In un’Europa in cui il senso di responsabilità pare appartenere ormai a pochi leader, Angela Merkel ha rappresentato per tredici anni di cancellierato un esempio di riformismo e di stabilità per l’intera area dell’euro durante la crisi dei debiti sovrani. L’economista Veronica De Romanis è la più capace analista dell’epopea della “mutti” dei tedeschi sulla quale ha scritto “Il caso Germania. Così la Merkel salva l'Europa” (Marsilio, 2013) e prima “Il metodo Merkel. Il pragmatismo alla guida dell'Europa” (Marsilio, 2009). De Romanis ha vissuto a Francoforte, ha lavorato al ministero dell’Economia e ora insegna Politica Economica Europea alla Stanford University a Firenze e alla all’Università Luiss di Roma. Con lei abbiamo ripercorso gli ultimi anni della leadership di Merkel, alla quale si deve la salvaguardia dell’integrità dell’euro, il superamento della crisi dei paesi più deboli, e la difesa dell’ordine liberale messo ultimamente in discussione dai partiti populisti. Alla cancelliera venuta dalla Germania est si deve insomma il merito di avere salvato l’Europa con il metodo della ricerca del compromesso, che non significa non avere avuto coraggio, o di sapere procedere solo per prova-errore come suggerirebbe il metodo scientifico, essendo la cancelliera un fisico. Anzi, come vedremo, guidati dalla professoressa De Romanis, Merkel è spesso arrivata a tentare l’azzardo, a sfidare il suo partito, la Cdu, e i potentati economici tedeschi, come la Bundesbank, e senza mai usare né in pratica né in retorica l’essere donna, ma dimostrando di essere uno dei politici più competenti e capaci di questo inizio millennio. Un ritratto diverso, quasi opposto, da quello che viene da anni offerto in Italia, dove è dipinta come l’artefice, in parte, dei guai nazionali.

Partiamo dal 2012 quando la Grecia era attraversata da proteste di piazza e si discuteva del suo salvataggio da parte degli altri paesi europei e del Fondo monetario internazionale. “Ricordiamo – dice De Romanis – che in Germania la stampa era scatenata: spiegavano come la colpa fosse unicamente dei greci che avevano sopra dei loro redditi, avevano truccato i conti. Quindi c’era un problema anche di fiducia – condividere una moneta significa che ti devi fidare degli altri membri del condominio. C’era una opinione pubblica abbastanza compatta nel pensare che il problema greco, i greci se lo dovessero risolvere da soli. È chiaro che ben presto quel problema è diventato europeo e quindi la Merkel è riuscita a spiegare a convincere il Parlamento e i tedeschi”. Andò anche ad Atene per mostrare solidarietà al popolo greco. “Fu l’unica che andò in Grecia, la prima, fu ricevuta dal premier Antonis Samaras. E fu accolta molto male: c’erano le sue foto con un fotomontaggio con i baffetti alla Adolf Hitler. L’idea era dire ai greci noi vi aiutiamo ma alla ‘solidarietà’ deve corrispondere la ‘responsabilità’. Con queste due parole ha spiegato, rivolta ai tedeschi, che non stiamo facendo un regalo, un dono, ma un prestito. Quindi prestito significa che bisognava mettere delle condizionalità e che dobbiamo fare in modo che la Grecia, invertendo il suo modello di sviluppo, possa un domani restituire il proprio prestito. In questo modo ha convinto il Parlamento tedesco, e l’ha fatto soprattutto perché era necessario per la stabilità dell’intera area euro. Non è stato facile, però è stato l’inizio di un percorso: di salvataggi in Grecia ce ne sono stati due e ci sono stati altri paesi salvati (Spagna, Irlanda, Portogallo) e se andiamo a vedere i voti che man mano ha ottenuto scopriamo un dato interessante: l’ultimo salvataggio greco, nel 2015, sono quadruplicati i voti contrari dalle fila della maggioranza del suo governo. Questo fa capire l’umore del suo partito”.

