Minuto 56, uno pari. Minuto 95, due a uno. Stadio di Valenciennes, domenica 9 giugno 2019. «La doppietta di Barbara Bonansea contro l’Australia, all’esordio, è lo sbarco sulla luna del calcio femminile italiano. La grande accelerazione, la cosa che non puoi prevedere». Tutto il resto sì, Moris Gasparri se l’era immaginato. È successo in un mese. La diretta su Rai Uno, lo share da Festival di Sanremo, le prime pagine dei giornali. Gli sponsor che finalmente si muovono, i profili social delle “Ragazze Mondiali” che schizzano. Nemmeno il tempo della doccia e l’attaccante della Juve ha già conquistato 10 mila fan su Instagram, dove oggi è una star da 210 mila follower. Un altro pianeta. Consigliere della divisione femminile della Figc, 35enne, marchigiano, Gasparri è il cervellone del pallone rosa. Il ricercatore che da anni studia i numeri e gli scenari di mezza Europa. Quando ancora era difficile trovare un editore, con Michele Uva ha scritto un libro sul boom italiano, le grandi icone internazionali e le sfide per il futuro (“Campionesse”, Giunti, 2018). C’è bisogno di cultura, sostenibilità, investimenti, equilibrio competitivo, club universali (cioè maschili e femminili), attività di base, grandi eventi, raccomandava nella sua ricetta. Undici ingredienti a cui dopo i gol storici di Bonansea ne aggiungerebbe un altro: «Calma. Serve l’entusiasmo e servono i passi giusti. Questa generazione che ci ha portato al Mondiale fino a tre anni fa nemmeno pensava di poter vivere di calcio. Hanno cambiato fisici e abitudini, si sono ritrovate in una enorme bolla comunicativa». E pure il presunto picco di nuove baby calciatrici può nascondere insidie: «In ogni crescita troppo veloce ci sono delle controindicazioni». Dagli impianti che vanno ripensati con spazi ad hoc (bagni, spogliatoi, campi) agli allenatori che devono specializzarsi.

È presto per fare i conti. Secondo Gasparri le 26 mila tesserate, che negli ultimi anni aumentavano di mille/duemila unità a stagione, dovrebbero sfondare il muro delle 30 mila a primavera. Le stime per ora parlano di un +40%. E i dati della Figc a Torino confermano il trend. «Grazie alla Juve la nostra città è diventata il riferimento, una capitale com’era Brescia» spiega Paolo Genovesio, 36anni, “mister” nelle società dilettantistiche e selezionatore della under15 femminile piemontese e valdostana. Da anni è il braccio destro di Rita Guarino nell’academy per il perfezionamento individuale fondata dalla allenatrice bianconera. Un porto dove sono passate migliaia di famiglie. «Una volta avevamo una bambina su 50, oggi 7-8. È diverso il modo in cui gli altri le guardano. Prima le bimbe avevano solo riferimenti maschili, oggi i bambini conoscono i nomi delle calciatrici. Le piccole sono molto più protagoniste». Anche a scuola. «Il calcio femminile ci ha permesso di tornare nelle classi. Prima coinvolgevamo solo metà degli studenti, era un problema. Ora i progetti federali sono aumentati e sono per tutti. Genitori e insegnanti hanno un nuovo approccio. Certo, resta la fatica. Ma la tv, con le dirette su Sky e Rai, ci sta aiutando a convincere un’utenza fino a ieri reticente». Sarà quella la prossima partita fondamentale: i diritti del campionato di Serie A per le stagioni 2020-2021 e 2021-2022. Finora erano stati messi a bando a cifre simboliche. Adesso dovrebbero arrivare i milioni. Altro passaggio decisivo sarà l’avvento di un title sponsor per la Serie A. In Inghilterra c’è Barclays, come per la maschile. In Italia le aziende hanno appena fiutato l’affare: M&M’s sulle maglie della Juve, Pasta Granoro accanto alla Fiorentina, i cosmetici Pupa per la nazionale, la Barbie di Sara Gama, sono i segnali più incoraggianti per gli addetti ai lavori. Luci tra le ombre di un settore dove ci sono ancora top player pagate a cambio merce dalle multinazionali. E club che attraversano l’Italia in bus perché non possono permettersi l’aereo.

