Osservatorio
All’interno dell’idea di auto-rappresentazione coesistono molte forze, spesso anche contrarie e controverse. Se prendessimo in prestito il titolo di un saggio di uno dei più famosi scrittori italiani del Novecento, Giorgio Manganelli, e lo piegassimo alla ricerca visuale di Zanele Muholi, verrebbe fuori una cosa del tipo: la fotografia come menzogna (lo scrittore del Gruppo ‘63 scriveva “letteratura come menzogna”, intendendo però l’insieme delle arti applicate). Esiste quindi sempre, ancorché ben celata, oppure decisamente assottigliata, una soglia di mimesi, una volontà di mistificazione, tra il sé rappresentato e il suo significante. Talvolta questo interviene anche e solo per la promiscuità e la numerosità dei livelli di lettura proposti dall’immagine. È quello che succede negli scatti di Zanele Muholi, dove il proprio corpo viene usato sia come auto-rappresentazione che come dispiegamento di altro. Infatti, accade anche nella ricerca di una Verità profonda, che in questo caso è anche una Verità sociale, che l’infinita sovrapposizione dei piani di lettura, di elementi simbolici e di immagini che compiono un viaggio lungo, in questo caso, dall’Africa al mondo Occidentale, talvolta in modo del tutto casuale, possa indurre in diversissime interpretazioni. Può essere il caso di questi auto-ritratti, con mollette da bucato o grucce, i cui livelli di lettura epidermici toccano la casa, il formalismo degli oggetti e il loro valore pauperista ed estetizzante. Quello che rimane in fondo, però, è sempre quella sensazione conturbante e disagevole di immaginare una donna che si è messa, nuda, di fronte alla lente dell’obiettivo, esponendo sé stessa oltre qualsiasi misura privata. Accettato questo, i ritratti si sommano uno all’altro e si rinforzano l’uno con l’altro a dire, «sono sempre io, guardami bene. E tu dove stai?».