Non fu insomma indolore per Merkel, ma un sacrificio anche di consenso interno alla Cdu che però è stata anche una scommessa rischiosa. “Un voto negativo avrebbe significato mettere seriamente a rischio la stabilità dell’area e l’intero progetto dell’euro. È stata molto importante la sua opera di convincimento. È un punto interessante perché Merkel è sempre considerata la madrina dell’austerità, intesa come condizioni, che poi non sono solo aggiustamento fiscale ma anche riforme. E la mia domanda è: chi altro leader politico poteva andare in Parlamento, chiedere l’approvazione di un salvataggio per la Grecia e per altri, dicendo stiamo facendo un regalo e questi soldi non li vedremo mai più? Era chiaro che dovevano esserci delle condizioni. Non sono stati assegni in bianco. Viene anche spesso descritta come un leader cauto, con un pragmatismo tattico e non strategico, cioè di breve e non di lungo termine, in realtà sembra avere avuto un coraggio straordinario. “Ha cominciato a creare delle frizioni all’interno del suo partito di certo, e benché soprattutto in Italia venga considerata l’artefice dell’austerità e del rigore, in realtà probabilmente la rimpiangeremo anche qui. All’interno della Cdu infatti l’atteggiamento era molto più rigorista, a cominciare dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble.

Lei ha cercato di trovare una posizione di compromesso sia con gesti simbolici, come andare in Grecia nonostante una accoglienza pessima, sia con delle condizioni che, diciamolo, erano basate su degli obiettivi di finanza pubblica, sui quali hanno deciso i governi nazionali attraverso i parlamenti. C’è autonomia non un’imposizione esterna, infatti ci sono alcuni piani di salvataggio che hanno funzionato meglio di altri”.

Merkel non ha sfidato solo Schauble ma anche la resistenza di un establishment finanziario, dalle grandi banche alle assicurazioni, che fin dagli anni Novanta dimostra scetticismo verso l’idea di imbarcare nell’euro i paesi della periferia, compresa l’Italia. Merkel ha sfidato anche questi potentati non secondari. “La Merkel ha sempre avuto una posizione chiarissima, e l’ha dimostrato con la sua volontà, sul fatto che la Germania ha bisogno di stare all’interno dell’unione monetaria e l’unione monetaria deve essere un’area di stabilità e, ovviamente, di crescita sostenibile. Per lei se ci sono fonti di instabilità, quindi paesi che creano tensioni, vanno aiutati. E sempre con la solita formula: solidarietà in cambio di responsabilità. Bisogna dire che, in realtà, come ricorda spesso anche Mario Draghi, questi salvataggi hanno funzionato: tutti i paesi che sono stati salvati, Portogallo, Irlanda e Spagna, sono i paesi che adesso crescono di più”. Al presidente della Banca centrale europea viene spesso attribuito il merito di “avere salvato l’euro” con il programma di acquisto di titoli pubblici e privati, il Quantitative easing (Qe) chiuso a inizio 2019. Ma capiamo che questo merito dovrebbe essere condiviso con la cancelliera. D’altronde le politiche monetarie straordinarie di Draghi senza un avallo tedesco. “Certo Merkel ha messo in sicurezza il progetto dell’euro. A un certo punto si parlava seriamente di una Grexit il cui impatto sarebbe stato esiziale per la moneta unica. In Germania si parlava della ‘teoria della catena’, ovvero c’era chi diceva che la Grecia è l’ultimo anello (debole) di una catena e se fosse uscita la catena si sarebbe rafforzata senza alcuna conseguenza negativa. Ma c’era anche chi sosteneva la ‘teoria dell’effetto domino’, e Merkel era fra questi, ovvero che se non si fosse salvata la Grecia avremmo avuto un contagio, come poi è stato tanto che si è sentito anche da noi. Per quanto riguarda il Qe c’è stato un lavoro con la Bce perché nel 2012-2013 era chiaro come fosse necessario mettere in campo degli strumenti di politica monetaria non convenzionali. Gli strumenti ordinari a disposizione della Bce, infatti, non stavano più funzionando: abbassare i tassi di interesse non aveva più un impatto sull’economia europea e quindi bisognava intervenire con altro. Anche in quel caso i tedeschi erano estremamente contrari a cominciare dal presidente della Bundesbank (BuBa), Jens Weidmann, che considerava il Qe una ‘droga’, anzi l’ha detto più volte pubblicamente. Weidmann è stato molto esplicito, insieme a Sabine Lautenschlager, altro membro tedesco del comitato esecutivo della Bce, nel dire che darà la possibilità ai paesi di non mettere a posto i loro conti pubblici. Non l’ha detto tanto a torto: se guardiamo i conti italiani, la riduzione del disavanzo dal 2014 al 2017 è unicamente ascrivibile a una riduzione della spesa per interessi, quindi c’è l’effetto del Qe. Lì Merkel è stata molto brava perché è riuscita a non creare un conflitto con il presidente della BuBa, che avrebbe creato un grandissimo problema. Anzitutto a livello personale, Weidmann è stato suo consigliere economico durante il primo mandato, e poi perché, si dice in Germania, che ‘non tutti credono in Dio ma tutti credono alla BuBa’. La Banca centrale tedesca è un’istituzione, quindi un conflitto tra cancelleria e BuBa non avrebbe giovato a nessuno. Da un lato, lei ha dichiarato che la BuBa faceva bene a fare sentire la propria voce - fermo restando che le regole alla Bce dicono che la BuBa ha un voto come il governatore cipriota, infatti il Qe è passato. Dall’altro lato, ha sempre detto che il Qe era necessario, ma ha fatto in modo di ottenere in cambio il Fiscal compact, un accordo che metteva regole più stringenti sui conti pubblici proprio per ridurre il grado di azzardo morale”.

