L’artista come etnografo
Nel 1995 Hal Foster, uno dei più importanti critici del Novecento, suggerisce un nuovo paradigma per l’arte contemporanea, ovvero quello dell’«artista come etnografo». Il punto di partenza è che il sito della trasformazione artistica corrisponde con il sito della trasformazione politica ed è sempre collocato altrove. Elena Mazzi, artista classe 1984, si inserisce in questa linea evolutiva con un approccio antropologico che presuppone un lungo lavoro di ricerca sul campo, in stretta relazione con chi abita culturalmente i luoghi. Dal 2011 è tornata a più riprese nelle terre artiche per indagare quali legami intercorrono tra natura, cultura e fattore umano. Per quanto la tematica ecologica emerga in gran parte dei suoi lavori, risulta sempre in secondo piano rispetto agli aspetti geopolitici che rischiano di alterare gli equilibri naturali e culturali dell’Artide e del mondo intero. Elena mi accoglie a Torino nella sua casa-studio a pochi giorni dalla partenza per un nuovo viaggio di un mese e mezzo che la vedrà arrivare in treno fino alla Danimarca, da lì salpare per l’Islanda per poi provare a prendere una nave cargo fino al Canada, dove sarà impegnata in una conferenza per il suo dottorato di Villa Arson (Nizza), che ha come tema le conseguenze ambientali, politiche e sociali della Nuova Via della Seta.
L’ipocrisia
[Filippo Berta] Partiamo dall'inizio. Quali origini ha il tuo rapporto con l’artico?
In generale sono sempre stata affascinata dalla Scandinavia e dagli scandinavi, dal loro modo di percepire la dimensione umana, dal loro riavvicinarsi alla persona e dalla loro politica democratica, in relazione con il paesaggio e la natura. Per questo sono andata a studiare prima a Stoccolma, durante i miei anni universitari allo IUAV, tra il 2010 e il 2011, per poi ritornarci a più riprese. È durante la mia prima esperienza che ho iniziato a capire le contraddizioni di questi luoghi: da una parte lo sviluppo delle politiche green e welfare, dall’altra le miniere più grandi d'Europa, la grande attività estrattiva in ambito petrolifero: di queste ambiguità non parlano mai.
[FB] È scoprendo queste storie e i suoi retroscena che hai deciso di affrontare questi problemi anche nelle tue opere, come in «The upcoming Polar Silk Road» (2021), il lavoro che più ha indirizzato la tua ricerca negli ultimi anni?
Si, ho iniziato nel 2018, quando ho avuto un incidente tuffandomi da uno scoglio in Sicilia e ho sentito il bisogno di stare un po’ isolata. L’Islanda mi è sembrata il posto più adatto. Sono venuta a conoscenza di questo bellissimo centro d'arte contemporanea promosso da Dieter Roth, il grafico e artista tedesco che si era trasferito a Seyðisfjörður attirando e creando una comunità di creativi. Mentre ero lì in residenza a far tutt’altro, ho sentito parlare dei test che la Cina stava effettuando con una nave rompighiaccio, la Snow Dragon, per arrivare fino in Islanda passando per il Circolo Polare Artico. Ho iniziato le mie ricerche partendo dai libri e articoli di Marzio Mian e ho scoperto sul luogo che la Cina stava progettando la costruzione di un enorme porto lungo sei chilometri a Finnafjörður, un’insenatura protetta da un lembo di terra a nord-est dell’Islanda. Si stava portando avanti per quella che ora è nota come la Nuova Via della Seta, ovvero un passaggio che collega la Cina all’Europa sfruttando il progressivo scioglimento dei ghiacciai che in pochi ani renderà il mare navigabile per tutto l’anno. Con questa tratta si impiegherà metà del tempo rispetto al passaggio tramite il canale di Suez: la spacceranno come un’operazione green e sostenibile che spreca meno CO2. Ecco, è questa ambiguità e ipocrisia che cerco di far emergere attraverso le mie opere.
