Era il 1852 e il mondo era molto diverso. Torino non doveva esserlo troppo. Se Herman Melville, tradotto poi da un altro piemontese, tra la langa e Torino, Cesare Pavese, negli stessi anni la descriveva con i suoi portici larghi e magnificenti, le sue vie dritte e le fughe prospettiche, quasi fosse costruita “da un solo imprenditore e pagata da un solo capitalista”. Il 1852 è l’anno in cui Alexandre Dumas passa da Torino, i Tre moschettieri già pubblicati pochi anni prima, e si accorge che la città ha innanzitutto delle belle narici e delle buone papille gustative. “Tra le cose notate a Torino, non dimenticherò mai il bicerìn, un’eccellente bevanda composta di caffè, latte e cioccolata che si serve in tutti i caffè”.

D’altronde il cioccolato è buono e deve fare bene se nel 1933 la Federazione nazionale fascista dell’industria dolciaria pubblica uno studio nella Rivista semestrale di studi economici e tecnici intitolato “Il cioccolato ed il suo valore alimentare”. Dentro, diciotto ricette a base di cacao e qualche consiglio nutrizionale raffazzonato. Dalla seconda metà del Cinquecento, mentre è in corso la formazione e lo sviluppo del progetto architettonico che disegnerà Torino tra il Po e le montagne, con le sue residenze sabaude, e nei locali del centro cittadino il cacao, servito e consumato come bevanda liquida, diventa una dolce consuetudine. Possiamo considerare come l’inizio della love story tra Torino e questo alimento, il 1560, quando, per festeggiare il trasferimento della capitale ducale da Chambéry a Torino, Emanuele Filiberto di Savoia servì simbolicamente alla città una fumante tazza di cioccolata. Devono però passare più di cento anni per le prime ricadute economico-sociali: è il 1678 quando Madama Reale Giovanna Battista concesse al solo Giovanni Antonio Ari, inventore della cioccolata liquida, l’esclusiva della vendita per sei anni della bevanda alla città di Torino. Anche se la svolta vera e propria di questa storia d’amore avviene ancora dopo: bisogna infatti entrare nel 1693 per vedere liberalizzata la vendita del cioccolato in Piemonte, editto che si porta in seno la nascita delle prime fabbriche e l’immagine dei “limonadier” che lo vendono per le strade.

Aldo Mondino, Qui c'est moi. cm 100×82×4, mosaico di cioccolatini, 1999.

Con la rivoluzione industriale, la regione conquista di diritto il primo posto in Italia nella produzione: si può leggere nei giornali dell’epoca che un vento al profumo di cioccolato proveniva dalla Val di Susa, area in cui si trovavano numerose fabbriche. E quando ormai l’intreccio tra la città, il cacao e le sue fantasiose produzioni, è stabile e insostituibile può partire la vera e forsennata crescita. Con la seconda rivoluzione industriale, l’aumento demografico della popolazione, la nascita delle città moderne si arriva (o si torna) agli anni di Dumas, quelli in cui, siamo a fine Ottocento, il piemontesissimo Pier Paul Caffarel brevetta una macchina idraulica per la produzione industriale dei cioccolatini. È la stessa Caffarel, nel mentre divenuta una vera e propria industria, ad inventare quei così celebri cioccolatini che tutti chiamiamo gianduiotti. Il nome deriva da un episodio avvenuto durante il carnevale cittadino del 1867. Gianduja, la tipica maschera popolare torinese, assaggiò un givu (come allora venivano chiamati i cioccolatini), a base di cioccolato, zucchero e nocciole macinate, e gli piacque a tal punto che volle attribuirgli il proprio nome. Interessante risalire all’etimologia del nome Gianduja (in piemontese Giandoja), maschera di origine artigiana: vestito con giubba color marrone bordata di rosso, panciotto giallo, pantaloni verdi, calze rosse ed un copricapo a tricorno, è contraddistinto da carattere simpatico e godereccio, ma anche astuto ed ironico. Gianduja deriverebbe dalla locuzione Gioann dla doja, quindi Giovanni del boccale (in piemontese la doja, è un boccale di terracotta per bere il vino). Ormai il cioccolato esplode a Torino, e da qui si inizia, ad esempio, a bere il Bicerin: più che un caffè o un dolce, un vero antidepressivo che compare, da subito, su taccuini, quaderni, nelle fotografie, tra le mani di grandi artisti e poi di tutta la comunità torinese nelle tre varianti che ancora davanti a la Consolata si servono: Pur e fior, cioè solo caffè e latte, Pur e barba, cioè caffè e cioccolata, oppure Po’d tut, cioè la vera ricetta con i tre ingredienti sapientemente dosati. Oggi, e da qualche tempo, a distanza di secoli, il cioccolato di Torino è soprattutto incartato, e non più liquido. Quello di Baratti&Milano, Streglio, Feletti, Caffarel, Stratta e soprattutto Giordano, che oggi (nel 2018) potrebbe essere la sola a produrre ancora il famoso “tagliato a mano” con le "coltella".

Quello di Stroppiana, che da Asti venne a Torino, che ancora incarta il gianduiotto a mano, i cui colori, insieme a quelli di Peyrano (che glieli faceva appositamente), hanno ispirato Aldo Mondino, altro artista piemontese, e un po’ francese, ma le due cose sono da sempre a braccetto, nei suoi “cioccolatini”. Lavori in cui l’artista usa i cioccolatini incartati per dipingere una scultura, o per scolpire un quadro; opere mimetiche, bambinesche – nel senso più conturbante e profondo della parola che possiate a questa attribuirgli: dai ricordi di nonni che vi davano forse un cioccolatino dopo i compiti, o di quando li rubavate dai porta bon-bon. A valle di tutto questo esiste poi una riflessione: il cioccolato non è un dolce con una sua identità certa, un nome e un cognome, come fosse un biscotto o un oggetto dotato di copyright. È invece una cosa a sé stante, così come è anche un ingrediente in molte ricette: è sangue che scorre dentro la città, sotto le vie, sopra i portici, tra le tramezze delle case. E questa cosa del sangue non è un caso: se il sanguinaccio è proprio umore fresco di maiale e cioccolato. Torino ne è la capitale, e d’altronde lo è stata anche per la Storia con la “s” maiuscola, sulle cartine geografiche e sulle rotte commerciali. Eppure, vale la pena oggi, pensando alla sorte di molte pasticcerie e maestri chocolatier, porsi una domanda. La stessa, che in ambito del tutto diverso si pose in un suo articolo il torinesissimo Ernesto Ferrero, «Abbiamo inventato tutto e ci hanno portato via quasi tutto. La capitale, il cinema, la radio, la moda, la televisione». E il cioccolato? Sarebbe giusto dire che ci hanno forse fatto un prelievo anche di quello, dalle nostre profonde cavernosità venose ormai sclerotiche.