La cavalcata di Merkel nella crisi dell’euro debito, così descritta, restituisce l’immagine di una cancelliera del tutto diversa, anzi opposta, rispetto alla visione che si propone nei paesi periferici, quella vista in Grecia con ritratti hitleriani, ma anche in Italia, dove è considerata la matrigna d’Europa.

Non era raro sentire parlare in Italia di una Germania vincolante per gli altri paesi nemmeno dal Partito Democratico. E ora con toni più sprezzanti verso i “tecnocrati” sentire considerazioni simili dal Movimento 5 stelle o dalla Lega, il primo governo populista europeo. Una sfiducia quella verso Merkel che, a conti fatti, è infondata e mal riposta. “E’ stato facile darle l’etichetta di colei che voleva l’austerità. Ma chi oggi, o in passato, chi in politica sostiene questa tesi ci deve spiegare se invece sarebbe d’accordo nel regalare soldi ai paesi in difficoltà e se avrebbe la forza di dirlo in Parlamento. Ricordiamoci che all’Italia tutti questi salvataggi sono costati 60 miliardi di euro che impattano sul debito pubblico, su cui si pagano interessi sottraendo quindi risorse ad altri usi come, per esempio, Sanità e istruzione. Altra cosa sarebbe considerarli un regalo, sarebbe stato complicato farlo anche per i politici italiani. Per quanto riguarda l’austerità – De Romanis lo ripete per l’ennesima volta – in Italia c’è stata solo con il governo Monti ed è scattata come effetto contagio della crisi greca. Ed ecco l’importanza di rispettare le regole anche per la stabilità degli altri perché il contagio inizia prima dove ci sono delle vulnerabilità. Ed avendo l’Italia il secondo debito pubblico più alto dell’area gli investitori hanno subito pensato che potevamo essere il prossimo paese ad andare in crisi. Finito il governo Monti, però, la politica fiscale è sempre stata espansiva: quindi l’austerità non c’è stata, eppure politici sia dell’epoca sia quelli attuali continuano a dipingere un quadro che non rispecchia la realtà”. Qual è stato il rapporto di Merkel con l’Italia dunque, al di là della conoscenza del luoghi di villeggiatura? “(Ride) Beh Merkel va a Ischia e le piace molto. Un aneddoto interessante è che lei prende l’aereo di stato e al marito fa prendere un aereo di linea proprio per non dare nessun privilegio. Ha un rapporto molto positivo con l’Italia, è la terza economia dell’euro dopo Germania e Francia, ed è chiaro che è un partner importante. L’asse principale è stato con la Francia, ma l’Italia è un partner con cui dialogare e quindi c’è sempre collaborazione”.