[FB] Da qui nasce «The upcoming Polar Silk Road» (2021), un’opera video nella quale una voce femminile, guida turistica portavoce del governo cinese, racconta con un accattivante tono promozionale i vantaggi che un’infrastruttura portuale simile, con annesse tutte le sue ramificazioni economiche e sociali, garantirebbe alla popolazione locale e mondiale. Il video però è stato girato in un momento successivo, hai avuto difficoltà ad accedere al China-Iceland Joint Arctic Science Observatory per parlare con i fautori del progetto?
Tornare in Islanda non è stato facile. Pur avendo vinto il bando ministeriale Cantica21, con il pretesto della seconda ondata di Covid mi hanno sbarrato l’accesso. Nel frattempo, in Italia, avevo conosciuto Marzio, uno dei pochi giornalisti al mondo ad essere stato in tutti questi luoghi chiave dell’artico. Grazie a lui sono riuscita a ritornare sul luogo con la regista e videomaker Silvia Rossi per intervistare sia pescatori e pastori locali, sia i corrispondenti del governo cinese che compaiono nel video. Mentre stavo parlando con la persona che garantisce gli accordi di cooperazione bilaterale tra Cina e Islanda c’è stata questa coincidenza pazzesca per cui proprio durante il nostro pranzo si è incagliata la nave nel Canale di Suez. Ha iniziato a ricevere una marea di telefonate dagli ambasciatori russi, cinesi, americani, tedeschi, che chiedevano a quale punto fossero i lavori ed entro quando sarebbe stata pronta la Via Polare della Seta. È la dimostrazione che per tutto il mondo quella era e continua a essere il piano-B. Non ho mai inviato a queste persone il video, ma ho intenzione di mostrarlo ora che tornerò in Islanda per vedere la reazione più autentica possibile e cercare di instaurare un dibattito.
Lo stravolgimento
[FB] Noto che nel video quasi non compare il parere di coloro che sono contro il progetto, o quantomeno rimane ambiguo, come se il porto potesse costituire un’alternativa, dal momento che lo scioglimento dei ghiacciai, che prima bloccavano vento e correnti, hanno reso complessa la pesca con le navi. A proposito di questo: per i tuoi lavori fai tanta ricerca sul campo ed è così che il processo per arrivare all’opera finale risulta piuttosto lungo. In questi anni qual è la percezione che hai avuto sul sentimento comune della popolazione locale?
L’opinione pubblica è spaccata a metà. Bisogna anche dire che quella particolare area dell’Islanda è abbastanza depressa ed è stata scelta proprio per puntare su una possibilità (reale o di facciata) di rilancio economico della zona. Infatti, molte persone sono favorevoli perché sentono la necessità di un cambiamento ma ho l’impressione che non abbiano la percezione di quale impatto potrebbe avere sulla loro vita quotidiana la creazione di infrastrutture simili. Colui che ha disegnato il porto e crede fortemente che Finnafjörður debba diventare la nuova Rotterdam o Amburgo, in realtà non è mai uscito al di fuori dell’Islanda e non sa cosa vorrebbe dire arrivare a una dimensione iper-globale in un luogo così piccolo. Si tratta di una cultura in cui la natura impatta ad ogni livello la vita quotidiana e i piccoli gesti che la compongono. Per dire: quasi tutti credono agli elfi, è qualcosa di spirituale e non solo fisico. Non si ha consapevolezza di quanto questa operazione stravolgerebbe il territorio e chi pensa che, a parte il lavoro, tutto rimarrebbe uguale, si sbaglia.
[FB] «Encounters» (2021) ti vede nuotare in una piscina termale mentre entri in contatto e incontri alcune vertebre della spina dorsale di una balena. È un lavoro un po’ atipico della tua produzione perché molto più poetico, nel quale questa relazione tra umano, natura e cultura viene calata in una dimensione molto personale. Anche in questo caso, tuttavia, le immagini non scadono mai in una resa contemplativa del sublime naturale.