Quanta strada, però. Vent’anni fa, all’ultimo Mondiale giocato dalle azzurre prima di questo (esatto, alcune ragazze di Valenciennes erano appena nate), Guarino e compagne indossavano divise da uomo. Se le dovettero lavare da sole e al ritorno a casa le pagarono pure. La spesa fu scalata dalla diaria, un oltraggio ricordato in un libro della CT Bertolini uscito qualche mese fa (“Quelle che… il calcio”, Aliberti, con Domenico Savino). Era il 1999. Poco dopo, Kappa, allora sponsor della nazionale, propose alla Federazione di confezionare un completino su misura. «Ottenemmo di poter realizzare una fornitura da gara. Andai di persona a presentare le maglie – ricorda Emanuele Ostini - com’ero andato a Coverciano per i maschi. Molte di quelle calciatrici oggi allenano in Serie A». Ostini invece è diventato global manager del marchio, il più famoso della galassia torinese Basic Net. «Il calcio è lo sport principale per Kappa e operiamo in tutto il mondo. I mercati più importanti per noi sono Europa e Sud-America: anche se i Mondiali sono stati spettacolari e il prodotto televisivo adesso è piacevole, in queste aree tra chi fa business non si parla ancora molto di femminile». Ecco perché Kappa per il momento ha un atteggiamento prudente. «Meglio stare un attimo alla finestra. Negli Stati Uniti invece ci punterei subito, i rapporti sono completamente invertiti e ormai le calciatrici sono testimonial pazzesche». Quest’estate Nike ha fatto sapere che la maglia usata dalle americane in Francia è stata la più venduta di sempre in una singola stagione, su Nike.com.

Decathlon, un termometro sui comportamenti delle famiglie, ci scommette già. «Il calcio femminile è al centro della strategia di Kipsta, il nostro brand per gli sport di squadra» dicono dagli uffici di Lille, dove si lavora su collezioni dedicate sin dal 2017. Il capo è una donna calciatrice, che ha riunito una squadra di colleghe praticanti, per testare e sviluppare i prodotti. La catena francese vince facile in casa, perché la federazione transalpina spinge da anni e si è data l’obiettivo delle 300 mila tesserate, frontiera mai raggiunta nemmeno dalla Germania. In Italia l’azienda crede in particolare nel calcio a 5: ha un brand specifico appena nato, Imviso, e un’altra manager goleador. «Nel mondo si stima che ci siano 2 milioni di giocatrici di futsal» racconta Sabrina Riviere. «Nel nostro paese i numeri sono in crescita lenta ma costante». Moris Gasparri dice che bisogna andare a guardare proprio lì, nei campetti di Milano dove si stanno formando le prime squadre miste. Donne e uomini insieme. Il calcetto dopo il lavoro e dopo l’università, il calcetto con i colleghi che cambia pelle. Sono i genitori di domani e non avranno più paura per le loro figlie: è uno sport per tutti.

Milena Bertolini

Milena Bertolini continua a ripeterlo: “L’importante è la testa”. Come in Francia, più di prima. La CT che ha fatto la storia guidando le azzurre fino ai quarti, da mesi lavora per aggiungere un altro capitolo alla favola dei Mondiali. Quello più difficile, quello in cui “si torna alla realtà”. E si vola ai prossimi Europei. «Dopo l’estate c’è tanta stanchezza mentale» spiega la 53enne di Correggio, già calciatrice, assessore allo sport, preparatore atletico, consigliere federale e allenatrice del Brescia dov'è cresciuta mezza nazionale. Ora ha due compiti: surfare l’onda del boom. E aiutare le sue atlete a non farsi travolgere.

Come si smaltisce la sbornia del Mondiale?

Già prima, per un anno e mezzo uno psicologo ci ha accompagnate. Ora stiamo valutando se proseguire, ma dobbiamo più che altro affrontare tra di noi questo problema. Rendercelo visibile, parlarne nei nostri colloqui.

Nel suo libro "Giocare con le tette" distingueva tra calcio etico e calcio epico. Quale avete messo in campo in Francia? Su quale punterete adesso?

L’epica è quello che fai, non quello che dici. Il calcio delle ragazze al Mondiale è stato sia etico che epico. Ora devono andare avanti con l’etica che ha contraddistinto la nazionale e il settore femminile in questi anni. Ma devono lavorare ancora di più perché tutto questo non è sufficiente. Occorre un calcio con più impegno.