Una delle maggiori critiche ricevute da Merkel è stata quella di prendere in solitaria la decisione di aprire le porte ai rifugiati nel 2015. Questo è stato probabilmente un errore tattico pagato nelle successive elezioni locali. “Ha preso questa scelta guidata anche da una sua esperienza personale.

Non possiamo prescindere dalla sua infanzia e il modo in cui è stata educata per analizzarla. E’ figlia di un pastore protestante che decise di trasferire tutta la famiglia dall’ovest all’est, cosa inusuale e inconsueta, dove lui stabilì un seminario per preti. E’ cresciuta nella parte est ma con una educazione assolutamente occidentale perché veniva da Amburgo. Quindi, quando ha preso quella decisione, ha spiegato che, avendo vissuto 35 anni dall’altra parte del muro, sapeva cosa significava vivere in un regime senza libertà. E ha detto di capire le persone che scappano dalla guerra e dalle torture. Forse nella gestione della immigrazione ha anche dei suoi valori personali, rispetto agli altri leader europei, che vengono da un’esperienza di vita. Peraltro, essendo figlia di un pastore protestante che non contribuiva al regime sovietico, è stata molto discriminata all’epoca insieme alla sua famiglia. Veniva spiati dalla Stasi. Non un’infanzia facilissima. E’ un elemento da tenere in considerazione. A mio avviso ha fatto l’errore di non condividere la decisione né con il suo partito né con il suo alleato gemello bavarese, la Csu, né con gli altri partner europei. È chiaro che una decisione simile ha un impatto sulla Germania ma anche sull’intera Europa”.

Come mai Merkel non ha condiviso la scelta? “Penso non abbia calcolato le conseguenze. È stato detto ‘siamo un paese grande e non possiamo tirarci indietro’. Ecco di certo ha sottovalutato la gestione di stock e flussi. La Germania è un paese che gestisce storicamente una enorme quantità di popolazione che viene dalla Turchia, e non c’è nessun problema. Però una cosa è gestire un flusso enorme di siriani, che erano la maggiore parte, che arrivano tutti nello stesso momento. Chiaramente la popolazione è rimasta molto disorientata, si è impaurita e veramente pensava di non potere gestire tutte quelle persone nello stesso momento. C’è stato l’errore di sottovalutare quella situazione. Oggi una parte di queste persone lavorano, la macchina tedesca è in parte riuscita a integrarli. Ma in quel frangente Merkel ha perso consenso e ha servito su un piatto d’argento popolarità al partito Alternative für Deutschland (AfD), che all’epoca era abbastanza circoscritto. AfD nato dall’idea di professori di economia antieuro con il proposito di uscire dall’‘euro degli spendaccioni’ per fare un ‘nostro’ euro con i paesi virtuosi. Poi mano a mano ha capito che era bene prendere la protesta dei rigoristi, ma anche quella di chi era contro l’immigrazione. Quindi Afd ha cambiato leadership e ha intrapreso una battaglia contro la decisione delle ‘porte aperte’ di Merkel e questo gli ha dato un bel po’ di voti presi dalla Cdu, e soprattutto dalla Csu, la parte più a destra dell'alleanza”.

È stato un errore fondamentale lasciare un ‘buco’ a destra. “Sì oggi l’Afd è al 13-14 per cento, però non ha sfondato come ci si aspettava. E lo abbiamo visto alle elezioni in Baviera con il successo dei Verdi. Anche perché, siccome questo partito cerca i voti di protesta, oramai ha diverse anime: è rimasto chi protesta contro gli spendaccioni, chi contro l’immigrazione, chi contro l’islam, e non si capisce bene qual è il loro programma. Quello cui poi i tedeschi guardano, e che vogliono, è un paese che cresce e dà lavoro. E se guardiamo all’eredità della Merkel abbiamo un paese con la disoccupazione ai minimi storici”.

