Attualmente, a condividere la superficie abitabile sul pianeta Terra siamo poco meno di 8 miliardi di persone: più del doppio di quanti eravamo 50 anni fa. Uno spazio che occupiamo, in realtà, solo per una piccolissima percentuale, ma del quale usiamo la fornitura annuale di risorse rinnovabili in proporzione di gran lunga superiore alle reali disponibilità. Nel 2018 l’Overshoot Day, ovvero il giorno che segna l’inizio del debito ecologico a causa dell’eccessivo sfruttamento del pianeta, è stato fissato il 1° agosto. Questo significa che, dal 1° agosto sino alla fine dell’anno, la Terra sarà sovra-sfruttata perché l’uomo sta usufruendo delle sue risorse naturali consumandone più di quante la Terra stessa sia in grado di produrne. Tale data, come sottolineato dall’organizzazione di ricerca internazionale Global Footprint Network che si occupa di calcolarla, viene sempre più anticipata, anno dopo anno.

L’ultimo World Population Prospect, il documento elaborato dalle Nazioni Unite che fornisce stime e proiezioni relative alla situazione demografica mondiale, annuncia che, rispetto alle ultime previsioni, i pronostici per la popolazione al 2050 parlano di un aumento di 100 milioni di individui: la stima è di 9,8 miliardi di persone, anziché 9,7. Sempre nel 2050, la popolazione della Nigeria supererà quella degli Stati Uniti, e la Nigeria diventerà il terzo Paese più grande al mondo. Nel 2100 le persone sulla Terra saranno 11,2 miliardi.

Secondo l’ONU, anche se i livelli di fertilità continueranno a diminuire la popolazione seguiterà ad aumentare. E sarà una popolazione sempre più vecchia. Paul R. Ehrlich, stimato biologo ed entomologo statunitense, sostiene ancora oggi, a 50 anni dalla pubblicazione del suo libro più famoso e controverso, The Population  Bomb, che, per non erodere risorse non rinnovabili, la popolazione ottimale del mondo dovrebbe essere di 2 miliardi di persone. Quasi 6 miliardi in meno rispetto al numero degli abitanti attuali del pianeta.

Pur considerando sovrastimati i calcoli di Ehrlich, resta evidente che tali numeri descrivono un quadro globale difficile e impegnativo per i governi che intendano implementare l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite” un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto dai governi dei 193 Paesi membri. Molte delle sfide che la comunità internazionale si è posta sono strettamente legate agli attuali modelli alimentari, caratterizzati da sistemi di produzione, distribuzione e consumo inadeguati, che stanno mettendo a dura prova i limiti naturali del pianeta e non consentono la tutela delle risorse nei confronti delle generazioni future.

Gli effetti negativi di un sistema alimentare non sostenibile vanno infatti ben oltre la fame e si manifestano anche nell’incremento dei flussi migratori, nelle tensioni ai confini tra gli Stati e in paradossi come la coesistenza di obesità, malnutrizione e spreco di cibo. Il Gruppo Barilla, leader mondiale nel mercato della pasta, è tra i principali attori internazionali che ormai da tempo perseguono politiche volte a promuovere uno sviluppo sostenibile.

Conciliare ed equilibrare dimensione economica, dimensione sociale e dimensione ambientale diventa per i grandi marchi un passaggio obbligato per rispondere a uno scenario globale complesso, caratterizzato da sistemi di produzione, distribuzione e consumo non sempre difendibili.

“Buono per Te, Buono per il Pianeta” è la missione che ormai da anni Barilla persegue, e che rappresenta per l’azienda l’unico modo di fare impresa

Un impegno che, nella visione di uno dei Gruppi più noti al mondo, si concretizza in benefici per le persone, in termini di cibo buono e nutrizionalmente equilibrato perché proveniente da materie prime selezionate e da filiere responsabili. E che, in termini operativi, significa trasformare gli ingredienti derivati da filiere gestite responsabilmente, nel rispetto di persone, animali, ambiente.

