La contraddizione verde
Oslo, città verde per eccellenza dove i motori a combustione sono vietati per legge, vive una sorta di cortocircuito: è uno tra i Paesi al mondo più all’avanguardia su rinnovabili ed elettrificazione, ma gonfia le sue casse grazie alle fonti fossili che a loro volta vengono utilizzate per finanziare la transizione verde. La maggior parte del petrolio e del gas del Paese proviene ancora dalle aree mature del Mare del Nord, ma molte delle riserve non sfruttate si trovano invece nel Mare di Barents, al di sopra del Circolo Polare Artico. Ed è proprio lì che dal 2015 si trova Goliat, una gigantesca piattaforma galleggiante di forma cilindrica e di color rosso fuoco capace di resistere a un ambiente estremo come quello dell’Artico, caratterizzato da forti correnti marine e venti con raffiche superiori ai 150 km/h. Siamo a 80 km a nord-ovest di Hammerfest, una cittadina di 10mila abitanti che sostiene di essere la più a nord del mondo, un primato che si contende con altre due città: Honningsvåg, sempre in Norvegia, e Utqiaġvik, in Alaska. Al suo interno vivono i Sami, il popolo un tempo nomade che anni fa sopravviveva grazie all’allevamento di renne.
Una donna in piattaforma
Qui si racconta però che, ogni tanto, dal mare si senta provenire qualche parola in italiano. A pronunciarla sono le donne e gli uomini che lavorano su Goliat. La licenza per il giacimento è stata infatti messa a disposizione dal governo norvegese nel ‘97 e ad ottenere i diritti di estrazione al 65% è stata Eni che li ha poi affidati alla controllata al 69,6% Vår Energi. Il restante 35% spetta alla compagnia petrolifera nazionale Equinor, ex Statoil. Il vero nome della piattaforma galleggiante è Sevan-1000, quello con cui viene chiamata è “Goliat”, come il campione dei Filistei menzionato dalla Bibbia. Il soprannome romanzesco è “Il gigante dell’Artico”. Il motivo è presto detto: Goliat pesa 64mila tonnellate, ha un diametro di 107 metri, 14 linee di ancoraggio e una capacità produttiva di 100 mila barili al giorno. Al suo interno vivono e lavorano 120 persone. Tra loro, qualche anno fa, c’era Maria Cecilia Todisco, ingegnere aerospaziale che sulla sua esperienza artica ha scritto un libro dal titolo abbastanza indicativo: “Una donna in piattaforma”. Centottanta sei pagine in cui racconta come si vive su una gigantesca piattaforma offshore, a temperature estreme, con solo mare e ghiaccio davanti a sé. Un racconto condiviso anche attraverso un podcast, in cui gli aneddoti si mescolano all’esperienza. Un esempio? Sapete qual è l’odore più forte che si sente su una piattaforma galleggiante? Non è quello del petrolio e nemmeno quello del mare. «Ancora più forte è l’odore del pane», afferma Todisco, dalle cui parole trapelano tutte le difficoltà che implica lavorare in un ambiente estremo: «Avevo bisogno di parlare con qualcuno in Italia, però era impossibile prendere la linea. Si usavano ancora i telefoni a circuito chiuso. Cliccando 1 si poteva chiamare un punto della piattaforma, cliccando 2 telefonavi all’ufficio, 3 alle cantine. Non c’era un telefono che permetteva di chiamare fuori», racconta. Sicuramente, un’esperienza così non la dimentichi: «Tutto quello che fai successivamente, ti sembra più semplice. Perché nulla è paragonabile all'essere da soli in mezzo al mare, a risolvere un problema nel buio, con il vento che ti sferza, l'acqua che ti viene addosso e il fango che ti sporca la tuta», conclude Maria Cecilia Todisco. Una «vita particolare», insomma, piena di contrasti per certi versi, con il mare davanti, una distesa infinita fino all’orizzonte e un’intricata rete di condutture sottomarine sotto di te che collegano la piattaforma a 22 pozzi che arrivano fino al giacimento.
