La crisi, nel corso degli ultimi dieci anni, ha ridisegnato il profilo dell’Italia industriale. Non è mutato solo l’assetto del sistema delle imprese, al punto da essere irriconoscibile rispetto a dieci-quindici anni fa, ma si sono trasformati i lineamenti stessi dell’imprenditorialità. Si èinfatti instaurato un rapporto diverso tra le strategie gestionali e la proprietà delle aziende e con gli stakeholders di queste ultime. Non a caso, la trasformazione appare più visibile proprio là dove si sono costituiti i capisaldi storici del capitalismo italiano, soggetti a una metamorfosi che è tuttora operante.

Il nostro Paese ha via via assistito alla conclusione della parabola delle sue grandi imprese, che si sono proiettate fuori dei confini nazionali o si sono smembrate o sono confluite in nuove aggregazioni. Restano alcuni gangli importanti dell’industria di Stato di un tempo, ma se si guarda al campo dell’imprenditorialità odierna, è facile constatare che essa si è polarizzata intorno a strutture aziendali di dimensioni intermedie tra la massa delle piccole e piccolissime aziende, le quali costituiscono una sorta di costante della nostra storia economica, e i grandi gruppi internazionali, quelli che ora dominano la scena globale.

Nel sommovimento che ha coinvolto la geografia economica mondiale, la collocazione dell’Italia appare quindi inevitabilmente differente dal passato. Il nostro Paese non possiede più i campioni nazionali di un tempo, che facevano da contraltare alla vastissima platea dell’imprenditorialità diffusa. Le imprese più dinamiche e più vivaci sono contraddistinte per l’appunto da una taglia intermedia, che da un lato permette loro di muoversi con agilità nello scacchiere internazionale e, dall’altro, consente di non recidere quei legami territoriali capaci di alimentare la crescita mediante un afflusso continuo di risorse.

Questa è la realtà che ora contraddistingue anche il Nord Ovest, un’area un tempo considerata appannaggio delle im- prese di grandi dimensioni. È caduta, di fatto, la stessa distinzione tra Nord Ovest e Nord Est o tra il Nord e il Centro Italia, perché questi territori sono sempre più segnati dalla presenza di aziende e di gruppi che hanno superato i confini locali e hanno acquisito una configurazione internazionale, pur senza essere assimilabili al vertice delle imprese maggiori. In particolare, sullo sfondo costituito dal nucleo consistente delle medie imprese virtuose, si staglia un grappolo di soggetti che posseggono un fatturato compreso tra 1 e 3-4 miliardi di euro all’anno, dotati di performance buone e durature, con assetti proprietari consolidati, che si espandono grazie a strategie scadenzate nel tempo e all’apporto di competenze manageriali qualificate.

Se si vogliono cogliere la natura e la specificità del capitalismo italiano attuale, è a questi nuovi protagonisti della scena imprenditoriale che occorre guardare. La loro affermazione è ormai visibile e diffusa, anche nei contesti che sono stati plasmati da una lunga evoluzione industriale e che adesso sono in fase di ridefinizione.

Pensiamo, per esempio, al mondo imprenditoriale torinese, che ha spezzato da tempo il proprio monocromatismo metalmeccanico. Una delle imprese che sta trasformando in modo originale un quartiere di Torino e che è cresciuta con regolarità e robustezza nel tempo, fino ad assumere un ruolo di primo piano, è Lavazza, che ha una storia e una tradizione produttiva inassimilabile a quelli del ceppo metalmeccanico.

Lavazza rappresenta la testimonianza di un sistema aziendale che ha saputo delineare una propria via peculiare allo sviluppo d’impresa, salvaguardando la sua matrice originaria, che la tiene saldamente ancorata alla sua terra d’origine. Prossima alla soglia dei due miliardi di euro di fatturato, Lavazza è, al contempo, un’impresa con le radici ben affondate a Torino e nel Piemonte (ove mantiene il suo quartier generale, appena ricostituito ex novo, e i gangli portanti della sua struttura produttiva) e risoluta a perseguire la propria espansione internazionale.

Per molti versi, essa oggi costituisce, a Torino, l’organizzazione aziendale che più s’identifica col territorio. La fedeltà e il senso di responsabilità verso il sistema locale non sono in nessun modo in contraddizione con una crescita strategica che disloca i suoi assi di sviluppo nei mercati internazionali. È questa, si direbbe, la cifra autentica che connota l’identità aziendale.

