Chi fosse entrato nella primavera scorsa al Renaissance Center di Detroit, il complesso che ospita la direzione di General Motors – costituito da una torre rotonda che è anche il grattacielo più alto del Michigan –non avrebbe potuto evitare di notare l’ultima e più ambiziosa creatura, sotto il profilo tecnologico, della casa americana. Su una piattaforma rialzata campeggiava la Cruise, l’auto elettrica a guida autonoma destinata a essere posta in vendita nella seconda metà del 2019.

La nuova vettura era collocata in modo da attirare la curiosità del visitatore che non poteva mancare di soffermarsi con l’occhio su di essa; anzitutto perché la Cruise è priva di volante, a testimonianza che è stata progettata e costruita per un pubblico che non sarà più composto da automobilisti ma da semplici utenti interessati al servizio che l’auto offre e non più al suo possesso. In secondo luogo, perché il veicolo differisce dai prototipi di driverless car visti finora: le sue dimensioni sono contenute e il suo design ne accentua la maneggevolezza. Per alcuni versi appare più simile alle auto che conosciamo e utilizziamo tutti i giorni, anche perché il dispositivo satellitare collocato sul suo tetto è meno ingombrante rispetto a quello che, per esempio, impiega la Google car realizzata da Waymore per il colosso delle piattaforme tecnologiche. Lo scopo consiste probabilmente nel far familiarizzare il pubblico con una vettura che, pur rispondendo a regole di funzionamento completamente diverse, non deve stridere troppo con la nostra percezione dei mezzi che oggi assicurano la mobilità.

La Cruise è, dunque, sia altamente innovativa sia capace di insinuarsi nella quotidianità senza sconvolgerne le consuetudini. In effetti, non ci si sorprenderebbe se già oggi la si vedesse circolare in una città come Detroit che, del resto, ha avviato da tempo la sperimentazione delle tecnologie per la guida autonoma. Non è difficile trovare fra i materiali audiovisivi diffusi ogni giorno da “Automotive News”, il giornale online dedicato al settore dell’auto e della mobilità, brevi filmati in cui si vedono transitare veicoli senza conducente nella parte della città dove è possibile sperimentarli. In passato l’effetto era quello di automobili condotte da fantasmi o da persone invisibili, dal momento che il volante girava da sé. E tuttavia anche il contesto urbano sembrava diverso dall’idea che se ne ha di solito: nella Detroit spopolata, ampie zone dell’East Side (ma non poche anche del West Side) sembrano aree rurali dopo l’abbattimento di numerose case che hanno ceduto il posto a vasti tratti verdi e poco abitati. È quella, dunque, la prefigurazione della condizione urbana del futuro dove prevarranno le nuove tecnologie imposte dalla nascente industria della mobilità?

La risposta non può che essere negativa. I luoghi della deindustrializzazione non assomigliano affatto alle città che dovranno essere servite sempre di più da mezzi come la driverless car. La tecnologia ideata per rendere automatica la mobilità dovrà essere utilizzata non nelle città desertificate dalla fine del modello industriale del Novecento, bensì da metropoli che sono centri di sviluppo, a elevata densità di abitanti e quindi di traffico. Lo scopo della guida autonoma è di permettere a questo tipo di città di vivere e di lavorare meglio, guadagnando tempo e comodità negli spostamenti, e non di rendere più rapido il traffico dove già è snello e la popolazione si muove ricorrendo soprattutto a Suv e Pick-up.

Le Cruise prodotte da General Motors avranno il loro primo banco di prova nelle flotte attive a San Francisco; la città, polo della tecnologia, è fra le prime che si accingono a modificare i criteri della mobilità urbana, cambiando modi e abitudini di trasporto per risparmiare tempo, attenzione e dispendio di energie personali. La promessa della nuova mobilità non è tanto quella di una rivoluzione del mondo dell’automobile, ma della concezione del tempo e dello spazio all’interno della città. Essa si inscrive nella rivoluzione dell’urbanesimo che già costituisce la cifra del Ventunesimo secolo, mentre si sta compiendo la definitiva alterazione del rapporto fra la città e la campagna che ha scandito l’evoluzione delle civiltà. Non si tratta perciò di un balzo nell’organizzazione dell’industria, ma di un complemento fondamentale introdotto nell’evoluzione dei sistemi urbani, che dovrà garantire una loro più rilevante autonomia.

