Per un’introduzione alla questione del Golfo nella cultura contemporanea.

In Sicilia, a Palermo, la conquista normanna non ha modificato la classificazione dei quartieri, la loro struttura e la loro funzione che in epoca araba si era stratificata e cristallizzata. Questa nuova ondata di conquistatori rinforza solamente il Cassaro e la Galca, soprattutto per ciò che concerne l’assegnazione inerente al centro del potere. La Galca è cinta da mura, che possono trasformarsi, all’occasione, in una trappola mortale come accade per Mathieu Bonnel, catturato senza sferrare alcun colpo (tutte le porte del quartiere reale erano chiuse e gli uomini armati tenevano le mura) e resterà fino all’inizio del XV secolo una cittadina che evoca leggermente le qasba-s delle dinastie “elette” del Maghreb: l’accumulo dei palazzi e delle chiese in questo perimetro oggi occupato da Piazza Vittoria, dalla caserma degli Spagnoli e dall’arcivescovado è sorprendente. Oltre alla cappella palatina consacrata a San Pietro, e i palazzi degli Schiavi e della Corte vicecomitale, la Galca; attorno a loro, nello spazio delimitato dallo sheri di San Costantino e la Ruga Coperta che costeggia il muro Nord, e resecato da due strade principali che si incrociano, si accumulano le case dei funzionari reali (il castellano di Castellammare, il grande giudice Avenel di Petralia e lo scudiero Girard), i chierici della Palatina, il cantore e i prebendari, i preti latini (Roger il cappellano, Falcon), i palazzi dei vescovi venuti presso il re, in visita o in servizio, e anche le case di qualche arabo come il notaio Abdelmella, Omour Khamaranos detto il Moro. Sono gli arabi che tramontano in Italia. Infatti, rispetto alla penisola iberica, la presenza araba musulmana sullo stivale è stata effimera, e il controllo sulla Sicilia è stato stabile soltanto dal 965 fino al 1061. Dopo queste date vedremo accadere incursioni per pirateria, guerra di corsa e invasione, almeno fino al XVI secolo, ma per mano dei Turchi.