Una cifra che, se è declinata nelle condizioni del presente, viene però da una storia lunga. Com’è noto, le sue propaggini risalgono addirittura all’ultimo decennio dell’Ottocento, in un’attività commerciale localizzata nel centro di Torino. Ma il passaggio cruciale dello sviluppo aziendale avvenne fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, il periodo segnato dalla guida imprenditoriale di Emilio Lavazza (1932-2010). A lui vanno ricondotte le linee guida che hanno assicurato il salto di qualità compiutosi nell’evoluzione aziendale, sedimentando un codice operativo ancora presente nella logica operativa e nelle strutture interne dell’impresa.

Emilio Lavazza appartenne a quella tipologia d’imprenditori che preferivano affidare la memoria di sé all’esperienza e al vissuto dell’azienda e dei loro collaboratori, invece che alle celebrazioni personali, alle interviste e all’universo dei media. Evitò sempre le luci dei riflettori per concentrarsi sull’impegno concreto e quotidiano. Le parole che testimoniano della sua azione di guida economica sono poche e accuratamente misurate: sono essenzialmente quelle che si ritrovano nella lectio magistralis pronunciata in occasione della laurea honoris causa conferitagli dalla facoltà di Economia dell’Università di Torino il 25 ottobre 1993, quando era impegnato ormai da quarant’anni nell’azienda di famiglia. In esse, la consapevolezza per il rilievo del lavoro svolto si accompagna alla sobrietà che gli era propria. Il merito che Emilio Lavazza rivendicava, non a sé ma alla sua azienda, era di aver messo in atto delle soluzioni di sviluppo che non erano mere reazioni ai cambiamenti della cornice di mercato, ma discendevano da una volontà consapevole.

Tale era stata la scelta di concentrarsi sul caffè, senza inseguire politiche di diversificazione del prodotto. E anche la decisione di creare un’articolata rete commerciale, in grado di porre in contatto l’azienda col circuito della distribuzione al dettaglio, era il frutto di una visione dello sviluppo futuro.

Centralità del prodotto e del mercato, dunque, nell’intento di ampliarli e consolidarli all’unisono erano già punti fermi in un’epoca in cui l’attenzione ai fenomeni della distribuzione, colti nella loro autonomia, era ancora limitata e le aziende ponevano l’accento soprattutto sulla sfera della produzione. In quest’approccio era implicita la sensibilità per i fenomeni del marketing, ancora embrionale nell’Italia degli anni Sessanta. Emilio Lavazza difendeva con orgoglio l’investimento effettuato sulla comunicazione e sulla pubblicità, che poteva sembrare un azzardo per un’impresa di dimensioni ancora contenute. Invece l’investimento conseguì grande successo, come d’altronde quello per potenziare l’apparato amministrativo interno (attraverso l’introduzione dei primi computer) e a strutturare un’efficiente catena logistica, vera chiave di volta per servire adeguatamente il mercato.

Fin qui si è dinanzi a una serie coerente di iniziative che però si possono riscontrare presso varie imprese di successo di quegli anni. Ciò che rende più conto dell’originalità della strategia di Lavazza e del vantaggio che essa doveva assicurarsi in questo modo è la comprensione della complessità del prodotto che trattava, il caffè. Un prodotto “particolarmente delicato”, spiegava Emilio Lavazza, esaltato da caratteristiche “che richiedono impianti sofisticati e tecniche di protezione per assicurarne l’arrivo al consumo”, così da valorizzarle al massimo presso il consumatore finale. Era la scoperta, oggi attualissima, che il prodotto non può prescindere dal servizio alla clientela, in modo da formare un processo ininterrotto e unitario.

Fu il senso della complessità di quella materia prima così specifica che indusse Emilio Lavazza a porsi la questione di garantirsi le migliori condizioni di approvvigionamento. Occorreva misurarsi con “un mercato assai difficile”, condizionato “da discontinuità [...] e da vincoli internazionali e locali”, contrassegnato da “complesse tecniche operative e sui mercati dei cambi”.

Su questo terreno l’amministratore delegato di Lavazza diede probabilmente il meglio di sé, come riconosceva egli stesso, parlando una volta tanto in prima persona:

Ho avviato personalmente rapporti diretti con i Paesi origine, [...] approfondendone la conoscenza per molti anni
e credo di aver trasmesso alle strutture aziendali che oggi se ne occupanoun prezioso patrimonio di esperienze

Il piemontese Emilio Lavazza affrontò così il mondo, diventando un viaggiatore appassionato e instancabile, in primo luogo in America Latina, tanto da sentirsi a casa propria in Brasile, in seguito anche in Africa. Lo fece secondo i modi che gli erano connaturali, con le sue maniere semplici e dirette: il figlio Giuseppe ricorda il gusto con cui suo padre si muniva di piccoli vocabolari tascabili, così da riuscire a cavarsela anche in situazioni apparentemente ostiche e improbabili.

