È davvero l’inizio di tutto: «In principio era il Verbo», nel senso della parola. L’incipit di tutte le storie, pure quelle di sport, che sono poi sentieri di vita. Anche se bisogna distinguere, fin da subito, perché la forma si fa sostanza: «Ci sono due aspetti della parola – attacca Dan Peterson, che ha l’accento di un playground e la proprietà di linguaggio di un ateneo – ovvero, quella data, quella che cioè è una promessa; e la parola nel senso generale di esprimersi». Non è poco, perché la parola, parafrasando il generale von Clausewitz, è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Sa essere forza e potenza e, va da sé, vittoria o sconfitta. Tua, ancor prima degli altri: della tua squadra, del tuo team, della tua azienda. Anche qui, come nelle sacre scritture del Verbo, c’è un peccato mortale:

«Non fare mai una promessa – spiega Peterson – perché fattori altrui ti possono giocare brutti scherzi. Ma, se dai la tua parola d’onore a qualcuno, devi mantenerla. Dico sempre agli allenatori giovani, ma pure agli uomini del mondo del business e dell’industria: “Hai un contratto con la gente, ogni volta che parli. Quindi, non promettere ciò che non puoi realizzare”».

E in fatto di «realizzare», meglio fidarsi di Peterson, per tutti, il Coach: le vittorie nel basket ruggente degli anni Settanta e Ottanta, tra Bologna e Milano, lo fecero allenatore leggendario, la parola e l’intelligenza lo consacrarono a personaggio. «Meglio dire: “Se fai questo, avremo la possibilità di fare un buon lavoro”. Chi mantiene la parola data, avrà sempre rispetto. Nella vita, non è permessa neanche una bugia; forse, neppure un’esagerazione. Riflettere prima di parlare». Nel dubbio, c’è sempre il grande Oscar Wilde: «A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprire bocca e togliere ogni dubbio». Rotolano ovviamente parole anche dietro al pallone da calcio, come dice subito Gian Piero Gasperini, ormai veterano della serie A, ora all’Atalanta: «Non ci sono solo parole, ma una serie di concetti, al di là di vincere e dare il massimo. Concetti che se entrano a far parte del gruppo, sono effettivamente efficaci. Detto ciò, è evidente che il peso delle parole è notevole, ma solo se chi le trasmette riesce a entrare in sintonia con chi le riceve». Siamo, come diceva Peterson, alla parola nel senso di esprimersi: quella su cui si cementano squadre e gruppi di lavoro, imperi e crolli: «Tutta la mia vita – racconta ancora l’ex tecnico dell’Olimpia Milano – è stata basata sulla parola: insegnare i fondamentali, comunicare con i giocatori, le conferenze stampa, le interviste in tv e radio. E poi, riunioni tecniche, i pre-partita, l’intervallo, i time-out. Una lista infinita». Ci sono delle regole:

«Bisogna sapere pesare e misurare le parole: guai dire una cosa, anche in privato, che non vorresti vedere la mattina dopo sul giornale con un titolo a nove colonne! Non dire mai, “Oh, fra di noi...” se l’altra persona è un giornalista. Eviterai polemiche inutili».