L’espansionismo arabo contemporaneo dei paesi del Golfo, invece, è ben diverso, molto più pervicace, e corre su canali silenti ma decisamente più penetranti. Il primo aprile 2019, sulla cosmopolita cornice di Doha è sbocciata l’immaginifica rosa del deserto firmata da Jean Nouvel. Dopo anni di lavori è stato finalmente inaugurato lo spettacolare nuovo edificio firmato dall'archistar francese sede del nuovo Museo Nazionale del Qatar (NmoQ). La nuova struttura abbraccia e incorpora simbolicamente l'antico palazzo reale, sede del governo e precedente Museo Nazionale. Custodirà nuovi lavori appositamente commissionati ad artisti internazionali, oggetti rari e preziosi, documenti e installazioni interattive, per raccontare la storia del Qatar − da settecento milioni di anni fa fino a oggi − nella convinzione, espressa nel discorso d’apertura dalla Principessa Al Mayassa, che presiede la Qatar Museum Authority, l’organismo cassaforte della dotazione finanziaria necessaria a realizzare e sostenere il museo, «che la costruzione di un grande futuro di un popolo comincia dalla conoscenza delle proprie radici». La Qatar Museum Authority investe oltre un miliardo di dollari l'anno, non soltanto acquistando capolavori, ma anche sostenendo gallerie, finanziando festival ed eventi di arte pubblica. Ed è interessante rilevare che se è vero che la “sceicca” sostiene che «il Qatar è una terra antica ricca di tradizioni, fra deserto e mare, che ha accolto nel corso dei secoli molte culture. Sebbene sia proiettata nel futuro, è ancora molto legata ai valori tradizionali. Siamo felici di condividere le nuove esperienze museali con le nostre comunità locali, ma anche con ospiti internazionali», è ancora più vero che buona parte delle risorse finanziarie dell’organismo da lei presieduto vengono impiegate per acquisti di opere internazionali, e non per sostegno di tradizioni, valori e centri culturali locali. Solo negli ultimi ventiquattro mesi all’elenco degli acquisti si sono aggiunte le opere Quando ti sposi? di Gauguin per 300 milioni di dollari, così come l’acquisizione per più di 70 milioni di dollari dell’opera White Center di Rothko – un’autentica follia per i seppur alti livelli di prezzo di questo artista−, o i 20 milioni di dollari per un armadietto di medicinali di Damien Hirst, nonché altre opere, tra cui, in ordine sparso, tele di Warhol, Lichtenstein, Matisse, oltre ovviamente a intere grandi collezioni e al famoso Giocatore di carte di Cezanne, terza opera più costosa al mondo (acquistata per 250 milioni di dollari), il tutto in una sorta di calciomercato dell’arte, dove al posto di Neymar puoi trovare Anthony Gormley, un artista inglese vivente, o un Modigliani – se solo ce ne fossero, di autentici, ancora sul mercato attivo. Esiste quindi da una parte un dichiarato desiderio di dedicare questa folgorante bellezza architettonica di Jean Nouvel all’identità e alla storia del Qatar, come nelle parole della stessa direttrice del museo, Sheikha Amna bint Abdulaziz bin Jassim Al Thani, «intendiamo offrire una nuova esperienza di visita, ponendo la gente al centro. Questo è un museo che racconta la storia della gente del Qatar in modo innovativo, olistico e immersivo. Nel cuore dell'esposizione permanente c'è un archivio digitale accessibile al pubblico, con migliaia di immagini, video e documenti provenienti dal Qatar e dall'estero». Ma esiste anche una altrettanto manifesta intenzione di proseguire negli acquisti e nel commissioning di opere di artisti occidentali e una per nulla celata spinta egemonica verso un ruolo di primo piano nella cultura contemporanea. Se infatti non è sempre semplice, nemmeno per una petro-potenza, costruirsi una collezione di arte antica all’altezza di quelle europee o americane a colpi di trecento milioni alla volta per opere di cui molti palazzi italiani o musei internazionali dispongono da decenni, è decisamente più accessibile diventare polo magnetico dominante nella geografia dell’arte contemporanea. «Pecunia non olet», e nessun artista, gallerista o organizzazione fieristica avrà (giustamente e legittimamente) mai nulla da eccepire se a comprare l’ultima opera di Richard Serra o di Damien Hirst sia una fondazione qatarina o un museo di Liverpool. Una cosa a cui noi occidentali ed europei non abbiamo mai pensato nella liquidità della globalizzazione è l’evenienza che il Rinascimento possa tornare a manifestarsi, ma questa volta non più a Firenze, quanto nel Golfo. Se la Cina si prende l’Africa con le vie di accesso e di connessione all’Asia, i paesi del Golfo, Qatar in testa, possono prendersi l’arte e la cultura? Non si devono scomodare Avicenna o Averroè per comprendere che questo potrebbe accadere, e non si deve essere ingenuamente autarchici o mestamente gelosi per provare a costruire una retroguardia d’opposizione. Non si dovrebbe infatti essere a tal punto schizzinosi da trovare scandaloso visitare il capolavoro del Cinquecento di Leonardo al Louvre e il prossimo capolavoro degli anni Dieci del Duemila a Doha. Non è forse così?