Quando si nomina Barilla non c’è persona che non pensi alla pasta, piatto simbolo dell’italianità a tavola e marchio di fabbrica del made in Italy nel mondo. Per descrivere la realtà Barilla si potrebbe riformulare uno degli spot più famosi realizzati dall’azienda:

“Dove c’è Barilla, c’è pasta”. Perché “pasta” è un termine intraducibile: in tutto il mondo, pasta è, semplicemente, pasta. E pasta è Barilla.

La pasta è un alimento ormai diffuso a livello globale, entrato a pieno titolo nei regimi alimentari di molti Paesi. Gli italiani ne sono indubbiamente i principali consumatori, con 26 kg di pasta a testa l’anno. Negli Stai Uniti, dove la pasta era apprezzata alla Casa Bianca ai tempi del presidente Thomas Jefferson, il consumo pro capite annuo è di 8,8 kg a testa. Segue l’Iran, dove le famiglie preferiscono sempre più i piatti occidentali rivisitati sulla base delle ricette tradizionali, con 8,5 kg. In Francia, la cui tradizione della pasta ha inizio nel XVIII secolo, oggi il consumo annuale è di 8 kg a testa. Non da meno l’Argentina, amante dei fusilli e delle fettuccine, con 7,9 kg, e il Canada, dove la pasta viene considerata sempre più un alimento sano e gustoso e il consumo pro capite è notevolmente cresciuto negli ultimi anni, fino ad arrivare agli attuali 6,5 kg pro capite.

Come più volte sottolineato da Guido Barilla, presidente del gruppo, “nutrire una popolazione mondiale in costante crescita con prodotti buoni, e senza danneggiare il pianeta, rappresenta una delle grandi sfide del nostro tempo”. Una sfida con impatti ambientali, sociopolitici e macroeconomici ancora incerti, sui quali governi, capi di Stato, forum mondiali si confrontano giorno per giorno. Una sfida che guida ormai da anni le scelte del Gruppo Barilla. L’azienda, nata a Parma nel 1877, possiede oggi 28 siti produttivi – 14 in Italia e 14 all’estro – ed esporta in più di 100 Paesi. Dagli stabilimenti escono ogni anno circa 1.800.000 tonnellate di prodotti alimentari, che vengono consumati sulle tavole di tutto il mondo. Prodotti che nascono da un percorso virtuoso, quello della sostenibilità, che guida da anni le scelte del gruppo: Barilla prevede di investire circa 1 miliardo di euro in 5 anni nel proprio assetto industriale. Il 60% di tale investimento sarà finalizzato ad aumentare il livello di sostenibilità e competitività attraverso il miglioramento di processi e tecnologie, mentre il restante 40% sarà indirizzato a supportare la crescita geografica e l’innovazione. Un impegno dal campo alla tavola.

Lo scorso anno l’azienda italiana ha acquistato in media, nei vari Paesi con sedi di produzione, più di 1.000.000 di tonnellate di grano duro (il 90% del totale) direttamente nel luogo dove la pasta viene prodotta. Questo significa anche meno camion sulle strade a favore di trasporti più sostenibili, come l’innovativo treno del grano. Gran parte della materia prima prodotta in Italia, per esempio, arriva nello stabilimento parmigiano di Barilla su rotaia: un convoglio formato da 20 vagoni, per una lunghezza totale di 400 metri. Il treno del grano ha permesso di ridurre in media di 1100 tonnellate l’anno l’emissione di gas serra e di 3300 mezzi la circolazione di camion sulle strade europee.

Nel nostro Paese Barilla ha stipulato inoltre contratti di coltivazione con gli agricoltori italiani. Grazie a questi accordi, 5000 aziende agricole possono accedere ai finanziamenti del MIPAFF (Ministero per le Politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo). Un investimento per Barilla pari a 240 milioni di euro per una superficie destinata alla coltivazione del grano duro di alta qualità di 65.000 ettari: il 6% di quella nazionale. Da qui al 2030 il gruppo si prefigge di portare a 10.000  il numero di agricoltori coinvolti nel programma, raddoppiando i volumi di grano da filiera italiana, oltre che di ridurre le emissioni di CO2 e i consumi di acqua. Nei pastifici del gruppo, per ogni tonnellata prodotta dal 2010 a oggi Barilla ha ridotto i consumi idrici del 31% e le emissioni di gas serra del 24%.