Dopodiché, c’è sempre la sfida sul campo, o sul mercato, dove il bersaglio è uno solo, ma non quello che pensano tutti, come diceva Vince Lombardi, uno che, negli anni Sessanta, ha fatto la storia del football americano: «Non è importante vincere, ma saper vincere», ripeteva ai suoi. Il problema è che con aneddoti e citazioni si rischia sempre la figuraccia con Peterson, che deve avere una memoria di alcuni gigabyte. «La verità è che ci sono diverse versioni delle parole di Lombardi e la più comune, dice più o meno che: “Winning isn’t everything; it’s the only thing”. Vincere non è tutto, ma è l’unica cosa». Quel che poi, grazie a Giampiero Boniperti, diventò la ragione sociale della Juventus. «Ovvio, oggi, i falso perbenisti dicono che è esagerato parlare così – mette in chiaro Dan – ma la cosa da ricordare è che Lombardi aveva grandissime qualità umane e, certamente, al momento, aveva fatto capire una cosa: lui voleva, dai suoi, la mentalità vincente». Come poi un altro mito d’America, John Wooden che nel basket universitario, con  Ucla, vinse dieci titoli Ncaa: «Sapete cosa diceva? Il successo non è solo vincere. Perché si può vincere non dando il massimo o non giocando bene. Il successo è dare il massimo di te, come singolo e come squadra». Morale (di Wooden e di Peterson): «Se tutti danno il massimo, è difficile non vincere. Anzi, dare il massimo è più difficile che vincere». Tutte cose che vanno comunicate: «E con chiarezza – riprende subito Peterson – con insegnamento “spezzato” in un processo step-by-step. Poi, viene il concetto di squadra, anche con le domande: « “Avete capito?” Oppure, “Cosa dobbiamo fare per vincere oggi?” O ancora: “Cosa devi fare tu per farci vincere oggi?” Quando fai così, il giocatore firma un contratto con il coach e con i compagni. Quando fai così, la squadra si fa una promessa. È una tecnica che ho imparato molti anni fa da James “Barney” Oldfield, al piccolo McKendree College, una scuola nella parte sud dell’Illinois, dove io ero suo vice, nel 1962-63». Pausa: «Bisogna sempre citare chi ti ha fatto capire come stare al mondo. Barney Oldfield era quella persona, per me». E anche questo è un buon uso della parola, e della memoria. «È necessario  essere convincenti – ragiona Gasperini – perché non puoi imporre concetti, idee, parole. Devi trasmetterle, e vedere se sono condivise. Nel mio campo è importante stare sul piano tecnico: si ragiona meglio e si hanno meno contrapposizioni». A volte le parole si fanno immagini: «Con la squadra, mi aiutano molto i video, perché sono molto convincenti: non puoi mentire». Video non vuol dire film, avverte però Peterson: «Hollywood tende a esagerare le cose per fare colpo. Prendete il super-discorso di Al Pacino in “Ogni Maledetta Domenica”: nessun coach lo farebbe mai, mai». Altre pellicole sono invece più prudenti nei toni e ambiziose nei fini: «“Moneyball”, è più vicino alla realtà e Brad Pitt fa una grande interpretazione nei panni del general manager, Billy Beane». Paragone azzeccato, se quest’ultimo film tratta soprattutto di una cosa (il baseball) ma per spiegarne altre: lo sport e il senso della sfida e, quindi, della vita. Pure qui le parole hanno un peso, a partire dal fenomenale libro del giornalista economico Michael Lewis che diventò sceneggiatura: «L’arte di vincere un gioco impari». Perché Pitt, alias Billy Beane, è il gm dei disastrati Oakland Athletics, da sempre una delle franchigie meno ricche della Major league di baseball, e con la condanna di aver dall’altra parte della baia, uno dei club più opulenti, di soldi e titoli, i San Francisco Giants. Ergo: «Se fai le loro stesse cose, hai perso in partenza». Sarà una sfida, e un destino, ribaltato anche con le parole cui, ovviamente, seguiranno i fatti. La vocazione cestistica di Peterson gli fa però ripescare un altro ricordo da cineforum: «“Hoosiers”, che in Italia uscì come “Colpo vincente”, basato su un evento reale». La squadra di basket di una piccola scuola sperduta tra i campi dell’Indiana, la Milan High School, che nel 1954 si arrampicò fino alla vittoria del campionato statale. «E Gene Hackman fa una prestazione notevole come il coach di Hickory HS. E il suo discorso prima della finale, è reale. Me lo disse anche Pat Riley (la guida dei favolosi Los Angeles Lakers a cavallo tra di anni Ottanta e Novanta, ndr), che incontrai in una libreria di Boston, non tanto tempo dopo l’uscita del film».