È quello che sta già accadendo se, stando agli scarni comunicati della Qatar Museum Authority, le ultime cinque commissioni per opere sono state affidate ad artisti interamente e definitamente europei o occidentali, come Takashi Murakami, giapponese già europeizzato dai soldi di Pinault, Richard Serra, Damien Hirst, quest’ultimo impegnato nel realizzare quella che verrà probabilmente ricordata (anche questo è un record) come la sua più deludente opera – The Miraculous Journey, una serie di giganti feti in bronzo appisolati nell’utero materno. E questa ondata migratoria culturale ovviamente non ha coinvolto solo gli artisti, non avrebbe potuto. È anzi partita dalla base, ossia dalla costituzione di un terreno solido, un comitato scientifico, un board di consulenti certamente ben pagati, che potesse legittimare le chiamate agli arti-star. È il caso dell’ormai ex presidente della Rhode Island School of Design, Roger Mandle, del CEO di Christie’s Edward Dolman e del super-specialista Jean-Paul Engelen, tutti trasferiti in Medio Oriente per lavorare per la Qatar Museum Authority, solo per tornare tranquillamente in Europa o negli US pochi anni dopo. Lascerò poi al lettore decidere se considerare rilevante ogni dichiarata ingiustizia sociale qatarina nella scalata al potere culturale, che per onore di cronaca, e per placidità d’animo, è per lo meno doveroso citare utilizzando le parole di Mikolai Napieralski, ex dipendente del Qatar Museums: «in Qatar, la percezione pubblica e la “faccia pulita” sono fondamentali, il che significa che qualsiasi divergenza di opinioni deve essere inquadrata nei termini più diplomatici. Gli orari di ufficio tendono a essere rilassati, e possono essere risistemati (o completamente ignorati) con poco più di un Inshallah. Elementi incongruenti con la costante, malcelata tensione su chi è in realtà al comando – gli espatriati occidentali assunti per gestire progetti o i locali che avrebbero dovuto essere da questi addestrati. Tutto ciò finisce per creare un ambiente di lavoro interculturale estremamente negativo. Lo staff occidentale che è stato assunto e portato qui come curatori, conservatori e ricercatori non è mai stato cieco a nulla di tutto questo. Ma quando vivi in ​​un hotel a cinque stelle, fai affari in volo per le conferenze in tutto il mondo e ti viene consegnata una indennità di 5.000 dollari per qualche isolata notte all'estero, senza fare domande, è facile trascurare l’ingiustizia che subiscono gli altri. Ne ero colpevole io. Lo eravamo tutti. Di conseguenza, gli espatriati occidentali di QMA hanno alleviato la loro colpa con generosi consigli per il personale di servizio e una forte dipendenza dall'alcol. D’altronde, 25 dollari a cocktail al W Hotel erano un modo eccellente per dimenticare che eri nel bel mezzo del deserto, circondato da un’abbondante disparità di ricchezza e abusi sul lavoro. Quando l’alcol non riusciva a sistemare le cose, le persone semplicemente implodevano, venivano arrestate, licenziate e deportate per un caleidoscopio di reati. Tutti gli altri consulenti che per questioni diplomatiche non potevano subire questo trattamento, semplicemente esaurivano le loro profumatamente pagate consulenze».

Una conversazione con Pietro Marani

Pietro Marani è una delle poche persone al mondo che può vantarsi (non lo farà mai) di aver partecipato alle più importanti commissioni di restauro di opere di Leonardo da Vinci. Occasione che gli è dovuta vista la straordinaria conoscenza del genio universale da Vinci, che affonda le sue solide radici tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. «Era un tema molto fuori moda a quell’epoca, un po’ perché le avanguardie avevano attaccato le arti ritenute più tradizionali e in generale le memorie storiche sedimentate, un po’ perché Leonardo era in una qualche misura un rappresentante dei movimenti autarchici e fascisti, così come la cultura degli anni Trenta e Quaranta aveva insistito nel rappresentare. Tra le due guerre infatti la propaganda aveva usato la sua immagine e strumentalizzato Leonardo come “genio italico”, ponendolo in una posizione imbarazzante, come una figura storicamente poco credibile. Da qui, negli anni Cinquanta si è poi sentita la necessità di un periodo di stacco e di silenzio». La conversazione con Pietro Marani dovrebbe vertere esclusivamente sul Salvator Mundi, sulla sua recente acquisizione per quattrocentocinquanta milioni di dollari (era il dicembre del 2017), e sul significato che potrebbe avere il vederlo esposto in uno dei paesi del Golfo. Ma presto la lucidità del professore porterà luce su molte questioni, siano esse vicine o lontane da questo iniziale centro.