Si, sarebbe troppo facile. «Encounters» è stato pensato e prodotto negli stessi tempi di «The upcoming Polar Silk Road», ma è nato da una necessità personale di superare quel momento difficile in cui ho avuto l’incidente alla schiena. Ho scoperto quel posto nel 2018 e sono rimasta affascinata dalla sua storia: la piscina è stata costruita da un signore del paesino che voleva insegnare ai suoi concittadini pescatori a nuotare, quando all'epoca non esisteva ancora una legge obbligatoria per imparare a nuotare. Quindi ha scavato questa piscina nella montagna, dove arriva l'acqua del ghiacciaio scaldata dal vulcano a fianco. Poi ho portato sul luogo le vertebre, alcune delle quali pesavano più di dieci chili, che avevo raccolto parlando con collezionisti, musei e cacciatori di balene. Sono ossa bellissime che in Islanda vedi ovunque: sono utilizzate come fioriere, come ornamento per la casa, per appendere e contenere oggetti. Di nuovo mi ha colpito questo rapporto tra natura e cultura. Camminando nei dintorni del mare non è raro trovare carcasse di balene che vengono prima mangiate dagli uccelli e poi lasciate decomporre. Non vengono spostate come accadrebbe qui. La dimensione dell’umano rispetto a tutto il resto è minuscola.
[FB] Tu hai sempre lavorato con diversi media, materiali e anche formati, ma la cosa che torna più di frequente è la mappa. Le tue però non sono mappe reali, dove c’è corrispondenza tra ciò che si incontra sul territorio e ciò che è rappresentato. Assomigliano a quelle medievali, dove la rappresentazione del luogo è affidata a una corrispondenza simbolica.
Infatti, le adoro [ride, ndr]. Comunque, a me le cartine aiutano molto. Come vedi da quando ti ho accolto e durante tutto questo tempo ho sempre avuto una cartina aperta sul pc. Ho bisogno di averne di fronte una pur essendo consapevole che si tratta di una rappresentazione sbagliata, slegata dall’esperienza. Ad esempio, tu puoi avere una percezione della distanza tra il Canada e l’Islanda, ma nel momento in cui ne farai realmente esperienza la ri-mapperai interiormente. Ho bisogno di un riferimento visivo, il più reale possibile, ma so che a un certo punto lo cambierò per costruire una mappa esperienziale, come nel medioevo appunto, dove entra in gioco la dimensione personale. Mi incuriosisce anche la prospettiva con cui si guarda alle geografie. Quando sono stata al museo di Jokkmok, realizzato e gestito da comunità Sami, ho notato che il loro mappamondo era girato in modo tale che il circolo polare artico fosse al centro.
Buchi, miniere, estrazioni
[FB] Un altro luogo in cui sei stata spesso e a più riprese è il nord della Svezia, e anche adesso sei appena stata invitata dalla Biennale di Luleå a fare residenza in preparazione della nuova commissione per la Biennale.
La prima volta che sono stata in quelle zone era il 2011 perché un gruppo di curatori miei compagni di università mi aveva invitata a partecipare a «Tomma Room», letteralmente «Spazi Vuoti», una residenza estiva organizzata in comuni che mettono a disposizione luoghi inutilizzati. Io ero stata a Malmberget, una città in cui l’urbanizzazione è nata solo come conseguenza dell’apertura di miniere di ferro e minerali. A mano a mano che le miniere si espandono, risucchiano letteralmente le città, per cui periodicamente interi edifici vengono spostati con dei tir. Infatti, per la residenza eravamo stati in una casa che sarebbe finita nella cava l’anno successivo. Ora invece per la Biennale di Luleå sono stata in un’altra città con una storia simile, Kiruna, nei pressi della più grande miniera di ferro al mondo. A Kiruna, che è diventato un caso studio, si sono resi conto che non aveva più senso spostare le case; quindi, si è deciso di ricostruire la città a 15-20 km di distanza. Parlando con la gente, ho scoperto che a finanziare completamente la ricostruzione della città è stata la compagnia della miniera. Hanno fatto persino una Kunsthalle diretta da Maria Lind, che ha una collezione comunale molto interessante, con un sacco di artisti indigeni.