Parafrasando un altro epico incipit – Tolstoj, Anna Karenina – finisce che nello sport tutte le parole si somigliano, ma ogni discorso è diverso a modo suo. C’è quello per l’esordiente e per il campione, per la squadra che ha vinto e per quella che ha perso. «Nell’Atalanta c’è un ragazzo molto interessante, Musa Barrow,19 anni, che prima del suo esordio dall’inizio in serie A era davvero teso: ma fece bene». Merito suo, va da sé, ma pure di chi gli aveva indicato il sentiero, ovvero Gasperini: «“Devi giocare con grande fiducia”, gli dissi, “e non avere paura di sbagliare: se fai alcune cose buone, noi siamo contenti. Metti le tue qualità in campo, dando il massimo”». Risultato: «Ha fatto una partita con grande slancio: merito suo, non si discute, ma con quelle parole, l’ho visto che si è tolto un peso. E mi ha fatto piacere». È uno dei segreti: «Quando abbiamo dato il massimo, il più delle volte raggiungiamo anche l’obiettivo». Siamo sempre dalle parti di Vince Lombardi: «Dare il massimo non è vincere, ma spesso ci vai vicino». In fondo, la carriera, il successo, la vita insomma, sono una questione di miscele, di parole e di persone. Di chimica. Le tipologie umane, di carattere, sono un po’ come la tavola periodica, capace di miracolosi intrugli: prendete il sodio, che è un metallo reattivo e velenoso, che si taglia con un coltello, e il cloro, un gas maleodorante e mortale. Eppure, quando si legano, formano il cloruro di sodio, un composto innocuo e biologicamente indispensabile: meglio conosciuto come sale da cucina. Per non parlare di idrogeno e ossigeno, presi da soli: uno è un gas esplosivo, l’altro sostiene violente combustioni, ma combinati insieme formano l’acqua. Esiste qualcosa di più vitale? Capita così di mettere insieme uomini, anche diversi, e campioni, spesso diversissimi, e di vincere la sfida. Ovviamente, imparando gli uni dagli altri, allenatori compresi. Grazie alle parole, s’intende: «Ricordo la finale scudetto del 1982 – rispolvera i file della memoria Peterson – esattamente gara due della serie, a Milano. Mancavano tre minuti, e noi siamo sotto di cinque, 67-72, contro Pesaro. Avevamo vinto gara uno là, 89-86. Se vinciamo questa, siamo campioni d’Italia. Time-out. Chiedo a Mike D’Antoni: “Vuoi usare la difesa 1-3-1?” Lui, “How much time?”, cioè, quanto tempo manca? E io, “Tre minuti”. Lui, “No, stiamo uomo-a-uomo”» Segue, cronaca: «Facciamo 6-0 per vincere, 73-72. Canestro vincente? Mike». Ecco la glossa di Dan: «La domanda coinvolge. Mike, tornando in campo, certamente, si è detto: “Oh, il coach mi ha dato retta! Devo fare tutto per darmi ragione!”. E ha marcato il grande Kicanovic, facendo poi il canestro-scudetto». Sia chiaro, non va sempre così, come nei film, appunto. «Non mi piacciono molto quelli nei quali gli allenatori esagerano – sorride Gasperini – troppe americanate, dove sono tutti sempre molto ottimisti: ma lo sport non è così. È molto meno patinato, c’è più sporco e sangue. E molte cose nascono dalla rivalsa». Questa sì, una sceneggiatura: «Sei l’ultima ruota del carro, ma puoi diventare qualcuno di importante». È così che si forma il concetto di squadra: anche dalla forza e dalla potenza delle parole. Ma, sempre, senza esagerare modello Actors Studio: «Sulle motivazioni, anche lì c’è molta enfasi, nei film: ma spesso quelle urlate e basta durano un quarto d’ora, quelle forti, invece, nascono da dentro: è una pianticella interna, che devi curare. Ragioni interne, individuali e poi di squadra, che è la sfida più bella. Tant’è che dopo, a volte basta lo sguardo».

Come nella Bibbia, però, ogni cosa a suo tempo. Perché l’altro grande problema, per un allenatore, o per chi ha in generale la responsabilità di un gruppo, è quando parlare: «Raramente dopo una sconfitta», taglia corto Peterson.

Meglio aspettare 24 ore, o anche 48. Meglio farlo a mente fredda, non a cervello caldo. Meglio insomma dopo avere dormito una notte, e avere riflettuto e studiato i vari perché. In realtà non parlavo neanche dopo le vittorie, per gli stessi motivi. Tutti sono iper-tesi, con l’adrenalina che scorre, con le emozioni calde». Non è rimozione, ma riflessione: «Poi, quando parlavo dopo un giorno (o due), sapevano che avevo pensato bene prima di dire le cose e che ero convintissimo di ciò che dicevo. Le parole fredde sono sempre più pesanti che quelle dette a caldo». Stando bene attenti a certi principi: «Sincerità, chiarezza, schiettezza». Sul tempo, e nel tempo, Gasperini ha invece avuto un’evoluzione: «Prima parlavo subito, anche dopo la partita, anche se le cose andavano male, ed era un metodo che non mi piaceva: anzi, non mi piacevo io». Come si dice, sbagliando si impara: «E io ho imparato che quando perdi, ma soprattutto quando fai una brutta prestazione, è meglio non parlare». Anche qui, non vuol dire rimandare, ma solo pensare: «Il giorno dopo sono molto più efficace. Evito di essere annebbiato dal nervosismo e dagli episodi nel finale delle partite». È stato un percorso: «Conta fino a dieci, mi dicevano: un amico, un dirigente particolarmente affezionato». Poi ci sono i colleghi, cui rubacchiare qualcosa: «Mourinho è il numero uno: basa molto sulla comunicazione. Per alcuni è antipatico o simpatico, ma certo studia molto questo aspetto. Ancelotti invece è incredibile: gli rimbalza tutto addosso, che vinca o perda». Come diceva Picasso, in una delle tante versione della citazione, «i cattivi artisti copiano, i grandi rubano». Resta il fatto che l’immagine di un allenatore ha la sua importanza: «Noi dobbiamo avere una maschera, e quando non sei davanti alle telecamere, te la togli».