Quando Pietro Marani, stregato da una lezione della sua “maestra”, la professoressa Anna Maria Brizio, decise di studiare Leonardo da Vinci non avrebbe forse immaginato di diventare prima Ispettore (dal 1983) e poi Direttore della Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Milano e Vicedirettore della Pinacoteca di Brera (fino al 1999), di venire invitato dai più grandi musei del mondo a tenere conferenze su Leonardo, come la National Gallery di Londra, il Musée du Louvre a Parigi, il Metropolitan Museum of Art di New York, la Georgetown University di Washington, il Collége de France di Parigi e, infine, quel giorno del 2009, di essere uno dei primi ad ammirare dal vivo e attribuire a Leonardo il Salvator Mundi. «La nostra non fu un'autenticazione ufficiale. Eravamo stati chiamati alla National Gallery di Londra per esaminare i progressi dei restauri scientifici sulla Vergine delle Rocce. In quell'occasione ci mostrarono il Salvator Mundi. Fu una proposta inaspettata. Non ci chiesero perizie, o studi; nessun testo scritto, nessuna dichiarazione ufficiale. Solamente eravamo lì, di fronte alla tavola. E ci siamo entusiasmati, sì, discutendone fra noi. Diane Modestini, la restauratrice, ingaggiata da Robert Simon (ndr. grande antiquario di New York), aveva già tolto la maggior parte delle orrende ridipinture con le quali era stato coperto l'originale. Restava una netta spaccatura della tavola che attraversava l'occhio destro, su cui era ceduto del colore». E Marani continua (qui nell’intervista apparsa per L’Espresso il 22 novembre 2017, appena dopo l’acquisto del Salvator Mundi da parte della casa reale Saudita), «è giusto circoscrivere il contesto di quella prima analisi. All'epoca a noi apparse evidente la mano di Leonardo; idea che ho poi confermato osservando il quadro alla mostra di Londra del 2011. È, infatti, la qualità della materia a rendere uniche le sue opere. Il suo modo di stendere i pigmenti. La pittura di Leonardo è fatta di niente. La materia appoggiata alla superficie dalle pennellate è talmente leggera da scomparire e definire al tempo stesso. Mi riferisco qui alla qualità delle parti buone, ovvero tutto ciò che sta intorno alla testa – dove invece gli interventi successivi hanno compromesso definitivamente l'originale, di cui non resta niente. Sono di Da Vinci le mani, tutte e due, alcuni riccioli, il globo di cristallo di rocca, fatto di nulla, appunto, con qui frammenti vegetali al suo interno, e i panneggi. Quindi sì, avvallo l'attribuzione: in origine, era un buon Leonardo, adesso rimasto in condizione frammentaria, in parte manchevole». È questa possibilità, del 2009, ad aprire le porte della Storia a questo Leonardo “ritrovato”, la possibilità data a Pietro Marani di poterlo vedere dal vivo, a pochi centimetri dai propri occhi. «Quando ho iniziato a studiare non c’erano gli strumenti di oggi: il web, la possibilità di scaricare immagini a dimensione naturale, di trovare disegni e testi. Ai miei tempi si partiva da zero, andava letta la scrittura, controllate le trascrizioni ottocentesche. La pittura, cosa evidentemente fondamentale per non basarsi su riproduzioni, viene dopo. Ecco perché ho sempre cercato di avere gli originali in mano e ho avuto la fortuna di far parte di commissioni di restauro di opere importanti nei laboratori dei più grandi musei del mondo». È qui che mi preme chiedergli una conferma di quanto da lui detto nella stessa intervista a L’Espresso nel 2017 a proposito del futuro del Salvator Mundi dopo il milionario acquisto da parte di un emissario di MBS (Mohammad bin Salman, principe ereditario saudita),

«mettere a disposizione della comunità, del pubblico e degli studiosi, un’opera come quella, penso sia un dovere. Le mostre sono occasioni proprio per studiare le opere, mostrarle a un circuito diverso».

