Et Voilà. ”Il lupo in cashmere” ha colpito ancora. Come aveva anticipato, a giugno, in un’intervista al Financial Times. «Siamo ancora piccoli – disse allora senza ombra di ironia Bernard Arnault, l’ammiraglio della corazzata del lusso Lvmh– è solo l’inizio. Il che è divertente: sì, possiamo andare oltre». Fino a dove? Proviamo ad immaginare dove porterà la fame di prede del cacciatore insaziabile visto che nemmeno l’acquisto di Tiffany’s, l’operazione più costosa nella storia del lusso, ha placato la fame del re del lusso mondiale, uno a cui, confessa senza falsi pudori, «piace essere il numero uno». Eppure la conquista della gioielleria più famosa del mondo, resa celebre dal cult movie di Audrey Hepburn, finita sotto il suo controllo dopo 182 anni da single grazie ad un assegno da 16,3 miliardi di dollari, insomma, ha già garantito ad Arnault il titolo di uomo dell’anno, simbolo della stagione d’oro del lusso, l’unico settore che ha attraversato la stagione della guerra dei dazi senza subire alcun danno, sostenuto dagli acquisti dei consumatori asiatici ma anche dal boom dei mercati azionari. Impermeabile alle tensioni di Hong Kong o alle proteste di Parigi. In un anno difficile per i re della new economy, sotto il tiro delle autorità fiscali ma anche dell’ostilità di Donald Trump (vedi Amazon), o per i tycoon della old economia (vedi i problemi dell’auto), la crescita di Arnault sembra non conoscere limiti.

Bernard Anrault con Frank Gehry davanti alla nuova Fondazione Louis Vuitton a Parigi

Le cifre parlano chiaro. Secondo la classifica di Forbes, Arnault ha già effettuato il sorpasso nei confronti del saggio di Omaha, Warren Buffett, e a giugno ha relegato Bill Gates alla terza posizione nel gotha. Ormai solo Jeff Bezos, il leader dell’e commerce, può vantare una fortuna (124 miliardi di dollari) superiore a quella di monsieur Bernard, il figlio della buona borghesia di Roubaix, città nota un tempo per l’industria tessile, oggi solo per il pavé sulle strade della corsa più celebre che si disputa nell’inverno del Nord. E’ da lì che viene il nuovo Paperone d’Europa, a capo di un patrimonio che, dopo i rialzi in Borsa per l’affaire Tiffany ha senz’altro superato la soglia dei 105 miliardi di dollari (pari a circa il 3 per cento del prodotto interno lordo francese) al traino della spettacolare ascesa delle azioni di Lvmh, cresciute di valore del 55 per cento nell’ultimo anno. Grazie anche ad alcuni colpi da prima pagina: dall’acquisto della catena Belmond, 2,6 miliardi di euro per aggiudicarsi l’hotel Cipriani a Venezia, il Caruso di Ravello e altri gioielli sparsi per il mondo, da Città del Capo a Copacabana, oltre a due incrociatori fluviali in Birmania, all’inaugurazione di una fabbrica di borse in Texas, la sua seconda in territorio americano, alla presenza di Donald Trump, in un certo senso suo vicino di casa sulla Quinta Strada, visto che il quartier generale di Tiffany è ad un passo dalla Trump Tower. E nel mezzo c’è stato il varo dell’alleanza con Rihanna, la rockstar che disegnerà le sue borse sotto le insegne della maison. Ma il bello, forse, deve ancora venire. In primavera, sulla riva destra della Senna sotto le insegne di BA riaprirà i battenti la Samaritaine, il grande magazzino celebrato da Emile Zola. Sarà l’ultimo tempio del lusso parigino che Arnault, dopo un restauro durato 15 anni (e 750 milioni di investimento), ha voluto riportare ai fasti della Ville Lumière. Alla faccia dei cortei dei pensionati e della guerriglia dei gilets jaunes che, a giudicare dai dati di bilancio, hanno fatto il solletico o poco più ai conti della maison, capace di resistere anche alla guerriglia urbana di Hong Kong che ha investito la capitale asiatica dell’hard luxury (gioielli ed orologi) con il risultato di spostare lo shopping verso Shanghai, Tokyo o Singapore, dove le boutiques di Arnault, novello Re Sole, non mancano di sicuro. Per la gioia degli azionisti che, passata la febbre per la New Economy, hanno in parte sostituito la passione per Silicon Valley con quella per il lusso.