Norvegia è petrolio
Contrasti, dicevamo. Come quello che salta subito agli occhi tra il bianco dell’Artico e il nero del petrolio, che poco più di mezzo secolo fa ha cambiato la storia di questo paese dagli splendidi fiordi scavati dalla furia delle acque, dagli imponenti ghiacciai, le aurore boreali mozzafiato di Tromsø o delle isole Lofoten. Si ricordano l’arte di Edvard Munch e persino le canzoni di Lene Marlin. Ma fino a qualche anno fa erano in pochi ad associare il petrolio alla Norvegia. Norvegesi compresi. Oggi invece il Paese è il settimo esportatore di petrolio al mondo e nel 2022, complice la guerra in Ucraina, è diventato il primo fornitore dell’Unione Europea. Secondo le stime di Statistics Norway, lo scorso anno il paese ha incassato dagli idrocarburi 1.457 miliardi di corone norvegesi, 131 miliardi di euro, «di gran lunga il guadagno più alto mai registrato». Una piccola fortuna che però rischiava di andare persa. Fino al 1968, infatti, i norvegesi non avevano idea che in fondo ai loro mari, alle porte e oltre il Circolo Polare Artico, si nascondesse un tesoro fossile che qualche decennio più tardi sarebbe diventato fondamentale per la loro economia, che fino al secondo dopoguerra era basata sul pesce e sullo sfruttamento delle foreste.
L’Iran nella storia del petrolio norvegese
La scoperta arrivò per caso in un giorno che oggi ad Oslo viene celebrato quasi al pari di una festa nazionale. Il merito fu di un geologo iracheno. Si chiamava Farouk al-Kasim, aveva 32 anni, e il 28 maggio del 1968 entrò al ministero dell’Industria norvegese in cerca di lavoro. Al-Kasim aveva studiato geologia petrolifera a Londra con una borsa di studio dell’Iraq Petroleum Company. Nella capitale britannica aveva incontrato l’amore della sua vita, una ragazza norvegese di nome Solfrid che aveva sposato. Poi era tornato in Iraq, diventando in poco tempo l’unico dirigente locale della società per cui lavorava. Qualche anno dopo Farouk si trovò costretto a prendere una decisione: uno dei suoi tre figli aveva bisogno di cure specialistiche che in Iraq non avrebbe potuto ricevere. Scelse di licenziarsi, abbandonare il suo Paese e trasferirsi in Norvegia, sperando di trovare supporto nella famiglia della moglie. L’aereo atterrò ad Oslo il 28 maggio mattina. Il treno che l'avrebbe portato nel paesino di Solfrid sarebbe partito solo nel tardo pomeriggio. Al-Kasim lasciò le valige in un deposito e andò al ministero dell’Industria. Entrò e chiese se in Norvegia ci fossero delle compagnie petrolifere e se avessero bisogno di un geologo. I funzionari ministeriali lì per lì rimasero interdetti e gli chiesero di tornare qualche ora più tardi. Lo fece. E, come racconta il Financial Times, si trovò davanti una realtà totalmente diversa da quella che si aspettava: la richiesta di informazioni si trasformò prima in un colloquio di lavoro e, nel giro di pochi minuti, in un contratto di consulenza. In quel periodo, infatti, il ministero dell’Industria poteva contare solo su tre funzionari, giovani e alle prime armi, ed era alla disperata ricerca di esperti che riuscissero a valutare i dati derivanti da alcuni progetti esplorativi effettuati nel Mare del Nord, dove fino a quel momento nessuno era riuscito a trovare una goccia di petrolio. Al-Kasim accettò e passò i successivi tre mesi ad analizzare i risultati delle trivellazioni. Si convinse che proprio lì, alle porte e anche oltre l’Artico, quel petrolio c’era. E che ce n’era tanto. Fece fatica a farsi ascoltare dalle autorità norvegesi, ma alla fine ebbe ragione: nel dicembre del ‘69 la Phillips Petroleum trovò l’oro nero nell’area di Ekofisk, all'estremità meridionale delle acque territoriali norvegesi, diventata poi uno dei più grandi giacimenti offshore del mondo. «Da un giorno all'altro, la Norvegia si trasformò in una superpotenza degli idrocarburi», scrive il Financial Times. Oggi i proventi di petrolio e gas rappresentano circa il 30% del bilancio annuale dello Stato, il Paese è il più grande esportatore di oro nero dell’Europa occidentale e Farouk al-Kasim, ormai in pensione, è diventato Cavaliere di 1° classe dell’Ordine Reale norvegese di St.Olav.
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