Il 2018 in America è stato “l’anno delle donne”. In questi dodici mesi, infatti, in migliaia hanno continuato a ribellarsi alle molestie – sul posto di lavoro, ma non solo – grazie al #MeToo, l’hashtag con cui, nell’ottobre 2017, l’attrice Alyssa Milano ha confessato di essere stata anche lei una vittima silenziosa e ha incoraggiato le donne a denunciare gli abusi maschili “per rendere chiara la dimensione del problema”. Il problema, enorme, era stato rivelato nei giorni precedenti da un’inchiesta di Ronan Farrow, che sul New Yorker aveva raccolto le dichiarazioni di attrici che accusavano di stupro o molestie il produttore cinematografico Harvey Weinstein. Seguito da decine di celebrità – fra le altre Uma Thurman e Gwyneth Paltrow – l’appello di Alyssa Milano è uscito da Twitter ed è diventato un movimento femminista che, per tutto il 2018, ha continuato a dare forza alle donne che, per troppo tempo, avevano dovuto sopportare abusi a testa bassa e bocca chiusa. La consapevolezza femminile non si è però fermata alla denuncia delle molestie, ma si è trasformata rapidamente in un impegno civile e politico. Alle elezioni di metà mandato del 6 novembre le donne si sono difatti candidate in massa, e in numero record – 117 – sono state elette: unendosi alle 10 senatrici ancora in carica, hanno così portato il numero totale delle parlamentari americane a 127. Alla Camera (dove erano in palio tutti i 435 seggi) sono entrate 102 donne, mentre al Senato ne sono state elette 15 e la presenza femminile è arrivata a 25 seggi su 100. Insieme al #MeToo, queste elezioni sono state un avvenimento epocale. Entrambi hanno avviato profondi cambiamenti nella politica e soprattutto nella società americana, e hanno una data di nascita comune: la notte dell’8 novembre 2016, quando Hillary Clinton perse la possibilità di diventare il primo presidente donna degli Stati Uniti e contemporaneamente Donald Trump si ritrovò alla Casa Bianca.

La marcia delle donne che il 21 gennaio 2017 ha risposto al giuramento e all’insediamento del nuovo presidente ha rappresentato l’inizio della mobilitazione femminile: quel giorno milioni di donne scesero in strada in tutti gli Stati Uniti per manifestare contro il maschilismo di Trump – più volte accusato di comportamenti offensivi e tradimenti – e cominciarono a guidare la resistenza contro un uomo considerato unfit, inadatto, a governare il Paese.

Da quel momento le donne hanno mantenuto un ruolo centrale che si è rivelato decisivo alle elezioni di metà mandato, e ha permesso ai democratici di riconquistare la maggioranza alla Camera dopo 8 anni. Lo conferma anche la composizione del 116esimo Congresso degli Stati Uniti, che il 3 gennaio ha prestato giuramento: fra le 42 elette per la prima volta appena 4 sono repubblicane (a loro va aggiunta Martha McSally, che ha perso le elezioni ma è stata nominata per il seggio in Senato di John McCain in Arizona).

In Senato ci saranno 8 donne conservatrici e 17 democratiche, mentre alla Camera – dove i democratici hanno portato 89 donne su 102 – le rappresentanti del Grand Old Party sono addirittura diminuite, passando da 23 a 13. Il nuovo Congresso sarà composto dunque da 127 donne, ma solo 21 saranno repubblicane, come era evidente assistendo al giuramento del 3 gennaio: da un lato dell’emiciclo la delegazione democratica era multietnica, colorata e con una numerosa presenza femminile; dall’altro si scorgevano per lo più uomini bianchi in giacca e cravatta, che componevano quella repubblicana. Il 2018 è stato dunque l’anno delle donne democratiche, e fa apparire così superato e distante nella Storia il primo “anno delle donne”, quando i due partiti portarono 4 senatrici e 24 deputate a Capitol Hill e sembrava un grande passo avanti per l’uguaglianza di genere. Era il 1992 e, allora come oggi, il Paese era alle prese con scandali sessuali di alto profilo che avevano fatto infuriare le donne americane, spingendole a impegnarsi in politica. All’epoca una prima frattura sociale si era avuta nel luglio 1991, quando George H. W. Bush aveva nominato alla Corte Suprema il giudice afroamericano Clarence Thomas, il secondo nella storia della corte: la conferma era stata a lungo in bilico dopo che una sua collaboratrice, l’avvocatessa Anita Hill, lo aveva accusato di molestie, comportamenti e commenti inappropriati sul posto di lavoro. Hill fu chiamata a testimoniare davanti alla commissione giustizia del Senato, che non le risparmiò i dettagli più scabrosi e fece indignare le donne americane. La conferma di Thomas in ottobre – anche se con un margine di appena due voti, il più risicato nella storia del massimo tribunale americano – alimentò il malumore femminile che esplose durante la successiva campagna elettorale, quella che nel novembre 1992 avrebbe portato alla Casa Bianca l’allora governatore dell’Arkansas Bill Clinton. In un Paese che non perdona i tradimenti – una macchia indelebile in una carriera politica – e che appena 4 anni prima aveva stroncato le ambizioni presidenziali del senatore dell’Indiana Gary Hart, favorito nella corsa alla nomination democratica ma ritiratosi dopo essere stato fotografato in barca alle Bahamas con una modella, Clinton restò in corsa nonostante le numerose accuse di infedeltà e fu eletto presidente.