[FB] In origine, prima delle miniere, quelle terre erano abitate solo dai Sami.
Esatto. Sempre per la Biennale di Luleå ho collaborato con un team di archeologi che aveva il compito di trovare tracce del passato in queste terre artiche. Il fatto è che quei luoghi sono difficilissimi, composti da distese infinite di ghiaccio nelle quali è difficile orientarsi. Per questo è stato fondamentale intervistare le comunità di Sami, gli unici che percorrono quelle tratte da centinaia di anni per la transumanza delle renne o per ripercorrere le vie dove un tempo avvenivano gli scambi delle merci. A parte la armi dell’età del ferro, corna di renne e oggetti vari, gli archeologi hanno trovato tantissima spazzatura contemporanea, perché la “gita della domenica” di coloro che vivono nell’artico consiste nel prendere la motoslitta, andare nel nulla ghiacciato e fare il barbecue. Le griglie di alluminio che vengono lasciate lì rimangono intrappolate nel ghiaccio e, di fatto, inquinano. Assurdo.
[FB] Quindi il tuo ruolo è stato anche di mediazione con la comunità Sami?
Ho passato un periodo di residenza a Jokkmokk, un paese principalmente abitato da una comunità Sami, vivendo in casa di una danzatrice. Per loro la dimensione delle miniere è puro neo-estrattivismo e la combattono attivamente. Hanno una visione molto ancestrale della vita e della natura, con tradizioni legate all’artigianato e alla transumanza delle renne: lì molti allevano renne. Sono loro che conoscono veramente quei luoghi e loro con cui bisognerebbe parlare. Purtroppo, però, c’è ancora tanto razzismo nei confronti dei Sami, e c’è pochissima mediazione con la loro comunità. Tim Ingold ne ha parlato molto e nell’arte si sta cercando di fare qualcosa, ma poi a livello concreto è difficile. Anche quando penso al padiglione dei paesi nordici all’ultima Biennale di Venezia c’era qualcosa che mi stonava: un po’ troppo politically correct. Hanno chiamato un Sami norvegese, uno svedese, uno finlandese, ognuno con i suoi oggetti artigianali che ben si accomunavano perché materialmente affini. Ma se poi si va a Stoccolma trovi tutt’altro. Non c’è mediazione né dibattito. La Biennale di Luleå in questo senso era meglio, hanno ragionato molto sul valore artistico dell’artigianato e messo a confronto Sami anziani con le generazioni di artisti più giovani, Sami e non. Ecco, credo che uno sguardo esterno possa essere utile per trovare un punto di incontro che riesca a mettere insieme le cose.
Art as activism
[FB] A questo proposito, quale credi sia il tuo ruolo di artista e in generale dell’arte nel trattare questi temi?