È questo che è interessante sottolineare in caso di capolavori come questi: la traslazione di un diritto che diventa un dovere. Al di là degli indubbi ritorni commerciali ed economici di mostrarlo in un museo al pubblico (Marani aggiunge «si vocifera sempre più insistentemente che la destinazione finale non sarà il Louvre ad Abu Dhabi ma un museo specifico dedicato al Salvator Mundi in Arabia Saudita»), c’è questa idea di restituzione di un valore e di una fortuna che il collezionista ha, «se hai quei mezzi economici non avrebbe nessun senso tenerlo in un caveau. Ed è giusto che tu restituisca in parte quello di cui la tua bravura o fortuna ti hanno dotato». D’altronde per Marani è una questione non di elitismo o di “battaglia” culturale tra il Golfo e l’Europa o l’Occidente.

«Secondo me, con la cultura europea tutto questo ha poco a che vedere. È invece una mossa per entrare nel contesto delle grandi potenze culturali: grandi stati così ricchi, e che hanno molti mezzi, vogliono evidentemente competere con i grandi flussi turistici europei. Non è una guerra commerciale all’Europa o un tentativo a farle ombra: il Louvre d’altronde presta costantemente opere in tutti il mondo. È un chiaro tentativo (come sarebbe quello dei Mondiali in Qatar, viene facile pensare) di guadagnare del credito rispetto alle altre grandi civiltà europee o mondiali. Tentativo lodevole, per altro.»

E aggiunge, «non vedo grandi flussi turistici verso Doha o Abu Dhabi, ma è come per gli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Gli aiuti militari, i vari piani economici tra cui quello Marshall, da tutto questo gli USA volevano trarre anche qualcosa sul versante culturale: ecco che nel 1967 comprarono un Leonardo per la nascente National Gallery di Washington; dovevano semplicemente porsi allo stesso livello dei grandi musei nazionali europei». Prima di lasciarci, mi viene spontaneo chiedere cosa possa dare ancora alle generazioni future lo studio e l’eredità di Leonardo, «la grande curiosità e l’impegno che metteva in tutte le sue ricerche, la dedizione totale allo studio, verso risultati bellissimi e sublimi. Che i giovani capiscano che nulla si realizza dal nulla. Leonardo capì e anticipò la comprensione di incredibili fenomeni naturali o soluzioni ingegneristiche con il durissimo lavoro di ogni giorno. Solo lui o pochi altri avevano una veduta sulla realtà, così a 360 gradi. Oggi con le specializzazioni non si può forse più chiedere questo, ma l’impegno e i risultati raggiunti dal suo genio possono ancora ispirare».

La Kabbalah nell’estetica e una provocazione utile al pensiero laterale

Se dovessimo riassumere in poche righe – cosa che non è necessariamente aberrante se utile a comprendere alcuni meccanismi generali – e applicare la Kabbalah ebraica al dispositivo della libera circolazione della cultura, potremmo spingerci a sostenere che l’acquisto del Salvator Mundi di Leonardo e la sua eventuale esposizione al Louvre di Abu Dhabi – così come in un eventuale museo Saudita – pareggerà il computo totale dei “più” e dei “meno” della cultura mondiale – se non addirittura rappresenterà un’addizione, dato che (forse e appunto) verrà prima o poi esposto per il pubblico piacere. E lo stesso vale per molti dei tesori “europei” che stanno viaggiando dai musei del Continente verso il golfo arabo. Che il Giocatore di carte di Cezanne venga esposto a Doha oppure alla Beyeler Foundation di Basilea è infatti, per il mondo, indifferente, purché questo sia sempre visibile. Quello che invece è più scivoloso definire è se vi sia una corretta ripartizione economica tra i paesi che acquistano questi capolavori a cifre astronomiche e i paesi d’origine. Ovviamente qualsiasi teoria anti-sperequativa applicata alla cultura è attualmente pura fantascienza, ma talvolta è utile radicalizzare le circostanze per raggiungere tutti gli angoli di visione di un evento. Se accettiamo l’assunto per cui i paesi del Golfo (Qatar in testa) si stanno comprando la nostra cultura e la loro posizione nella griglia di partenza della cultura che verrà, possiamo provare a non considerare le opere per quelle che sono oggi, ossia dei semplici asset di bilancio di un museo, che costituiscono un’immobilizzazione materiale, nonché una voce di ricavo (biglietteria, bookshop, gadget, eccetera), e iniziare a contemplarle come un patrimonio condiviso di un certo paese, forse quello nativo dell’artista, o forse quello in cui l’opera è stata realizzata (e commissionata?).

