È la seconda donna premier della Gran Bretagna. L’altra è stata Margareth Thatcher, scusate se è poco (ovviamente c’era allora e c’è oggi Elisabetta II, regina inossidabile e senza tempo, ma questa è un’altra storia). La “dama di ferro” rilanciò il suo paese e attrasse investimenti con la ricetta liberale, di pari passo con Ronald Reagan che fece il primo vero “make America great again” facendo effettivamente tornare gli Stati Uniti allo splendore perduto qualche decennio prima. Theresa May, alcuni anni dopo, sta gestendo tra mille difficoltà, ma con grande tenacia, uno dei tornanti della storia che nessun umano dotato di raziocinio avrebbe mai potuto prevedere, la Brexit. Cioè il fatto che gli inglesi tre anni fa improvvisamente “si impazziscono” e, via referendum popolare, decidono sia pure a maggioranza di uscire dall’Unione europea, quella roba che certamente non funziona benissimo ma che per loro era una pacchia perché avevano il doppio jolly di poter godere dei vantaggi di aver mantenuto la propria moneta, la sterlina, e di essere comunque a pieno titolo tra i soci forti di Bruxelles. Invece tale David Cameron, premier conservatore che voleva essere l’anti Tony Blair (il laburista della terza via con Bill Clinton), convocò il referendum sicuro di vincerlo e di rafforzare a tempo indefinito la sua leadership e invece finì come il toscano Matteo Renzi, lo perse rovinosamente (va detto che di Cameron si sono politicamente e giustamente perse le tracce, mentre Renzi continua a impartire lezioni sugli elettori che ebbero a sbagliare tutto, ma anche questa è un’altra storia).

E così Theresa Mary Brasier (detta May per via del più breve, e forse più glamour, cognome del marito Philip, conosciuto all’università tramite la sua amica Benazir Bhutto poi diventata premier del Pakistan, e sposato il 6 settembre del 1980, una vita fa) si è ritrovata premier con il mandato di avere meno danni possibili dall’improvvida uscita, che ha già depauperato la City londinese di banche e aziende e che ora deve riorganizzare tutto secondo rapporti bilaterali e non più all’interno del mercato unico. Con gli ex partner che non vogliono fare sconti e i suoi connazionali che magari vorrebbero riavvolgere il filo della storia (ma non si può). Oltretutto, lei era per il remain, che spiegava così qualche anno fa:“Penso che dovremmo rimanere all’interno della Ue non perché penso che siamo troppo piccoli per prosperare nel mondo, non perché sono pessimista sulla capacità della Gran Bretagna di agire sulla scena internazionale. Penso che sia giusto per noi rimanere proprio perché credo nella forza della Gran Bretagna, nel nostro peso economico, diplomatico e militare, perché sono ottimista sul nostro futuro, perché credo nella nostra capacità di guidare e non solo di seguire”. Adesso, invece, con lucido realismo Theresa afferma che la parola d’ordine è:

“Brexit means Brexit“.

Theresa è una vivace sessantenne capace di arrivare sul palco del congresso del suo partito nell’ottobre scorso danzando al ritmo degli Abba, la sua musica preferita. Non si conoscono sue foto da giovane, ma è tuttora una donna alta e forte che, nonostante tutte le difficoltà, ama fare il suo lavoro e si è costruita negli anni una carriera politica invidiabile, non trascurando il marito e facendo sapere che i figli “semplicemente non sono venuti”. In omaggio alla trasparenza, ha dovuto far sapere di avere il diabete mellito di tipo 1, per il resto ama le scarpe al pari di tantissime altre donne (e di diversi uomini) ma non se ne può permettere troppe e le usa come contraltare quasi ribelle ad un look che per forza di cose deve essere più formale di quanto lei stessa vorrebbe.  Definita spesso come “fanatica del lavoro”, si dipinge “schiva e riservata”, magari proprio per meglio valorizzare le eccezioni, come il congresso al ritmo degli Abba: infatti quando le viene chiesto chi sia il suo modello o personaggio preferito, risponde sempre “Geoff Boycott”. Il quale non è né un politico né uno statista, ma un grande giocatore di cricket del passato. Il suo primo lavoro è presso la Banca d’Inghilterra dal 1985 al 1997, come consulente finanziario presso l’Association for Payment Clearing Service, dove si distingue nel ruolo di responsabile dell’Unità Affari europei. Ma tra il 1986 e il 1994 è già assessore a Merton, sobborgo di Londra. Dopodiché, con l’aiuto di Philip Hammond (già segretario di Stato per gli Affari Esteri del governo Cameron) e di Sir George Young (già “chief whip” del primo governo Cameron e influente figura del partito), riesce a entrare in parlamento grazie a un seggio nella circoscrizione di Maidenhead nel 1997, anno in cui il partito laburista conosce una sconfitta storica. Eletta deputato per il partito conservatore nelle elezioni generali del ’97, da allora (come recitano le sue educate biografie web) ha una carriera in costante ascesa: viene prima nominata ministro dell’Interno nel 2010 all’interno del primo governo Cameron e poi, rieletta il 7 maggio 2015 con 35.453 voti e il 65,8% delle preferenze, è pronta a sostituire il grande perdente Camerun subito dopo il referendum.