 

Contro di lui i repubblicani, guidati dal rampante deputato della Georgia Newt Gingrich, armarono un’aggressiva campagna elettorale per le successive elezioni di metà mandato del 1994: passò alla storia come la “rivoluzione repubblicana”, si basava su un “Contratto con l’America” che offriva un’alternativa alle politiche economiche considerate troppo liberal del neopresidente e portò il Grand Old Party a guadagnare 54 seggi alla Camera e 8 al Senato, una delle vittorie più schiaccianti della storia. Da quel Congresso energicamente repubblicano, in cui il capopopolo Gingrich era diventato speaker della Camera, nacquero nel 1998 i presupposti dell’impeachment contro Bill Clinton che, proprio a causa dei suoi tradimenti, finì per mentire al Congresso e ostacolare la giustizia: celebre fu la frase “dipende dal significato della parola è” che il presidente pronunciò davanti alla grand jury che indagava sulla sua relazione con la stagista Monica Lewinsky. Dopo Andrew Johnson nel 1868, Clinton fu il secondo presidente della storia a subire lo scrutinio del Congresso, ma come il suo predecessore si salvò, facendo implodere la carriera di Gingrich. Proprio mentre guidava la rivoluzione repubblicana e si appellava ai valori morali dell’America, lo speaker della Camera, che all’epoca aveva 56 anni, aveva intrecciato una relazione con un’assistente di 33 anni, l’attuale moglie Callista, che per le cronache dell’epoca aveva “una vaga somiglianza con Hillary Clinton”. Indebolito dalla crociata contro il presidente e da quel tradimento, nel gennaio 1999 Gingrich lasciò il Congresso, e pure la seconda moglie Marianne. Ma questa è un’altra storia.

Come nel 1992, anche nel 2018 ad animare la mobilitazione femminile sono stati un presidente e un giudice della Corte Suprema accusati di molestie. A inchiodare Trump sono state le sue stesse parole, oltre che i fatti: nel celebre video di Access Hollywood, pubblicato dal Washington Post un mese prima delle elezioni, il presidente ammetteva con arroganza di afferrare le donne per le parti intime e di molestarle. “Quando sei una celebrità ti lasciano fare quello che vuoi”, spiegava al divertito giornalista Billy Bush. L’incapacità di accettare che l’America di mezzo abbia preferito eleggere un presidente rozzo e maschilista quando poteva invece portare una donna alla Casa Bianca è stata la prima molla della cosiddetta onda blu, l’attesa vittoria a valanga dei democratici che ha preso forma (alla Camera) soltanto nelle settimane successive al voto. Il secondo scontro, più recente, si è avuto con la controversa conferma alla Corte Suprema del giudice Brett Kavanaugh, accusato di aver molestato da ubriaco una quindicenne nell’estate del 1982, quando aveva 17 anni. Come Anita Hill 27 anni prima, Christine Blasey Ford è stata chiamata a testimoniare davanti alla commissione giustizia del Senato ed è diventata un simbolo della resistenza antitrumpiana. “Sono terrorizzata, non vorrei essere qui ma penso sia mio dovere civico testimoniare”, ha dichiarato in aula, durante una toccante testimonianza seguita in diretta in tutto il Paese.