Nella pallacanestro italiana esiste una regola, che si chiama “regola del parametro”. Consiste nella costituzione di un diritto economico per quelle società che formano giocatori nei propri vivai e che poi li vedono prestare i loro servigi in altre società sportive: in pratica l’Olimpia Milano paga per ogni stagione in cui ha sotto contratto Amedeo Della Valle un parametro alla sua squadra di origine, dove il giocatore si è formato cestisticamente, che in questo caso è Casale Monferrato. Esiste un parametro diverso per ogni categoria dove il giocatore militi, uno, il più alto, per la A1, un altro, il più basso, per la serie D. Questo incentiva le squadre, soprattutto quelle minori, a investire nei vivai, perché a tendere potrebbero ritrovarsi molti “parametri” con cui rimpinguare le proprie spesso magre casse. Ed è anche un giusto premio per quelle società particolarmente abili a costruire giocatori di livello. Ora, applichiamo questo modello all’arte. Che cosa accadrebbe se il QMA comprasse l’Emmaus del Merisi dalla Pinacoteca di Brera di Milano? Oggi verserebbe, ipotizziamo, centocinquanta, duecento, trecento milioni nelle casse del museo. E nel caso del parametro? Pagherebbe un parametro, un diritto di esposizione allo Stato Italiano che poi potrebbe riconoscerlo al museo o utilizzarlo per un miglioramento generale del “sistema cultura”. Con questo impianto l’Italia forse risanerebbe una parte del suo bilancio, perché le verrebbe riconosciuto economicamente lo straordinario ruolo culturale che ha avuto per secoli, ispirando e connettendo con il genio e la creatività le menti più illuminate della storia.

Cosa accadrebbe alla Grecia che oggi vive nei PIIGS, strangolata a lungo dalla Troika, e umiliata nel processo del suo “salvataggio” da equilibri politici tedeschi (ovviamente la Grecia dovrebbe biasimare i propri sperperi faraonici)? Che valore avrebbe il parametro dell’altare di Zeus a Pergamo (oggi a Berlino) o i Frontoni del Partenone (oggi al British Museum)? E le mummie egizie spesso trafugate nell’epoca del colonialismo culturale e delle avide guerre contraddistinte dalle fantasmagoriche ruberie tra Inghilterra e Germania?

Allargando ulteriormente il punto di vista, invece di blindare le opere con cieche leggi protezionistiche come quelle di recente varate, che generano effetti collaterali come l’immobilizzazione delle stesse in musei nazionali che faticano a valorizzarle o addirittura a mostrarle, nonché in collezioni private lontane dagli occhi del pubblico, meglio costituire un sistema che premi il libero mercato e la libera circolazione dei beni, magari connesso a un sistema ri-equilibrativo di compensazione per i paesi da cui provengono i lavori, come quello sopra esposto cosiddetto «del parametro».

Infine, se è attualmente improbabile immaginare la realizzabilità di un meccanismo simile, e forse anche la sua totale equanimità, è utile e vagamente consolatorio pensare che possa anche solo esistere in uno dei fantomatici mondi possibili; e forse potrà placare la frustrazione di chi, ancora, soffre nel vedere il soave sorriso di Monna Lisa laggiù al fondo dell’opulenta sala del Louvre a Lei dedicata.