La produzione agricola e i processi di trasformazione degli alimenti risultano essere infatti due fonti primarie di emissione di gas a effetto serra. Studi recenti stimano che al settore agricolo e alimentare siano riconducibili il 30% dell’energia consumata a livello globale e circa il 20% delle emissioni di gas serra nel mondo. In particolare, in Europa più di un quarto dei consumi di energia sono riconducibili alla coltivazione e alla lavorazione dei prodotti alimentari, mentre negli Stati Uniti si stima che le attività agricole contribuiscano per circa il 10% alle emissioni totali di gas serra, attestandosi oltre i 600 milioni di tonnellate di CO2. Tuttavia, fra i diversi tipi di lavorazioni alimentari si riscontrano differenze significative: per esempio un piatto di pasta, dalla coltivazione del grano alla cottura in cucina, comporta l’emissione di 1013 grammi di CO2 per chilo di prodotto, mentre un piatto a base di carne ha un impatto sul clima 20 volte superiore.

Le scelte alimentari dei consumatori possono indubbiamente influenzare l’intera filiera agroalimentare, orientando l’industria della trasformazione alimentare e, di conseguenza, il mondo dell’agricoltura verso la lavorazione di materie prime a minor impatto sull’ambiente.

Nel 2018 Barilla ha ricevuto il Sustainable Business Award, per la propria strategia “Buono per Te, Buono per il Pianeta” e per l’impegno nella realizzazione di una catena di fornitura sostenibile, in particolare grazie ai progetti legati alla coltivazione del grano duro. Il prestigioso riconoscimento premia le società che maggiormente si sono distinte per la sostenibilità del proprio business e per la capacità di integrare gli obiettivi di sostenibilità nella strategia aziendale di lungo periodo.

Per Barilla, così come per i grandi marchi che operano nel campo dell’alimentazione, offrire un contributo concreto alle sfide globali lanciate dalle Nazioni Unite su cibo e nutrizione significherà, e non solo entro il 2030, creare una perfetta convergenza tra priorità di business, da un lato, e sostenibilità dall’altro. Intendendo la sostenibilità non solo come un processo, ma anche come un percorso fatto di azioni concrete in grado di elaborare progetti utili a guardare con speranza al futuro del nostro pianeta.

In una recente intervista Kim Stanley Robinson, autore di opere di fantascienza tra cui la famosa Trilogia di Marte con cui ha vinto i prestigiosi premi Hugo e Nebula, ha affermato che svuotare la Terra da metà degli esseri umani è l’unico modo per salvare il pianeta (“Empty half the Earth of its humans. It’s the only way to save the planet”). Pur nella sua formulazione fantascientifica, l’autore non allude a un genocidio di massa, ma semplicemente alla necessità di creare superfici vuote sul pianeta, gestendo correttamente l’urbanizzazione e lasciando così più spazio alla natura, perché possa tornare ai suoi aspetti primordiali. Paesaggi per lo più spopolati che verrebbero poi ceduti a nuovi tipi di agricoltura e pascoli, dove il carbonio verrà estratto dall’atmosfera e fissato al terreno, in modo permanente o temporaneo, in modo da riportare la CO2 a livelli accettabili.

Opzioni realizzabili? Futurbili? O frutto di fantasia? Una cosa può essere detta con certezza: la situazione attuale è insostenibile e le cose cambieranno comunque. Perché non abbiamo alternative: non esiste un pianeta B. Abbiamo solo questo pianeta, la Terra. Adattarci alle sue esigenze deve diventare il progetto di vita di ciascun individuo appartenente agli 8 miliardi di esseri umani che attualmente la popolano.