Cent’anni fa, nel 1918, con la fine della Prima guerra mondiale ebbe inizio il Novecento come lo abbiamo conosciuto: secolo delle ideologie, delle aberrazioni e, al tempo stesso, della ricerca di una democrazia compiuta che mettesse l’uomo al centro degli interessi dei governanti. In Occidente, secondo i parametri delle libertà individuali; nel mondo comunista, secondo quelli del collettivismo. Come sia andato a finire il confronto si sa, ma raramente – e a torto – si va a ricercare l’origine di questa contrapposizione in un evento unico nella storia mondiale, durato quindici mesi, nella propaggine orientale d’Italia. Perché ancora oggi si fatica a parlarne con serenità.

Si tratta dell’impresa di Fiume, un’utopia strampalata alimentata da un poeta, Gabriele d’Annunzio, nella quale si coagularono tutti i germi prodotti dal conflitto ed emersero molti dei problemi interni e internazionali ancora oggi presenti in Italia.

Quel che accadde quell’anno fatale passò alla storia della Penisola come Diciannovismo. Tutti erano rivoluzionari, chi guardando a destra, chi a sinistra. L’impresa di Fiume riassunse in sé entrambe le tendenze. Non fu, come si è ritenuto per molti anni, la culla della Marcia su Roma, se non nei riti e nella retorica che Mussolini copiò da d’Annunzio perché li riteneva efficaci, fu invece la conseguenza di errori commessi dalla classe politica italiana, incapace di comprendere il malessere e il bisogno di cambiamento che la gioventù accorsa a Fiume espresse.

Fu un’élite a compiere l’impresa, come del resto fu un’élite a mettere in moto il Risorgimento. Ciò non significa un gruppo di privilegiati, bensì spiriti giovani, ribelli, insoddisfatti che avevano trascorso l’adolescenza o la prima maturità nelle trincee, a contatto quotidiano con la morte, sopravvivendo solo grazie a un’idealizzazione della loro missione. Come in ogni impresa, vi si aggregarono anche avventurieri per interessi personali e molti furono infiltrati proprio per screditarla.

 

Ma andiamo per ordine, raccontiamo i fatti e, alla fine, ciascuno trarrà le proprie conclusioni, perché questa è una storia che riguarda anche l’incapacità dei nostri politici di negoziare da pari con i propri “alleati” e di far valere i propri interessi. Cent’anni fa, riprendendosi dal disastro di Caporetto, l’Italia contribuì in maniera determinante alla vittoria della Grande Guerra. È importante sottolinearlo, perché americani, francesi e inglesi liquidarono il nostro contributo come secondario. Subimmo la disfatta di Caporetto a causa della pace separata firmata dai russi, diventati sovietici, con la Germania. Le truppe tedesche del fronte orientale si unirono a quelle austriache e ci inflissero quella devastante spallata. Ma se non l’avessimo ammortizzata noi, le armate teutoniche si sarebbero riversate sul fronte occidentale, quello francese, e le sorti della guerra avrebbero potuto prendere una piega differente nonostante l’intervento degli Stati Uniti.

Al tavolo della pace di Versailles tutto questo non ci venne riconosciuto. Minacciarono più volte di non tenere fede nemmeno agli impegni presi con il Patto di Londra, in base al quale entrammo in guerra. Il presidente americano Thomas Woodrow Wilson impose il suo pensiero, vale a dire che i popoli dovevano decidere liberamente dove stare. Bene, ma quando la città di Fiume, a maggioranza italiana, chiese l’annessione alla Penisola, Wilson, con l’appoggio di francesi e britannici, disse che in quel caso l’auto-determinazione non poteva essere presa in considerazione perché il porto del Quarnaro spettava alla Jugoslavia, un’entità costruita a tavolino che si è visto quale fine abbia fatto. Perché? Semplice, Fiume era collegata con una ferrovia ai mercati dell’Europa centrale ed era la porta che apriva la strada a grandi affari commerciali. Così facendo, inoltre, si riduceva di molto l’importanza strategica di Trieste appena diventata italiana. Ci stavano, insomma, giocando un tiro mancino e trattando da nazione di serie B, come purtroppo ancora oggi spesso ci tocca.

Di fronte a questo diktat, i politici italiani si mostrarono incapaci di reagire: a ogni loro alzata di voce gli ex alleati rispondevano minacciando il taglio dei finanziamenti promessi, degli invii di derrate alimentari e di carbone per alimentare le fabbriche e consentire di riprenderci dalla disoccupazione che stava facendo scivolare il Paese verso una rivoluzione di tipo sovietico. Questa brutta storia venne riassunta efficacemente, in due parole, dall’immaginifico poeta-soldato Gabriele d’Annunzio: “Vittoria mutilata”. E colpì nel segno.