Laura Giuliani, il “vostro Buffon” che fino a qualche stagione fa faceva il portiere e la panettiera, è solo un esempio. I sacrifici e la fatica hanno moltiplicato il valore tecnico delle sue giocatrici, in Francia?

Per loro era una missione farsi conoscere. Un obiettivo comune. Hanno avuto questa possibilità e tutto quello che hanno vissuto prima, le sofferenze e le difficoltà, si sono trasformate in uno strumento importantissimo per tirar fuori quello che avevano dentro. Quando soffri così diventi più forte.

Anche lei ha raccontato di essere stata discriminata da piccola. Si è portata in panchina la bambina Milena, quella che veniva scambiata per un maschietto?

Mi sono portata tutto il mio percorso passato. Le difficoltà da bimba e da grande. Anche gli allenamenti alle dieci di sera a meno undici gradi, su campi al buio: li illuminavamo con i fari delle macchine. Mi sono portata tutto e ci siamo portate tutto.

Megan Rapinoe, la capitana americana che sfida Trump, dice che il calcio femminile deve cambiare la società. Che cosa avete cambiato, voi, dell’Italia?

Abbiamo fatto vedere che un calcio etico, un calcio di valori è possibile. Che questo sport è per tutti. E quanto è grande la forza delle donne. Abbiamo aperto qualche strada per un cambiamento culturale. Sono processi lenti, ma qualcosa queste ragazze hanno mosso.

Che cosa fa Milena Bertolini quando non è in raduno? Studia le rivali in giro per l’Europa?

Dopo il Mondiale sono arrivate mille richieste da tutte le parti: incontri, convegni, interviste. Non ho avuto tempo di viaggiare per il calcio giocato. Al week-end vado a vedere le partite e il maschile, ma per il resto è stato un periodo pieno di impegni istituzionali.

Giusto o sbagliato?

È importantissima questa fase. Anni fa l’avremmo voluta tanto, adesso c’è. Questo aspetto fa parte del mio ruolo e di quello delle ragazze. Ci chiamano, vogliono parlare di noi e di calcio femminile: quando vai fai crescere le persone. È fondamentale.

La riconoscono per strada? Che cosa le dicono?

Quest’estate molte donne mi hanno fermata. E molte nonne. Dicono che siamo state eccezionali e le abbiamo fatto emozionare. Quasi come se avessimo riscattato anche loro, le loro sofferenze, quello che non hanno potuto fare.

Le “Ragazze Mondiali” possono continuare a emozionare? C’è il pericolo che si montino la testa?

Per emozionare ancora devono essere come sono state in Francia: autentiche, semplici, naturali. E devono metterci forza. C’è il rischio della pancia piena, sì. Il rischio che non ci sia più la fame che c’era là, la fame che deriva dalla sofferenza. Con gli agi e i riconoscimenti ci si può sentire appagate.

Il rischio è più alto per le giovani, che non hanno mai combattuto?

No, per loro ci sono le opportunità per fare veramente le calciatrici e avere soddisfazioni incredibili. Non è giusto che passino quello abbiamo passato noi. Certo, hanno tanto di più e devono saper cogliere le occasioni. Qualcuna ci riuscirà e qualcuna no.

In Italia tra gli 11 e i 20 anni il 40% delle ragazze smette di fare sport. Qualcuna magari continuerebbe se potesse avvicinarsi al calcio. Consigli alle mamme?

Le mamme devono stimolare le bambine a fare sport, qualsiasi disciplina va bene. Se le figlie scelgono il calcio devono essere assecondate, perché devono fare quello che amano. Quello che a loro piace. Calcio è uno sport bellissimo e importante per le bambine: ci sono la squadra, lo spogliatoio, il contatto fisico che fa crescere l’autostima e la fiducia. Incide molto sull’aspetto psicologico. È una palestra per la vita. 

Marta Carissimi

«Sono arrivata presto. Ho guardato lo stadio riempirsi e mi sono detta: okay, è cambiato qualcosa. Ero emozionatissima, come quando vedi un sogno realizzarsi. Abbiamo combattuto tante battaglie, ci abbiamo messo la faccia. Quel giorno ho capito: la macchina del calcio femminile era partita per non fermarsi più». Juventus-Fiorentina, 24 marzo 2019, Allianz Stadium. Marta Carissimi in tribuna si gode una prima volta storica: le donne sullo stesso prato dei maschi. Nella sua città. Classe 1987, laureata al Politecnico, cresciuta nel vivaio granata, dal 2018 la centrocampista torinese è un pilastro del Milan. A 16 anni ha esordito in Serie A, per più di dieci è stata in nazionale. È il simbolo di un movimento che si sta trasformando: gioca e lavora. Un’eccezione, oggi. La regola fino a un paio di stagioni fa.

