È una città che si muove, e quindi devi muoverti anche tu. Questa è New York. Quando la sento citare salgono alla mente molti pensieri, tutti insieme; perché vivere quello che ho vissuto io nella Mela non è la storia di una persona normale che va a New York come turista o alla prima opportunità lavorativa. Io sono atterrato al John Fitzgerald Kennedy e sono entrato al Garden per vestire la maglia dei New York Knicks, un mix di sensazioni decisamente difficile da capire e da descrivere per un giocatore di basket professionista europeo. Lì (Danilo Gallinari, è oggi un giocatore dei Los Angeles Clippers, passato per un’esperienza di sei stagioni e mezzo ai Nuggets di Denver, NdR) si vive in una città che non è chiaramente America, non quella che la stragrande maggioranza degli americani stessa è abituata a vivere; un mix di culture, di situazioni, di sensazioni, di dinamismo, sempre diversi e sempre crescenti che ti obbligano a stare al passo, perché l’impressione è che tutto sia sempre un po’ più veloce, un po’ più grande, un po’ più enfatizzato di quanto dovrebbe essere, di quanto è nel resto del mondo e di quanto ti aspetteresti. E così, da giocatore professionista ti rendi conto che la città di Frank Sinatra ti sfida, e ti porta a vivere la tua professionalità in modo profondamente diverso rispetto alle altre città e franchigie NBA. Soprattutto perché l’attenzione e la pressione mediatica che vi regnano non esistono da altre parti.

Nelle interviste, dopo un allenamento o dopo una partita, difficilmente qualcuno ti chiede di pallacanestro: cercano piuttosto di punzecchiarti, forse di trovare una storia, anche non positiva, che possa interessare, fare scalpore, portare la gente a strapparsi il giornale di mano. E questo 365 giorni all’anno, che piova o ci sia il sole.

Allo stesso tempo, però, l’esperienza è favolosa, perché giocare in un impianto come il Madison Square Garden, dove si sono esibiti i grandi del Gioco (con la “G” maiuscola) e le più luminescenti stelle del firmamento dell’entertainment, sempre pieno, con un pubblico appassionato e del tutto particolare, unico nel suo genere, è motivante oltremisura. La differenza la puoi fare tu, da come affronti tutto questo, ed io penso di essermi adattato subito alla grande. Ci stavo bene in quel vestito, nella foggia di New York City. Sin da giovane (Danilo Gallinari è approdato ai New York Knicks di Mike D’Antoni il 27 giugno 2008 a 19 anni e 324 giorni, come sesta scelta assoluta di tutto quel draft, Ndr) non ho mai letto gli articoli che ci riguardavano e anche oggi non seguo particolarmente i social media. Qualsiasi cosa veniva scritta, che mi veniva riferita, mi faceva cadere un po’ dal pero, semplicemente perché non leggevo. Ho scelto di gestirla così dall’inizio, e una volta che sai gestirla diventa anche divertente.

Fuori dal campo volevo solo viverla, quella città. Quando avevo un minuto volevo e dovevo andare downtown. Noi giocatori abitavamo tutti a White Plains, a ovest dell’Hudson, vicino a dove ci si allenava e all’aeroporto dal quale si partiva per le partite in trasferta, a un’ora da Lei. Appena potevo andavo a Manhattan, ma senza posti fissi. Sono sempre stato un ragazzo che cerca di cambiare spesso; difficilmente mi lego ad alcuni posti anche se poi nascono comunque le amicizie. Se dovessi chiudere gli occhi, tirare una moneta e contemporaneamente citare una zona direi Meatpacking District, pieno di tutto, vita e locali. Ma di cosa stiamo parlando? New York è un posto dove ogni due-tre mesi aprono locali nuovi in zone diverse. Ti obbliga a muoverti per viverla e sentirla, altrimenti si gira dall’altra parte e ti esclude.

La mia vita “off the court”, anche in trasferta, è molto semplice. C’è una partita da giocare e cose a cui pensare, così difficilmente sto in camera in hotel. Solitamente, quando arrivo metto giù la mia roba, mi vesto e vado fuori a fare due passi: principalmente a cena, oppure a vedere il centro della città in cui sono, con i compagni di squadra o con amici che si trovano in città.

Quando avevo un minuto volevo e dovevo andare downtown. Noi giocatori abitavamo tutti a White Plains, a ovest dell’Hudson, vicino a dove ci si allenava e all’aeroporto dal quale si partiva per le partite in trasferta, a un’ora da Lei.

Dopo New York, per sei anni nella mia vita c’è stata Denver: decisamente un’altra America. Una città dal ritmo più basso, e dalla qualità della vita più alta. Una città molto tranquilla, che potrei descrivere con un paragone nel passaggio da Milano a Lodi: dalla città alla provincia. Un angolo che sa di pulito, pieno di parchi e laghi, là, oltre le montagne. Con tutta la gente che alla mattina va a correre, dove tutti hanno il cane, dove non c’è tanto traffico. Totalmente differente da New York, che è sempre e comunque un posto che bisogna saper affrontare. Perché quello che ti può fregare, senza mezze misure, sono le tentazioni e le distrazioni che ci sono. Dopo tutto questo rimane però ancora una cosa: se uno è focalizzato sul proprio lavoro, come accade per tutto il mondo e tutti i mercati, la cosa fondamentale sono le pubbliche relazioni. Perché a New York hai la chance di conoscere persone che probabilmente non conosceresti mai, indipendentemente dal lavoro che fai o dal motivo per cui sei lì. Se uno è concentrato sul proprio, e durante la giornata mette la testa su questo, le opportunità di pubbliche relazioni, le opportunità lavorative – piccole o grandi – che New York ti offre, sono incredibili. Uniche. D’altronde Frank Sinatra questo lo aveva sentito, capito, e lo aveva, magistralmente, tradotto per tutti noi: If I can make it there, I'm gone make it anywhere.