Le grandi città sono sollecitate a emanciparsi dal dominio del traffico che ne ha condizionato la storia: non più colossali fiumane di automobili che procedono con lentezza nelle grandi vie delle metropoli, ma aggregati urbani in grado di espandersi senza dover pagare il prezzo di tempi rallentati negli spostamenti e di un inquinamento sempre meno sostenibile per la qualità della vita, minaccia perenne per il clima. Quasi una sorta di quadratura del cerchio, che consentirebbe la crescita delle città senza che siano appesantite da una massa di veicoli incompatibile con una mobilità efficiente e con la difesa ambientale.

Nell’anticipazione di un futuro tecnologico capace di supportare la più vasta civiltà urbana prodottasi nel corso della storia sembra di avvertire l’eco di alcune teorie moderniste della città, come la celebre Carta di Atene del 1933, imperniata sull’intento di creare una città perfettamente funzionale. Essa ebbe origine dall’elaborazione di alcuni fra i maggiori architetti e urbanisti del Novecento, come Le Corbusier e Walter Gropius.

La città funzionale doveva armonizzare fra di loro le quattro attività fondamentali che in essa si svolgevano: l’abitare, il lavoro, la ricreazione e la circolazione. Essenziale al progetto era naturalmente la dimensione del trasporto, giacché lo scopo era di abbattere le distanze e i tempi che separano i luoghi di lavoro dalle residenze. Allora questo obiettivo era perseguito attraverso il principio di divisione tra le vie pedonali e le strade dove scorrevano le automobili, separandone i tracciati.

Con l’automazione della mobilità si cercano di attuare le medesime finalità, ricorrendo alla tecnologia, in un contesto che vede cadere la separazione netta fra lavoro e leisure e dove, soprattutto, lo svolgimento delle differenti funzioni vitali è visto sostanzialmente come un continuum e non più come l’accostamento di ambiti distinti. Mentre nella Carta di Atene la visione era condizionata dalla produzione di massa, oggi è subentrata una concezione in cui il processo economico è caratterizzato da un’incessante offerta di servizi, tagliati a misura di utente. Ecco perciò che l’accento si sposta dalla quantità alla qualità: il numero delle auto in circolazione è previsto in calo, ma il tasso di impiego delle vetture deve diventare infinitamente più elevato.

L’immagine che si sostituisce a quella delle metropoli congestionate da volumi di traffico ingestibili fa riferimento a city users che, grazie a un’app, possono ottimizzare i loro spostamenti calcolandoli in anticipo e prenotando il veicolo che useranno solo per il tempo davvero necessario. Il tempo a bordo della vettura potrà essere impiegato per il lavoro o per questioni personali anche grazie agli strumenti elettronici degli utenti. Di conseguenza, i flussi di traffico ne risulteranno razionalizzati e grandemente snelliti, con beneficio tanto per la vita e il lavoro delle persone quanto per i livelli di inquinamento.

Siamo davanti a un’utopia di matrice tecnologica? In parte probabilmente sì, come ha già colto lucidamente uno studioso della città e della contemporaneità come Richard Sennett nel suo Costruire e abitare. Etica per la città[1]. Non di meno, senza cedere alle suggestioni tecnocratiche, è evidente che il nostro modo di ripensare, insieme, la città e la mobilità sarà senza dubbio sfidato nei prossimi anni da una trasformazione tecnologica che metterà in questione i confini tra le forme di vita e di lavoro, obbligando a ridefinire anche i modelli della convivenza civile.

 

[1] R. Sennet, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli 2008.