Quando, quasi un anno dopo la fine della guerra, fu chiaro che Fiume non ci sarebbe mai stata assegnata, un gruppo di granatieri richiamati dalla città adriatica per lasciare mano libera agli slavi, chiese al Poeta di comandare un gruppo di “nuovi garibaldini” alla riconquista della città. Non che d’Annunzio fosse un condottiero o un politico di cui ci si potesse del tutto fidare, era soprattutto un artista, un trascinatore di popolo e un geniale creatore di slogan. Era comunque l’unico in Italia ad avere il carisma e il fegato necessario per compiere una simile impresa. Tutto si risolse in pochi giorni: il poeta, da Venezia, raggiunse Ronchi, dov’erano di stanza i granatieri; la notte stessa vennero reperiti rocambolescamente i camion necessari per raggiungere Fiume e l’ingresso in città avvenne tra l’entusiasmo e il lancio di fiori della popolazione fiumana.

Seguì oltre un anno di sperimentazioni politiche, sociali, di libertà al limite dell’anarchia, di disperati tentativi di sopravvivere, di invenzioni politiche che spiazzavano il governo italiano e mandavano su tutte le furie le potenze che distribuivano le carte a Versailles. A una prima fase puramente nazionalistica, sostenuta soprattutto da industriali e banchieri che individuavano in Fiume un avamposto per una politica di espansione verso il Caucaso, ricco delle materie prime di cui necessitava l’Italia (primo tra questi l’industriale dell’acciaio Oscar Sinigaglia, ma anche la Comit), subentrò un anno di laboratorio sociale che portò alla Carta del Carnaro, una costituzione elaborata da Alceste De Ambris e da d’Annunzio, assolutamente rivoluzionaria per i tempi: prevedeva che la Reggenza italiana del Carnaro fosse fondata sul lavoro, sulla parità dei sessi con il voto alle donne e la possibilità di divorziare, sulla libertà di culto a patto che non nuocesse agli altri cittadini; in tutto il territorio, inoltre, teatri e musica dovevano essere gratuiti, perché la cultura veniva posta alla base della convivenza libera e civile. A Fiume giunsero, per dare la loro solidarietà, i due italiani più famosi nel mondo: Arturo Toscanini, con l’orchestra della Scala, e Guglielmo Marconi, che via radio lanciò un messaggio all’orbe terracqueo.

Quando il governo italiano decretò l’embargo assediando la città e cercando di prenderla per fame, il Poeta istituì un ministero dei colpi di mano che, con l’aiuto del sindacato dei lavoratori del mare e dei ferrovieri, dirottava treni e navi carichi di vettovaglie, indumenti e armi nella piccola cittadina a levante di Trieste. Ben presto giunsero a Fiume medaglie d’oro della Grande guerra e alti ufficiali, come il generale Ceccherini, noto come “il papà dei bersaglieri”. Per la corona italiana, il timore che, alla fine, la Reggenza del Carnaro finisse per annettersi l’Italia piuttosto che il contrario, divenne un vero e proprio terrore. Venne richiamato dalla pensione il vecchio Giovanni Giolitti, gran maestro di alchimie politiche tanto da essere definito “il ministro della malavita” da Gaetano Salvemini, e lo si incaricò di “sbaraccare” Fiume.

Giolitti siglò un trattato a Rapallo con la Jugoslavia e diede ordine alla Marina di puntare i cannoni contro la Città Olocausta (secondo la definizione di d’Annunzio). I primi colpi centrarono il Palazzo del Governo, dove viveva e lavorava il Poeta, sventrandogli lo studio e ferendolo. Quando d’Annunzio chiese una tregua per far sfollare bambini e anziani non gli venne concessa e, alla fine, per evitare il massacro tra italiani, decise di abbandonare la città, scrivendo l’ultimo Alalà:

«È una bella notte funebre, o compagni. Laggiù, ad Abbazia, verso sera fu compiuto l’assassinio della città. La città assassinata non urla più, nel suo buio inerte, sotto la pioggia molle».

Si seppe poi che l’Italia aveva firmato un patto segreto: l’accordo prevedeva ufficialmente l’autonomia di Fiume, ma un codicillo non esplicitato nel documento attribuiva il porto e il delta (avvero le zone per cui la città aveva rilevanza economica e geopolitica) alla Jugoslavia. Lo stesso generale Caviglia, che ordinò il fuoco, non ne era a conoscenza.

L’esperienza di Fiume finì con le cinque giornate di sangue del Natale 1920 e i legionari tornarono a casa nei primi giorni del ’21. Metà di quei giovani finì tra le file dei fascisti, un’altra metà divenne antifascista. L’impresa venne anche definita “la festa della rivoluzione”, e probabilmente fu così, un Sessantotto ante litteram, un laboratorio da cui uscì il peggio e il meglio del Novecento. D’Annunzio si ritirò a Gardone in un esilio dorato, dove Mussolini, temendone il carisma, lo rinchiuse e sovvenzionò fino alla sua morte. Qualche anno dopo i fascisti occuparono la città, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quando, diventata jugoslava con il nome di Rijeka, Tito cercò di annientarne l’italianità. Ci riuscì solo in parte. Oggi i croati mandano i loro figli a studiare nella scuola italiana, ritenuta la migliore.