 

Ricordando la ferrea opposizione del partito repubblicano contro l’ultimo giudice nominato da Barack Obama alla Corte Suprema nel 2016 – il giudice Merrick Garland che i repubblicani si rifiutarono persino di ascoltare, facendone decadere la nomina – il partito democratico ha costruito un muro contro Kavanaugh, rendendolo un simbolo da abbattere dell’America trumpiana. Si temeva che sarebbe stata una strategia controproducente alle urne, ma la vittoria politica di Trump, che ha ottenuto la conferma del giudice e ha spostato a destra l’asse della Corte Suprema con effetti che potrebbero durare decenni, ha alleviato le ricadute per i democratici. L’unico effetto si è avuto nelle corse per il Senato, dove la situazione era più complessa: qui, infatti, il partito democratico doveva difendere numerosi seggi in Stati tendenzialmente conservatori e ha pagato l’opposizione a Kavanaugh, finendo per perderne due e aumentare lo scarto. Alla Camera, invece, i democratici hanno ottenuto 10 milioni di voti in più dei repubblicani, hanno riconquistato 40 seggi e soprattutto ottenuto la maggioranza che mancava dal 2010, quando il movimento ultraconservatore dei Tea Party entrò in Congresso combattendo il progressismo di Obama. Ci sono volute due settimane per capire che la portata della vittoria era più larga di quello che era sembrato inizialmente, ma l’onda blu c’è stata ed è partita – o meglio, si è conclusa – nei cosiddetti “Clinton Republican districts”: distretti che erano in mano ai repubblicani ma erano stati vinti da Hillary Clinton alle elezioni del 2016. In tutto il Paese ce ne erano 23, e ai democratici sarebbe bastato vincerli tutti per riconquistare la maggioranza alla Camera: ne hanno conquistati 20, mettendo le basi di un’ampia vittoria.

Questi distretti – in particolare i cinque dell’Orange County, nel Sud della California, che erano roccaforti repubblicane e che sono stati tutti vinti, in una lotta all’ultimo voto, dai democratici – rappresentano la mutazione del Paese, che diventa sempre più rosso e conservatore nelle aree rurali dei “forgotten men”, quella maggioranza silenziosa che ha eletto Trump, ma al tempo stesso stinge verso il blu democratico nei sobborghi metropolitani un tempo abitati dalla classe media bianca e conservatrice, ora sostituita dalle famiglie di immigrati ispanici e asiatici che hanno votato a sinistra anche in risposta alla guerra all’immigrazione lanciata da Trump. In questo scenario sono emersi i candidati della resistenza che hanno puntato sulla diversità e hanno spostato decisamente a sinistra gli equilibri della Camera. E così i democratici hanno portato a Washington, fra gli altri, le prime due donne musulmane – Rashida Tlaib del Michigan, la prima di origini palestinesi, e Ilhan Omar del Minnesota, la prima rifugiata africana, la prima somala e la prima a indossare l’hijab nelle aule del Parlamento – hanno eletto le prime due donne native americane, Deb Haaland del New Mexico e Sharice Davids del Kansas, e la prima donna nera a rappresentare il Massachusetts, Ayanna Pressley.

Ognuna di loro ha una storia straordinaria, ma l’archetipo del candidato democratico alle elezioni di Midterm era decisamente Alexandria Ocasio-Cortez: una donna di sinistra che si candidava per la prima volta. “Donne come me non è previsto che si candidino”, affermava nel suo celebre spot elettorale divenuto poi virale in tutto il mondo.

Poco più di anno fa, come ha ricordato lei stessa fine dicembre con un post su Instagram, serviva birre in un bar messicano di Union Square, a New York, poi è diventata improvvisamente una star globale in una notte di fine giugno, quando ha sconfitto alle primarie il quarto democratico più potente del Paese, Joe Crowley, che sedeva in Congresso da quando lei era alle elementari. Eletta nel 14esimo distretto di New York (che comprende parti del Queens e del Bronx), il 3 gennaio è diventata a 29 anni la donna più giovane a sedere fra i banchi del Congresso. La neodeputata di origine portoricana non è però soltanto una statistica o un modello di successo delle politiche identitarie care al partito democratico: già nei due mesi passati fra l’elezione del 6 novembre e l’insediamento di inizio anno è riuscita a portare sul tavolo i temi della sinistra sandersiana e socialista (all’americana, ovviamente) e ha attuato una rivoluzione comunicativa – a cominciare dai social network, dove ha un seguito enorme che potrebbe garantirle un’influenza rilevante sia sulla delegazione democratica in Congresso che sull’intera Camera dei Deputati – di cui il suo partito aveva un bisogno estremo per mantenersi in contatto con un elettorato distaccato, in particolare fra i giovani.

