Un processo energetico è cosa semplice. Ci vogliono una fonte di energia; e un convertitore che la sappia trasformare almeno in parte in lavoro utile. Maggiore la disponibilità della fonte e maggiore il lavoro producibile; maggiore la potenza del convertitore e maggiore il lavoro utile che posso produrre nell’unità di tempo. In principio il cibo, in forma di bacche e mammut, era la fonte; ed il muscolo umano la macchina. Poi tra 8 e 10000 anni fa la rivoluzione agricola ci cambiò la dieta.

Il cereale moltiplicò la fonte; e domesticazione degli animali e aumento della popolazione moltiplicarono i convertitori (anche via schiavitù. “Per i poveri il bove rimpiazza lo schiavo”, Aristotele, Politica). Non aumentò però, se non per l’apporto dell’animale domestico, la potenza del convertitore. Al netto di qualche mulino (ad acqua o a vento), il convertitore era muscolo e tale rimase. La disponibilità della fonte, a sua volta, aveva come limite la finitezza della terra come fattore di produzione. Alla crescita demografica e produttiva degli inizi fecero perciò seguito in Europa secoli di stagnazione; e che la condizione naturale fosse quella di un’economia stazionaria divenne dottrina comune (Malthus, Ricardo, Stuart Mill...).

Poi si compì la transizione energetica. Ciò che era organico (la fonte) si fece fossile; e ciò che era muscolare (il convertitore) si fece meccanico. La terra si fece (virtualmente) infinita; e la capacità di conversione (potenzialmente) illimitata. La produzione di lavoro utile parve non conoscere limiti; e generò boom demografico (siam passati da uno a sette miliardi in meno di un secolo) ed esplosione di ricchezza. Al primo ha magari contribuito la penicillina; e alla seconda finanza e commercio. Ma senza i combustibili fossili e le loro macchine, senza petrolio e progresso tecnologico che ne valorizza il lavoro, il passaggio dallo stationary state di Stuart Mill, all’embarras de richesse di Schumpeter non avrebbe mai potuto compiersi. Il progresso è figlio di energia e di tecnologia.

Oggi si pone il tema di una nuova transizione. Dal fossile a quel che chiamiamo rinnovabile. Ed è transizione che non imbocchiamo per naturale sviluppo del “mercato”; ma perché ce la impone un fattore esogeno all’economia e che prende il nome di “cambiamento climatico”.

Di quest’ultimo qui non si discute; dando per premesso che il cambiamento sia in atto e che le attività antropiche vi contribuiscano più che significativamente (la scienza non è democrazia; ma che il 95% della letteratura così si esprima dovrebbe essere bastante al decidere politico).

Quella che ci attende è però una transizione retrograda, che vento e sole e acqua li utilizzavamo già prima dei fossili. E contrariamente alla transizione fossile, è in buona parte una transizione a fonti di minore densità energetica (energia per unità di volume) e di minore densità di potenza (energia prodotta nell’unità di spazio). Il petrolio ha un’alta densità energetica, il che insieme alla sua liquidità ne ha fatto la fonte “portatile” per eccellenza e ha reso i suoi prodotti (quasi) insostituibili come carburanti per trasporto. Sostituirlo con qualcosa di meno “denso” significa (al netto delle batterie elettriche) serbatoi più grandi ed un processo di conversione energetica meno efficiente. La produzione di energia elettrica da idrocarburi ha a sua volta un’alta densità di potenza (W/m2). L’uso di fonti alternative (dalla coltivazione di vegetali per biomasse alle installazioni eoliche e fotovoltaiche) richiede la disponibilità di un multiplo dell’area necessaria alla produzione fossile, fase estrattiva inclusa. Potenzialmente, ci ritorna in forma di spazio il tema della finitezza della terra. Poi c’è l’intermittenza. Sole e vento non sono continui. Per garantire la costanza del flusso elettrico devi usarli in coppia con una base assicurata di generazione convenzionale; o imparare a stoccarli per utilizzare la riserva nei momenti in cui la fonte diretta è assente. Meno densità. Intermittenza. Già bastano a disegnare una traiettoria di transizione non volontaria. Il “mercato” non seleziona il meno efficiente. Poi, si dirà, così è anche perché concepiamo da neoclassici l’economia come un processo di interazione astratta tra capitale e lavoro, e ne rimuoviamo la materialità della fonte ed il suo essere (parzialmente) destinata a trasformarsi in rifiuto da smaltire. Il prezzo del petrolio non incorpora i danni dei suoi rifiuti, dall’inquinamento atmosferico al suo contributo al riscaldamento globale ( si chiamano “esternalità” proprio perché non vi è associato un prezzo - qui negativo). Al netto delle esternalità la transizione, in punto di costo, non è perciò “naturale”. È funzione anzitutto di politica e di tecnologia. Ed insieme di consenso e di finanza.