Dare un punto di vista diverso. A volte non c’è un meglio o un peggio, ma solo un modo altro a cui guardare le cose, anche solo per il fatto di non essere di lì. Ascoltare, fare ricerca, inglobare tutte le informazioni per farle mie, sono passaggi fondamentali, anche perché per trovare un punto di incontro non basta il mio parere o quello dei locali. Quando ho mostrato alcuni miei lavori alle comunità con cui ho lavorato, sono rimaste affascinate dal filtro con cui io le ho guardate. Uno sguardo esterno coglie cose che dall’interno possono sembrare poco importanti perché date per scontate. La mia pratica è una forma di attivismo, semplicemente utilizzo canali e strategie diverse. Credo sia importante calcare la mano sugli aspetti più ambigui e meno trasparenti, anche perché una cosa che ho notato rispetto alle prime volte in cui mi sono confrontata con la Scandinavia, è che ora è tutto molto più sottile e opaco. Le operazioni economiche di stampo capitalista hanno invaso e permeato ogni campo, al punto da rendere quasi impossibile il loro riconoscimento. Poi d’altro canto la narrazione che si fa dei paesi nordici è che tutto è trasparente, che c’è un investimento enorme sul green e un’attenzione particolare verso la natura. Ho amici artisti che stanno svolgendo dei post-doc su temi ecologici in alcune università scandinave e hanno deciso di informarsi sulla provenienza dei fondi che ricevono per la ricerca. Alcuni hanno impiegato sei mesi per scoprire che metà dei soldi venivano stanziati da una compagnia petrolifera, ritrovandosi con la ricerca ad un punto molto avanzato senza sapere come comportarsi. È tutto molto nascosto e chiunque fa finta di non sapere. Per tornare alla nuova Via della Seta, i cinesi stanno costruendo un tunnel sottomarino tra Finlandia ed Estonia. Io avevo provato ad applicare al dottorato anche in Finlandia, dove avevo passato la prima fase e, in fase di colloquio, ho chiesto un feedback a cui mi è stato risposto che in realtà non si sa se questo progetto verrà realizzato o meno. Il mio sarebbe stato un approccio speculativo al tema, ma loro non sapevano nemmeno (o non volevano ammettere) che gli stavano costruendo un tunnel sotto i piedi, quando l’unica cosa dibattuta era il come farlo, non se farlo.
[FB] Lo scoppio della guerra in Ucraina sembra aver spostato l’attenzione sul Donbass, ma il vero interesse economico della Russia rimane l’artico, dove potrebbe scoppiare la cosiddetta Guerra Bianca.
Da sempre, la percezione che ho quando intervisto le persone è che tutti cercano di tenere i piedi in più scarpe con russi, cinesi, americani, canadesi… per non chiudersi nessuna porta. Per la mia seconda parte del dottorato andrò a fare un periodo di ricerca in Groenlandia dove si gioca la vera battaglia: gli interessi della Russia sono ancora molto legati al petrolio mentre in Groenlandia, per quanto non si sappia ancora bene cosa ci sia sotto al ghiaccio, sembra si possa aprire un vaso di pandora con litio e minerali utili per l’elettronica. Il futuro di fatto – mentre la Russia è ancora un po’ legata al passato. La strategia sembra essere quella di estrarre in Groenlandia senza lavorare i materiali, per poi trasportare la materia prima con le navi rompighiaccio fino in Islanda, dove stanno costruendo le infrastrutture atte alle varie lavorazioni. Un'altra cosa interessante è che gran parte del territorio della Groenlandia è sotto giurisdizione danese, ma ormai le popolazioni locali vorrebbero essere quanto più indipendenti possibili, ed è già un po’ che ci sono dispute, ad esempio perché i danesi richiedono percentuali altissime del guadagno sul pesce. La situazione, anche qui, è molto tesa.
Elena Mazzi (1984) ha studiato presso l’Università di Siena, lo IUAV di Venezia e il Royal Institute of Art di Stoccolma.Partendo dall’esame di territori specifici, nelle proprie opere rilegge il patrimonio culturale e naturale dei luoghi intrecciando storie, fatti e fantasie trasmesse dalle comunità locali, nell’intento di suggerire possibili risoluzioni del conflitto uomo-natura-cultura. L’opera di Mazzi è stata esposta in mostre collettive e personali; ha partecipato a diversi programmi di residenza ed è vincitrice di premi sia in Italia che all’estero. Mazzi sta svolgendo un dottorato pratico presso Villa Arson-Université Côte-d’Azur, Nizza.
Opera in cover articolo. Elena Mazzi, The upcoming Polar Silk Road, tecnica mista (disegno, collage), manipolazione digitale e stampa fine art su carta cotone Hahnemühle, 420 x 297 mm, 2021 Opera selezionata dall’avviso pubblico “Cantica21. Italian Contemporary Art Everywhere” - Sezione Over 35 (MAECI-DGSP/MiCDGCC, 2020)