“I democratici”, spiegava Dan Balz in un lungo articolo pubblicato sul Washington Post Magazine prima delle elezioni, “hanno tanti messaggi per tanti elettori diversi: il sito del partito elenca addirittura 17 gruppi a cui si rivolge, molti dei quali si sovrappongono”. Era così il partito di Barack Obama, che puntava sulle minoranze, e quello di Hillary Clinton, che nel 2016 offriva soluzioni pratiche a problemi specifici. A Trump, invece, è bastato un unico slogan – e un hashtag: #Maga – per vincere le elezioni e gettare in un fosso la carcassa dei rivali: “Make America Great Again”. Come l’attuale presidente, Ocasio-Cortez ha un’avversione per le élite e segue una vecchia regola politica – “essere più generici” – dal forte impatto sugli elettori, ma che ha portato i suoi detrattori ad accusarla di scarsa preparazione. Diversamente dai politici tradizionali, però, non ha bisogno di comunicare con più gruppi elettorali, perché li incarna tutti. Parla la lingua contemporanea della working class, simboleggia i temi di politica identitaria che sono centrali per il partito democratico, in particolare sesso e razza, e si dichiara apertamente socialista proprio come l’anziano senatore del Vermont Bernie Sanders, per il quale aveva fatto campagna elettorale nel 2016 e che ha energizzato un’ampia fetta di elettori: fra le altre cose si batte per l’istruzione universitaria gratuita, per l’assistenza sanitaria universale, contro le diseguaglianze economiche, per la protezione dell’ambiente, per la riforma dell’immigrazione e per quelle del sistema di giustizia criminale che penalizza le minoranze. Finora i democratici moderati – che in tempo di elezioni sono più a rischio di sconfitta – hanno sempre rallentato la transizione verso sinistra del partito, ma la fronda liberal guidata da Ocasio-Cortez sarà più intransigente sui compromessi e avrà una forte influenza sul nuovo Congresso, rappresentando un argine alle politiche del presidente Trump che farà più fatica a cancellare la riforma sanitaria di Obama, che estende la copertura a circa 20 milioni di persone nelle fasce di reddito più basse della popolazione, a imporre nuovi dazi e a perseguire una maggiore deregulation in ogni settore, a cominciare dall’eliminazione di norme ambientali e di quelle che regolano la libertà d’azione delle banche. Come si è intravisto con lo shutdown che ha fermato le attività federali a cavallo del nuovo anno, lo scontro sarà particolarmente aspro sui finanziamenti destinati al muro da costruire al confine con il Messico – la principale promessa elettorale di Trump – e in generale sull’immigrazione, altra grande battaglia del presidente. In generale, l’approvazione di nuove leggi diventerà più complicata per i repubblicani e sarà spesso frutto di trattative fra i due partiti, ci saranno maggiori indagini su Trump ma difficilmente si arriverà a un impeachment: sarebbe politicamente pericoloso per i democratici, che rischierebbero di irritare la base conservatrice in vista delle prossime elezioni, e necessiterebbe comunque del voto di due terzi del Senato, che è controllato dai repubblicani.

L’impatto delle elezioni di Midtem si sentirà anche nei rapporti con l’Europa. Durante i primi due anni del suo mandato, Trump è arrivato a definire l’Unione europea “un nemico” e ha radicalmente cambiato le relazioni il Vecchio Continente, anche in termini commerciali, spingendo sull’acceleratore dell’America First: la sua l’amministrazione ha oscillato fra l’indifferenza e un’aperta ostilità nei confronti dell’Europa e della Nato. Fino alla fine del 2018, a capo della sottocommissione della Camera sull’Europa sedeva inoltre Dana Rohrabacher, uno dei deputati sconfitti nell’Orange County, che aveva posizioni vicine alla Russia, un’amicizia di lunga data con Vladimir Putin e un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’Europa. “Rohrabacher ha passato il tempo a ostacolare l’integrazione europea e le indagini sulla Russia”, ha riassunto il direttore dell’Aspen Institute tedesco Tyson Barker su Politico Europe, all’indomani delle elezioni di metà mandato. In questi anni “ha bloccato le delibere su alcune delle questioni più importanti che riguardano i rapporti fra Stati Uniti e Unione europea, a cominciare dall’autoritarismo russo e dall’annessione della Crimea, dal conflitto nella regione ucraina del Donbass, dal declino democratico in Polonia e Ungheria e dalla Brexit”. Ora, con la Camera in mano ai democratici e la nomina di un nuovo presidente della sottocommissione per l’Europa, il Vecchio Continente – che nel 2018 ha visto indebolirsi leadership di Angela Merkel – uscirà dalla morsa trumpiana e troverà maggiori alleati all’interno del Congresso, che tenderanno a limitare gli ammiccamenti verso i governi autoritari e i partiti populisti d’Europa.