 

La politica. Le tocca di colmare il gap di costo, e di assecondare il percorso tecnologico. Ha come strumenti essenziali tassazione, sussidi e divieti. La tassazione può consentire (per esempio attraverso una carbon tax) di incorporare il costo esternalità nel prezzo del fossile. Il sussidio trasforma in economico ciò che non lo è, favorendone lo sviluppo verso crescenti economie di scala. Il divieto può giungere ad escludere il fossile in funzione del livello dei suoi rifiuti. A parole funziona benissimo. Ma nella pratica, anche dopo il COP 21 di Parigi e le sue sacre proclamazioni, il ritmo di movimento è ben più lento di quello necessario a contenere il cambiamento climatico coerentemente agli obiettivi (max due gradi di aumento al 2100). La politica ha come limite un tema di consenso. Possiamo volendo liberarci del carbone in pochi anni e senza eccessivi aggravi in bolletta. Qualche aggravio però ci toccherebbe. E la politica il "qualche" lo vorrebbe evitare – così la verdissima Germania brucia ancora lignite e importa carbone dagli Stati Uniti. Niente carbone e niente miniere – e il minatore polacco resiste ed il suo governo gli è solidale.

Il macellaio di Adam Smith non era ecologista; e l’adattamento del comportamento dell’homo oeconomicus alle esigenze della biosfera è men che automatico. Il Governatore Carney lo ha spiegato in altro modo ricorrendo all’immagine della tragedy of horizons. “L’impatto catastrofico del cambiamento climatico sarà  subito ben oltre l’orizzonte temporale dei decisori di oggi – imponendo sulle future generazioni un costo che la generazione odierna non ha incentivi a prevenire”. Creare consenso sulla necessità di preservare il futuro a costo di una qualche stretta del presente. Dovrebbe essere la missione di una politica per cui l’ambiente non è solo parola. Anche se la politica accelerasse, non sarebbe comunque per domani. La transizione, oltre che innaturale, è in una società complessa necessariamente lenta. Sostituire la fonte vuole (spesso) dire anche sostituire il convertitore.

Tutti plaudiamo al successo dell’auto elettrica. Ma sono ancora ben sotto l’1% del parco circolante; e le previsioni più ottimiste ce le danno al 10 nel 2030. Se vuoi passare dal petrolio alla rinnovabile non basta cambiare il serbatoio; s’ha da cambiare la macchina. Normale che prima si ammortizzi quello che si ha.

Poi c’è la tecnologia. Quella che storicamente ha invalidato qualunque modello economico, e proprio per la nostra incapacità di prevederne lo sviluppo e gli sviluppi. Molto dipende da lei. Con le tecnologie dell’oggi, una transizione compiuta non sarebbe possibile se non a spese del nostro potenziale di ricchezza. Se togliamo il petrolio ai trasporti, rischia di venirci meno una quota più che materiale dei flussi commerciali; e l’idea stessa di globalizzazione rischia di vacillare. Se volessimo sostituire i fossili con biomasse non ci basterebbe la superficie della terra. E così di seguito.

Nuove tecnologie, sviluppatesi essenzialmente senza necessità di stimolo pubblico, stanno già rinnovando il nostro modo di consumare e distribuire energia. Banda larga e smart metering, intelligenza artificiale e stampanti 3D possono anche in combinazione tra loro diminuire la domanda unitaria ed ottimizzare i nostri consumi. C’è chi ritiene che il loro sviluppo potrebbe bastare quantomeno ad impedire nel breve termine l’aumento del consumo di fossili; ma temo sia sperare troppo. A fini di transizione, e di efficienza del processo energetico tout court, la scommessa della tecnologia è che essa ci consenta, in progresso di tempo, di superare il gap della densità. L’efficienza nella captazione della fonte e l’efficienza del suo trasformatore devono crescere più o almeno quanto non decresca in processo di tempo la densità della fonte stessa. Ed anche che la tecnologia ci rimedi l’intermittenza. Il tema forse più importante della transizione è quello dello sviluppo di sistemi di accumulo efficienti ed economici. La priorità non è nella disponibilità della fonte (solo con le radiazioni solari copriremmo i nostri fabbisogni per i secoli a venire). La priorità è di imparare a conservarla (o, meglio, ad immagazzinarla). Perché infine avanzi la sostituzione delle fonti e delle macchine, e si stimoli l’affinamento tecnologico occorre che qualcuno ci investa. Qualcuno ha stimato che gli obiettivi di COP 21 implicherebbero low carbon investments dell’ordine dei 3000 miliardi di dollari all’anno. Qui il cerchio si chiude. La politica può essenzialmente stimolare, ma non può per evidenti limiti farsi carico del fabbisogno. Il privato provvede solo se ha ragionevole certezza di un ritorno accettabile. Per gli investimenti in infrastrutture tassazione, sussidi e divieti devono potergli disegnare questo orizzonte. Per la ricerca tecnologica ci vorrà capitale di rischio. Con la finanza perciò giudice del beauty contest delle tecnologie in sviluppo. Che basti a tenerci sotto al tetto dei due gradi di aumento al 2100 è poi questione che supera i miei orizzonti temporali.