Parte dalle stesse parole Peterson: «Sincerità, che vuol dire chiarezza, schiettezza, onestà. Vale per il coach con il giocatore (o la squadra) e per il giocatore con il coach (o i compagni). Come dicono in Italia, le bugie hanno le gambe corte. Ma anche i bluff». Non è solo una questione etica, ma strategica: «Dire la verità non è un handicap. Quando sei sincero, sei anche calmo e sereno. Antoine Carr, che ha giocato per me nel 1983-84, diceva: “Peterson è il coach più calmo nel mondo”. Lo ero per natura, ma anche perché non avevo pesi superflui addosso. Avevo, come dite voi in Italia, il cuor leggero». Da lì uno dei soprannomi: «Mi hanno dato il nome di “Il Nano Ghiacciato”. Mi stava benissimo», se la ride adesso. Da ricordare: «Per una squadra, la parola chiave è avere un’identità, sapere chi sei e come devi fare». E devi anche saperlo comunicare: ai giocatori e all’esterno, nell’Era dei social, di instagram e twitter. «Arrivo a dire che tanti allenatori hanno fatto una carriera importantissima agevolati da questa capacità – sostiene Gasperini – che era anche superiore a quella tecnica o tattica. Non lo dico come fosse una cosa negativa, sia chiaro. Io non sono né Mourinho, né Ancelotti. Ma ora mi sento molto più disinvolto». Anche questo aspetto, va studiato e appreso: «Ci sono infinite tecniche, che rientrano nella gestione delle persone e dei gruppi: né più né meno che nella gestione di un’azienda. C’è davvero molto in comune. Io in generale, cerco di parlare con la squadra, sull’aspetto della comunicazione. A meno che non siano di carattere strettamente personale». Vige un comandamento: «Nessun segreto. E tendo ad affrontare i problemi subito. Sennò, poi diventa peggio».

Da grandi allenatori a impareggiabili comunicatori, che fabbricano slogan, da spot per la tv. Prendere il mitico Sir Alex Ferguson, che con il Manchester United ha vinto tutto, costruendo una storia che s’è fatta leggenda: «È un gioco, divertitevi», si narra dicesse sempre ai suoi, prima di ogni sfida. Anche se, pure qui, l’hard disk di Peterson ha un’altra versione: «Mini-correzione. Diceva: “Enjoy your game”, godete la vostra partita. Ossia, giocate con gioia. Geniale. Da scolpire sul marmo». Una sintesi da invidia: «No, non ho mai detto una cosa del genere io, peccato», sorride Peterson. Ma c’è andato molto vicino: «Ho detto una cosa simile, però: “giochiamo la nostra partita”. Cioè, non giochiamo contro di loro. Giochiamo noi. Di nuovo, identità! Quindi: noi siamo conosciuti per la nostra difesa? Bene, difendiamo come Dio comanda! Che vuol dire una cosa ben precisa: cioè, facciamo le nostre cose». È stato sempre il filo conduttore di Dan, che ha coniugato il principio in mille lingue, da grande giramondo che è stato: «Nel Cile, con la Nazionale, dicevo: “Nada de nuevo, nada de diferente, nada de màs”. Niente di nuovo, niente di differente, niente di più. Ovvero, facciamo la nostra partita. Se lo facciamo, possiamo vincere». Non sono solo parole, ma fatti che si fanno consigli, e poi regole: «Ci sono quelli che sono esempi in allenamento, che io chiamo locomotive – racconta ancora Gasperini – e i rimorchi, con la possibilità di diventare tutti locomotive. Se le hai tutte, sei una grande squadra, almeno come mentalità». Perché poi è lavorando duramente che si arriva in alto: «Le medaglie le vinci in allenamento, in partita le vali solo a ritirare», ricorda spesso il tecnico dell’Atalanta ai suoi giocatori. «Anche se la frase non è mia: l’ho rubata». Siamo tornati a Picasso. Lo fanno tanti ottimi allenatori, come appiccicare frasi o foto nello spogliatoio. «Io le metto su whatsapp, così che tutti i giocatori possano averle ben presenti». Eccone una delle ultime: «È di Einstein: “La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso”». Serve aggiungere altro? Una volta, nello spogliatoio, Gasperini aveva affisso un cartello, con tanto di foto: «Un branco di lupi: ci sono quelli davanti, quelli di mezzo e l’ultimo. I tre avanti sono vecchi e malati, e camminano davanti per regolare il ritmo del gruppo e per non rimanere indietro in caso di corsa; i secondi cinque sono i più forti e i migliori, con il compito di proteggere l’avanguardia in caso di attacco; il pacchetto in mezzo è sempre protetto, i cinque dietro pure forti e migliori per proteggere il branco dal retro. L’ultimo è il capo, si assicura che nessuno sia lasciato indietro, tiene il branco unificato ed è sempre pronto a correre in qualsiasi direzione per proteggere e servire la guardia del corpo a tutto il gruppo».