Ma Theresa aveva già da anni la responsabilità su temi cruciali per la nazione quali la gestione della polizia, l’immigrazione e il terrorismo. Ma già dai primi anni Duemila è tra le figure più significative del partito conservatore, quando in qualità di presidente del partito conia la definizione di “nasty party”, ovvero il “brutto partito” da rifondare. La sua diagnosi puntuale e severa del problema d’immagine dei Tories da allora in avanti apre la strada alla modernizzazione e al rinnovamento della formazione conservatrice. Nel 2013 Ed Miliband, ex leader del partito laburista, la dipingeva come capo dell’opposizione in un futuro governo a guida laburista, preconizzando che presto o tardi avrebbe scalzato la figura di David Cameron. Cameron all’epoca rise di queste affermazioni ma, se anche la storia è andata diversamente per il Labour, Miliband aveva comunque azzeccato in pieno il sorpasso di Theresa su Cameron.

Ma ora il problema dei problemi è la follia della Brexit. Alla fine, scrive Mario Sechi, uno degli analisti italiani più brillanti, gli inglesi hanno fatto esattamente gli inglesi: sono tornati alle loro origini, 500 anni fa, allo scisma di Enrico VIII dalla Chiesa di Roma - che allora era l'Europa - alla loro inesorabile insularità aperta agli oceani e chiusa alla terraferma del Vecchio Continente. La storia dell'isola d'Inghilterra è questo vai e vieni tra Vecchio e Nuovo Mondo, questa oscillazione del pendolo tra la dimensione titanica degli Oceani e la tentazione del sole, il Thalassa Mediterraneo con le sue calde sponde, i canti dell'Egeo, il richiamo del classicismo e la misteriosa e predatrice Africa.

“Una suggestione politica come la Brexit non poteva che poggiare sul sentimento della nostalgia dell'Impero e così è stato."

C'è solo un dettaglio: c'è la nostalgia, ma l'Impero è svanito da un pezzo. Ne restano, ovviamente, l'eredità storica, importanti testimonianze, l'influenza degli inglesi nel commercio, nello shipping, nei trasporti aerei, nella parte della gestione dei contratti di business. Paradossalmente, il contratto per loro più importante nella storia moderna, il trattato della Brexit con l'Unione europea, lo hanno gestito male, al limite del dilettantismo politico e non solo l'Unione europea è riuscita a ottenere un accordo molto vantaggioso, ma ha messo gli inglesi all'angolo anche per il secondo tempo del negoziato, quello che si è già aperto dopo la titanica bocciatura subita dal governo di Theresa May”.

Vi risparmiamo la cronaca, le sconfitte e le vittorie per gestire una sconfitta. Il punto è che entro marzo 2019 l’Inghilterra deve uscire dall’Europa e nessuno sa come questo fatto storico si dipanerà: Theresa potrebbe negoziare una proroga sino a luglio (ipotesi difficile), potrebbe perdere e lasciare Downing Street (difficile anche questo), potrebbe perdere e andare alle elezioni anticipate con l'idea di poter battere il Labour di Corbyn che, in effetti, non ha tutti i favori dei sondaggi, nonostante la prova disastrosa dei Tories. Una sfida quasi suicida, alla Cameron. Ancora, un secondo referendum. Alcuni giornali inglesi lo piazzano tra le possibili scelte, ma non è facile, dovrebbe essere sostenuto dal Labour e dagli stessi Tories, innescherebbe una irrecuperabile perdita di fiducia nelle istituzioni. Scommessa dove perdono tutti, nota la nostra guida Sechi, e potrebbe riaffacciarsi la Brexit. Infine, il no deal. Theresa May perde, il governo non esiste più, il Parlamento si incarta, il 29 marzo il Regno Unito esce dall'Europa in una situazione caotica. Nessuno oggi può dirci cosa succederà di qui a un mese, nemmeno Theresa. Il fatto è che l’inopinato divorzio tra Regno Unito ed Europa non solo costa 40 miliardi di euro (comunque poco rispetto all’eventuale uscita di un paese che ha l’euro), è complicatissimo ed è stato sinora gestito meglio dai burocrati di Bruxelles che dai politici di Londra, ma riporta comunque indietro l’orologio della storia a partire dalla libertà di circolazione delle persone. È stata la scelta infelice di un leader, Camerun, che tale non era. Theresa ha rilevato in corsa partito, governo e Brexit: se riesce a contenere i danni per il suo paese avrà eclissato il mito di Margareth Thatcher. Le sue scarpe rosse o leopardate avranno un posto nella storia e non solo in quel poco di gossip mondano che sinora l’ha riguardata. Anche la Regina Elisabetta sarebbe contenta della moglie di Philip May e certamente la inviterebbe a qualche tè in più.