crea. Non è perdere la testa tra le nuvole, ma immaginare per poi creare e ri-crearsi. Sognare a occhi aperti. Ecco un’attività che consideriamo, solitamente, del tutto inutile. Una vera perdita di tempo (di caramelle!). Non la pensava così però Gaston Bachelard, psichiatra e filosofo francese. Dal suo punto di vista è proprio attraverso il daydreaming che possiamo attivare energie profonde. Lasciare tempo vuoto per scatenare l’immaginazione, dal punto di vista di Bachelard, farebbe bene non solo a noi stessi, ma anche all’attività che svolgiamo. Tutto quello che ci serve è, dunque, il coraggio di varcare quella soglia e incontrarlo, il vuoto.

Molti anni più tardi rispetto alla fotografia di cui parla Benjamin, in uno degli aforismi di Zürau, Kafka diceva queste parole: «Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te[3]». Ammettiamolo. Il vuoto, l’idea di un tempo vuoto, ci spaventa. L’ horror vacui, la paura del vuoto, è comune, fa profondamente parte della nostra cultura. E i correttivi legati alle filosofie orientali sul valore del vuoto e la sua potenziale ricchezza e libertà, non ci conquistano mai fino in fondo. Ma, seguendo le parole di Kafka, cominciamo a sospettare che la paura che il vuoto porta con sé, potrebbe alla fine essere ben ricompensata. Ecco, allora, che il tempo vuoto non è affatto tempo perso. Al contrario, esso è il tempo in cui il mondo si concede a noi e si rivela per quello che è. È il tempo delle immagini e della ri-creazione, quello in cui possiamo trovare risorse che sono dentro di noi, e che magari neppure sospettiamo di avere.   

 

[1] J. Derrida, Ciò che resta del fuoco, SE, 2000.

[2] W. Benjamin, Piccola storia della Fotografia, Abscondita, 2018.

[3] F. Kafka, Aforismi di Zürau, Piccola Biblioteca Adelphi, 2004