Il messaggio è forte e chiaro: «Nel caso qualcuno volesse sapere cosa significa essere un leader: non si tratta di essere davanti, ma di prendersi cura della squadra». Un’altra frase geniale la tirò fuori al momento del sorteggio dell’Europa League, per la fase a eliminazione diretta, iellatissimo: «“A vincere senza pericoli si vince senza gloria”: la misi dopo il sorteggio con il Borussia Dortmund. Eravamo appena usciti da un girone di ferro». Si può anche rovistare nei film, ma quelli giusti. L’ultimo acchiappato da Gasperini è stato L’ora più buia: «Il successo non è definitivo e l’insuccesso non è fatale, l’unica cosa che conta è il coraggio di continuare: è di Winston Churchill». Come pure resta incisa la morale di Michael Jordan, extraterrestre del basket Nba con i Chicago Bulls, tra gli sportivi più vincenti di sempre: «Io non perdo mai: o vinco, o imparo». Gasperini tira le somme: «Sono frasi che aiutano, danno il senso di una cosa, un clima di condivisione». E Jordan aveva ragione, ovviamente: «Quando vinci devi stare attento, è quando perdi che impari davvero. Non ci può essere depressione, per quanto può essere amara la cosa, ma è lì che devi interrogarti, non pensare che sia sempre colpa degli altri, ma piuttosto trovare la scintilla per ripartire». Ci sarebbe anche una massima del visionario William Blake, ma stavolta Gasperini se l’è tenuta per se: «La prudenza è una ricca e ripugnante vecchia zitella corteggiata dall’incapacità». Ben inteso, gli allenatori imparano anche dalle parole dei propri giocatori, come dice Peterson: «Ne ho avuti di grandissimi, anche se non bisogna essere super stelle per essere importanti. In Italia, alla Virtus Bologna, Terry Driscoll: poche parole e molti fatti. E poi, John Roche: poche parole e tutte infuocate. Tom McMillen, tra molte parole e grande diplomazia». Fino all’epopea di Milano: «Mike D’Antoni, 9 anni insieme e zero segreti fra di noi. Dino Meneghin, 6 anni insieme e sempre la parola giusta». E ancora: «Bob McAdoo: un solo anno, ma la voce dell’esperienza». Perché il segreto delle parole, sono quelle degli altri: «La cosa più difficile, per un coach o un capitano di industria è quella di essere un buon ascoltatore. Ho ascoltato Mike nel 1982. Ma attenzione: inutile fare la domanda se avete già deciso!». Non è questo l’obiettivo: «L’idea è invece quella di fare una squadra: giocare insieme, lavorare insieme, soffrire insieme. E vincere, insieme». Parlando, anche, se l’importanza del linguaggio finì per folgorare anche un gigante della scienza come Niels Bohr, il padre della teoria quantistica dell’atomo: «Da che cosa dipendiamo noi esseri umani – amava osservare – se non dalle nostre parole? Il nostro compito è comunicare esperienze e idee agli altri. Siamo sospesi nel linguaggio».