Nella sua dotazione non mancava nemmeno un vocabolario di swahili, con cui apprese a destreggiarsi quel tanto che gli bastava per comunicare con i suoi interlocutori.

Per Emilio Lavazza era stata l’internazionalizzazione a fare la differenza: la scelta di confrontarsi col mercato mondiale del caffè rese possibile, non soltanto di superare il tornante dei difficilissimi anni Settanta, provocato dall’ingresso nell’epoca dei cambi flessibili e dell’ascesa dei produttori di materie prime, ma soprattutto di mettere a fuoco una strategia di sviluppo destinata a crescere su se stessa da allora in poi. Su questa strategia si innestarono gli orientamenti che avrebbero corroborato le altre capabilities del sistema Lavazza: la determinazione della famiglia proprietaria a investire nell’azienda; la politica di promozione delle risorse umane, attingendo al bacino locale e al polo universitario torinese; il rafforzamento dei terminali di mercato. Tutte queste direttrici trassero legittimazione e forza dall’indirizzo di apertura internazionale che l’azienda aveva assunto nel momento in cui aveva stabilito di concentrarsi sulla sua materia prima, nella complessità delle proprie articolazioni e dei propri cicli produttivi continentali. Il senso della misura, l’indole schiva, l’umanità bonaria, che erano tratti inconfondibili della personalità di Emilio Lavazza, non celano la chiarezza e la sicurezza con cui, in una fase di transizione tra le più ardue, egli imboccò la strada giusta, quella che avrebbe situato la sua impresa in un solco di sviluppo in grado di offrire risultati sempre più notevoli.

2003 Lavazza Calendar by Jean-Baptiste Mondino.

In Italia lo sviluppo è assai spesso il prodotto di un accumulo di attitudini, competenze, capabilities, depositati per decenni, più che l’effetto di un’accelerazione bruciante. Questo perché la crescita del sistema delle imprese è sovente intrecciata a quella del capitalismo familiare, che l’ha alimentata e a propria volta se ne alimenta. Una forma di capitalismo che richiede in primo luogo un grande senso di equilibrio.

Come ha ricordato Guido Corbetta, proprio riflettendo sul caso Lavazza, il capitalismo a base familiare che si è realizzato nel modello italiano si fonda su un delicato mix di componenti: proprietà, famiglia, impresa, leadership imprenditoriale devono trovare un amalgama al contempo stabile e dinamico. Stabile perché un elemento non prevarichi sugli altri; dinamico perché sia possibile un’opera di aggiustamento continuo, per dare impulso a tutti i contributi atti a favorire la crescita aziendale.

In ultima analisi, il capitalismo familiare dev’essere capace di esprimere un progetto collettivo, in cui possano riconoscersi tutte le forze attive dell’impresa, stakeholders compresi.

Da questo punto di vista, la storia di Lavazza compendia bene i caratteri portanti di tale modello, così come la guida imprenditoriale assicurata da Emilio Lavazza fu assai attenta a ricercare e a mantenere una forte impronta corale. Quel suo parlare al plurale, privilegiando il “noi”, non era inteso soltanto a far apparire l’impresa come un blocco omogeneo; serviva soprattutto a recuperare il senso dei legami e della condivisione posti a fondamento di una strategia di espansione. Essa aveva al centro un paziente lavorìo di tessitura, che esaltava in primo luogo la costruzione di una volontà coesa da parte della famiglia proprietaria. Ma investiva altresì tutti i gangli vitali della struttura d’impresa, a cominciare dalla valorizzazione del rapporto con i dirigenti, i collaboratori e i dipendenti, selezionati attingendo alle migliori risorse formate da Università e Politecnico di Torino. Si spianava così la via all’ingresso delle competenze manageriali, quanto mai indispensabile per la continuità e l’irrobustimento dell’impresa familiare.

Il percorso seguito da Lavazza appare emblematico del cammino che sta portando a una nuova Italia industriale, quella che si sta abbozzando dopo un duro decennio di crisi. Sta venendo a maturazione un rinnovato capitalismo familiare che abbina alla capacità d’investimento sempre più precisi e definiti indirizzi strategici. Che associa leadership e managerialità; che rilegittima le sue radici locali mentre esplora e presidia lo spazio economico internazionale. Che, infine, non rinuncia alla vocazione a esercitare un ruolo nella promozione dei sistemi locali.

La storia importante che ha alle spalle questo modello di capitalismo lo ha addestrato a una rigorosa selezione delle risorse, commisurate a obiettivi ben individuati. Il destino del nostro sistema delle imprese appare ancorato in larga parte al suo.