Com’è la sua giornata tipo?

Abito a Torino. Mi sveglio alle sei. Prendo la metro, il treno per Milano, il tram fino al campo del Milan. Mi alleno e torno indietro. Salgo in auto, guido 40 chilometri e vado in ufficio. Sono fortunata, abbiamo un’azienda di famiglia, da nessun’altra parte potrei avere le mattine libere.

Le donne non vivono ancora di calcio in Italia?

Chi inizia adesso ci riesce. Io ormai sono abituata così e non mi piace annoiarmi, vado avanti con entrambe le strade. In fondo per stare a centrocampo bisogna essere degli ingegneri. Ma non lo auguro a nessuno. Un atleta deve fare solo l’atleta.

Quanto manca al professionismo?

Non dobbiamo avere fretta, dobbiamo seguire il modello inglese, che è stato graduale. Negli Usa nei primi anni 2000 ci fu un boom improvviso e una speculazione: il campionato morì subito. Nel 2012 è rinato con regole ferree e oggi è eccezionale. In Italia i costi per i club raddoppierebbero, quindi prima servono sponsor che rendano le spese sostenibili. Ne stanno arrivando, grazie alla tv e ai valori del nostro settore, che nel maschile si sono persi. Il femminile offre un’immagine diversa, un mercato nuovo per le aziende.

Discorsi da futura dirigente…

Sicuramente nei prossimi anni ci sarà bisogno di tante professionalità per far crescere il movimento. Se ne avrò le competenze, perché no.

Tre modelli che le piacciono.

La Juve, ormai un riferimento sia al maschile che al femminile. Il mio Milan: la prima società a garantire i contributi. Il Napoli, appena nato, che è ancora indipendente dal maschile, ma già sostenuto da grandi brand. Mi sembra un progetto solido. Geograficamente sarà fondamentale, finalmente un polo per il sud dove non c’è nulla.

Nella sua carriera ha girato tantissimo: Torino, Milano, Verona, Firenze, un’esperienza in Islanda. Dove ha riconosciuto i primi segnali della rivoluzione?

È stato un continuo, nelle varie società dove ho militato. Ma come luogo simbolo scelgo Coverciano, dove nel 2017 ho visto le finali del campionato under12 tra Roma, Milan, Juve e Livorno. Bambine contro bambine, in Italia, per la prima volta con la divisa delle società maschili. Avevano dentro e fuori dal campo un atteggiamento diverso, segno che grazie ai club professionistici si cresce nella mentalità.

L’obbligo di istituire le squadre giovanili femminili c’è dal 2015: l’anno di un vostro storico sciopero.

Non giocammo la prima giornata di Serie A e per me quello fu l’inizio di tutto: chiedevamo investimenti, tutele contrattuali e per la maternità, accordi pluriennali, rispetto dopo le frasi di Belloli e certe premiazioni indecorose. Era una questione di leggi e di dignità. Due anni dopo, l’ingresso delle società maschili ha dato peso mediatico e politico alle nostre richieste. Quello che non riuscivamo ad avere.

Poi quest’estate è arrivato il Mondiale.

L’Italia intera si è accorta di noi: guardavo le mie compagne su Rai Uno ed ero veramente felice.

Lei ha giocato l’ultimo Europeo, alla vigilia della svolta, nel 2017: era appena stata annunciata la nascita della Juventus Women e le partite si vedevano ancora in streaming. Chi devono ringraziare le bambine che oggi possono sognare di fare le calciatrici?

Prima di noi, le generazioni di Carolina Morace, Patrizia Panico e Rita Guarino. Tutto quello che abbiamo ora è il risultato di trent’anni di lotte. Le giovani non le vedranno mai e rischiano di dare le cose per scontate. Invece bisogna apprezzare tutto. Grazie alle opportunità che ci sono adesso si potranno raggiungere risultati sportivi pazzeschi, se ci si continuerà ad allenare con lo stesso spirito di sacrificio che abbiamo dovuto avere finora. Il Lione che oggi ci sembra imbattibile, un giorno non lo sarà più. Non sono marziane, fanno semplicemente le atlete da più anni.