Nulla prospera più del lusso nella stagione d’oro dei ricchi sempre più ricchi, in rapida espansione grazie al boom dei milionari che spuntano dalle metropoli d’Asia, affamati dei prodotti sfornati dalla batteria di marchi messa assieme dal patron. Più di settanta, 74 per ora (ma l’elenco s’arricchisce di mese in mese) che coprono buona parte dei consumi della popolazione più agiata o che aspira ad esserlo: vini e liquori, gioielli e orologi, profumi e moda. E non è finita qui. «Ogni anno ci sono decine di milioni di nuovi consumatori che possono affacciarsi al mondo del lusso e sviluppare una nuova sensibilità– sentenzia Patrick Thomas, uno dei discendenti di casa Hermès, oggi presidente di Ardian – E’ come per il vino: uno cominci a bere, con il tempo diventa un esperto».  E per soddisfare questa voglia del bello Lvmh già muove verso una nuova frontiera: “l’economia dell’esperienza”. Non solo beni, insomma, ma anche emozioni che solo il denaro, se ben speso, può consentire. Da re degli artigiani a creatore di emozioni, insomma, attraverso i viaggi, le performance sportive e tutto quanto può migliorare la qualità della vita. Di chi può permetterselo, naturalmente. 

Takashi Murakami, artista che ha spesso collaborato con Louis Vuitton a linee da lui firmate

E’una missione affascinante ma complicata, che non ammette distrazioni, come dimostra un episodio recente. Alla fine di ottobre, in attesa della risposta del board di Tiffany, Arnault si è recato a Seul per seguire l’apertura del nuovo negozio bandiera di Lvmh realizzato da Frank Gehry. Nell’attesa della cerimonia il patron è andato a visionare lo shop di Tiffany nella capitale coreana. Una visita rapida ma sufficiente per scoprire una vetrina vuota, con la scritta “non disponibile” e il materiale per la pulizia sullo scaffale. Immediata la replica via What’App.  «Signori – recitava il messaggio inviato a Parigi - Vi aspetta un grosso lavoro. Cominciate subito». Nulla sfugge, insomma, all’occhio del tycoon sbarcato da padrone sulla Quinta Strada, già sua terra d’esilio volontario nei primi anni Ottanta, quando aveva lasciato la Francia per protesta contro la politica delle nazionalizzazioni e delle alte tasse intrapresa dal presidente Mitterrand. Troppo lungo citare la lista dei suoi successi. Si fa prima ad indicare i pochi fiaschi: la scalata abortita a Chanel, difesa con le unghie della famiglia del fondatore nonostante il pressing del ”lupo” («quando si compete – ha detto parlando con il Financial Times – non c’è tempo per la gentilezza») . O la sconfitta subita dall’altra grande di Francia, François Pinault («ma i nostri rapporti sono buoni» precisa) che lo superò sul filo di lana nella contesa per il controllo di Gucci.

E’ lui stesso a raccontare la sua illuminazione sulla strada del lusso che non poteva avvenire che a New York. Un tassista, al quale Arnault aveva chiesto cosa conoscesse della Francia, gli rispose: «Non ricordo il nome del presidente, ma so chi è Dior». Una frase che aprì gli occhi all’ingegnere che lavorava nell’immobiliare del padre. Tornato in Francia, convinse la famiglia ad investire il patrimonio in un’impresa, la Boussac, vicina alla bancarotta, ma che disponeva di un gioiello: la maison Dior.

Comincia qui la corsa verso il successo. Arnault, finito nel frattempo sotto la protezione di Antoine Bernheim, che sarà presidente delle Generali, impara il mestiere del finanziere: si libera di tutte le partecipazioni salvo Dior. Intanto s’infila nel dissidio tra i due fondatori di Lvmh e, sfruttando le loro divisioni, estromette uno dei due, Henry Racamier, dalla società. E’ uno schema Arnault utilizzerà più volte, facendo leva sul meccanismo della holding per dividere i nemici ed allettare i possibili alleati.  Ma non facciamo torto ad un industriale di talento che ha saputo costruire un sistema in cui far crescere stilisti e garantire libertà d’azione a molti uomini d’impresa. Monsieur Bernard, del resto, è un uomo di mondo che ama la musica, sposato in seconde nozze con una pianista di alto livello, Helène Mercier, che gli ha dato tre sei suoi cinque figli cui sta insegnando il mestiere ree del lusso in attesa di scegliere l’erede a cui affidare il bastone del comando. In attesa di nuovi business perché, oltre che di lusso, Arnault si occupa di filantropia, gestisce una delle più importanti fondazioni d’arte contemporanea, possiede quotidiani come Les Echos. E non è affatto alieno a nuove avventure. Voci insistenti parlano di un interesse per il Milan e di contatti, ripetuti, con Paul Singer, numero uno del fondo Elliott. Chissà, forse è solo un’illusione, al servizio dei sogni dei tifosi rossoneri. Ma con il lupo in circolazione l’unica verità è che non si sa mai.