La situazione economica in parte vendica Merkel, probabilmente senza che lei abbia fatto questo calcolo, perché al momento c’è necessità di popolazione immigrata per soddisfare picchi di domanda di forza lavoro. “Ecco l’importanza di conti pubblici in ordine, la Germania è in surplus di bilancio, e questo le consente di avere un cuscinetto da investire nell’integrazione di queste persone che poi si trasformano in lavoratori tedeschi”. Secondo lei Merkel resta ancora oggi un politico impareggiabile dal punto di vista dei tedeschi? “Resta il politico più popolare. Penso che dopo quattro mandati, al tredicesimo anno alla cancelleria, è chiaro che c’è una stanchezza. Ricordiamoci che non si voleva ricandidare per il quarto mandato, lo fece con l’arrivo dell’Amministrazione di Donald Trump perché lui, ancora prima di essere eletto, aveva cominciato la sua battaglia contro la Germania e in particolare il suo surplus commerciale e con l’idea di una politica protezionistica. Merkel quando si è candidata ha fatto un discorso molto chiaro, per spiegare la sua candidatura, ovvero di essere ‘portatori di valori europei’ ed essere ‘’artefici del nostro destino. Si è presentata a capo dei leader europei per confrontarsi con Trump con l’idea di stare insieme contro un’Amministrazione che ci voleva dividere e quindi indebolire l’Europa”.

Il 2018 si è chiuso tuttavia con la consapevolezza che il centrismo, anche quello tedesco, non ha del tutto resistito alle pressioni dei partiti populisti, ma altrettanto, nemmeno certe istanze politiche divisive proposte da movimenti nazionalisti, dalla Brexit ai No Euro, sono state soddisfatte: il Regno Unito deve affrontare, in caso, una uscita caotica dall’Unione europea e ancora abbiamo tutti l’euro in tasca. Insomma, nessuno ha avuto quello che voleva. “Un test saranno le elezioni europee, anche se ad oggi è troppo presto per dirlo ma i sondaggi non parlano di un’enorme avanzata dei populisti. Anche perché sono molto eterogenei fra di loro. AfD, ad esempio, ha posizioni sull’economia molto diverse da quelle che si ha in Italia, sono per più regole, più rigore, l’opposto che da noi. Ci si domanda come si potranno alleare”.

Un’altra caratteristica di Merkel è quella di non avere mai usato l’argomento di “essere donna” come tratto distintivo. Sono altri la chiamano la “donna più potente d’Europa”, ma la sua cifra è la competenza. “In Germania questa cosa non esiste, ce ne accorgiamo noi, i tedeschi guardano alla capacità. Anche la nuova presidente della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer, è di nuovo una donna. Certo che una donna così potente rappresenta un ‘role model’ per giovani donne. Per dire, la figlia di una persona che conoscevo a Francoforte, una bambina di undici anni, che quindi ha sempre visto solo Merkel a capo del paese, quando c’era la campagna per le presidenziali americane Trump contro Hillary Clinton, disse alla mamma ‘ah, ma quindi anche un uomo può correre per la presidenza di un paese?’. Nella sua testa ci sono solo le donne, questo fa capire bene come il ‘role model’ sia importante. In Germania il genere non conta, ma è vero che la Merkel rappresenta un esempio. Lei però non ha usato la sua femminilità o il suo essere donna in politica. L’ha spiegato molto chiaramente a un giornale femminile che le chiese del suo abbigliamento e lei disse che ‘chi ha il tempo di occuparsi del mio aspetto fisico deve avere una vita meravigliosa’. Ha sempre detto che il suo look non deve distrarre da quello che dice e rappresenta. Questo è un atteggiamento che ha rassicurato molto i tedeschi perché dimostra una certa autenticità. Anche il suo aspetto esteriore ha a che fare con la sua infanzia. In famiglia non avevano molti mezzi, e i vestiti le arrivavano dalla chiesa di Amburgo, città d’origine, e quindi erano di seconda mano. Non è cresciuta con l’idea che fosse importante l’esteriorità ed è stata una sua cifra politica”.

In Germania vediamo comunque un atteggiamento, anche mediatico, verso le donne quasi opposto a quello italiano dove viene enfatizzata, almeno in prima battuta, la caratteristica del genere. “C’è un’altra cultura un politica e anche sociale. La Annegret Kramp-Karrenbauer ha detto che il marito dà un grande contributo alla sua carriera. Il ministro della Difesa Ursula von der Leyen ha sette figli e se ne occupa mio marito. Quante donne in Italia potrebbero dire una cosa simile?”, conclude De Romanis.