Un russo dalla A di Artico alla Z di «operazione speciale» 

«Francamente non me l’aspettavo», mi dice al telefono dall’ospedale il vecchio esploratore Artur Nikolaevič Čilingarov. È l’uomo che nel 2007 diventò il Neil Amstrong russo, primo uomo della Storia a toccare il fondo marino in corrispondenza millimetrica del Polo Nord, dove piantò una bandiera in titanio col tricolore patrio. «Considerata la situazione internazionale, è un risultato enorme», aggiunge con voce affaticata. Si riferisce a quella che di fatto è una vittoria della Russia, avvenuta nell’Artico senza sparare un colpo. Ed è stata assegnata dall’Onu: la commissione incaricata di valutare le rivendicazioni marine sulla base della Legge del Mare ha approvato in larga parte il dossier con cui Mosca sostiene che una vastissima regione dei fondali dell’Artico centrale - compreso il Polo Nord - è la continuazione della sua piattaforma continentale. E quindi rivendica il diritto a trivellarla. Parliamo di circa 1.700 milioni di chilometri quadrati, l’equivalente di Francia, Spagna, Italia e Germania messe insieme. È ovviamente solo un primo passo, poiché anche la Danimarca (attraverso la Groenlandia, che ancora rappresenta il 90 per cento del Regno danese) ed il Canada hanno presentato i loro dossier. Pare che gli Stati Uniti, potenza artica grazie all’Alaska, siano pronti a fare altrettanto, spinti dalla sfida frontale con Mosca e Pechino nella competizione per l’High North, innescata dal cambiamento climatico che ha reso accessibili quelle risorse di cui le potenze sono più affamate: idrocarburi, terre rare, pesce, nuove rotte. Una limitata parte del territorio rivendicato dai russi si sovrappone alle pretese danesi e canadesi, e la disputa andrà risolta per vie diplomatiche – anche se dopo il 24 febbraio 2022 tra Russia e Occidente s’è alzato un muro di ghiaccio. Nell’area contesa non rientra il Polo Nord, che quindi viene riconosciuto come legittimamente rivendicato dal Cremlino.

Ci riprenderemo quello che è nostro.

«È un fatto di grande rilevanza simbolica, soprattutto in questo momento», mi dice Čilingarov dal suo letto di ospedale a Mosca. «Sono convinto che ci prenderemo tutto quello che ci spetta. Sono vecchio e malato, ma in qualità di rappresentante del Presidente Vladimir Putin per l’Artico spero di riuscire a vedere il frutto di decenni di studi, spedizioni e trattative». Avevo incontrato Čilingarov a Mosca nel luglio 2022, ed era stato molto duro contro l’Occidente, soprattutto contro Joe Biden che non escludeva un «possibile conflitto» con la Russia sul controllo dell’Artico. Il più famoso esploratore vivente ripeteva la risposta brutale di Putin: «Spaccheremo i denti a chiunque pensi di sfidare la nostra sovranità. L’America sappia che non esiste l’Artico senza la Russia e la Russia senza l’Artico». Classe 1939, è l’uomo più ammirato dal capo del Cremlino, uno dei pochissimi del cerchio magico che può parlare senza chiedergli il permesso. Decorato Eroe dell’Urss e poi anche della Federazione russa, tiene insieme i due mondi, quello sovietico e quello post-sovietico; ha vissuto la Guerra Fredda e ora scongiura la Guerra Bianca, quella che secondo lui potrebbe scoppiare nell’Artico, «lo scontro finale con gli Stati Uniti». Un russo dalla A di Artico alla Z di «operazione speciale». Per Putin, Artur è «un patrimonio dell’umanità, è l’essenza di quel che siamo». Tutta una vita dedicata all’esplorazione dei ghiacci e alla politica. È deputato quasi ininterrottamente dal 1993, grande vecchio di Russia Unita, il partito del Presidente. Le sue missioni scientifiche tra i ghiacci come oceanografo e ingegnere hanno oscurato tra i russi la leggenda di Jurij Gagarin. Diventa un mito vivente quando il 2 agosto del 2007 pianta la bandiera negli abissi annunciando che «da oggi il Polo Nord è russo». Dovette intervenire Putin per placare le proteste americane: «Voi avete piantato la bandiera sulla Luna, ciò non significa che la Luna è americana».

In realtà la Russia fa sul serio, il Polo Nord lo vuole più del Donbass, sia per il suo valore mitico (e mistico) nel disegno neo-imperiale, sia perché il serbatoio di petrolio e gas che quell’area specifica dell’Artico pare contenere potrebbe essere la più potente delle armi. Il Grande Nord è già oggi il baricentro della Russia putiniana, che è un petrostate: è l’assicurazione sulla vita del regime dal punto di vista economico e strategico. Rappresenta circa il 30 per cento del Pil russo e quasi il 60 per cento delle esportazioni d’idrocarburi. Petrolio e LNG, a causa delle pesanti sanzioni, vengono ora dirottati dal mercato europeo verso quello orientale (Cina e India) utilizzando sempre più la Northern Sea Route, la rotta marittima che corre per seimila chilometri al largo delle coste artiche russe, quella che Pechino ha definito «la scorciatoia della globalizzazione», perché riduce di oltre un terzo il tragitto tradizionale via Suez. Il progressivo scioglimento dei ghiacci nell’Oceano artico, che si riscalda quattro volte di più rispetto al resto del Pianeta, non è più una barriera naturale a protezione del confine settentrionale (sono russe il 52 per cento di coste artiche). Ma c’è un bicchiere mezzo pieno: questo “quinto Oceano” riscatta la Russia dalla maledizione storica di non avere un grande mare da cui proiettare le sue ambizioni imperialiste. Lo spazio marittimo artico permette di poter raggiungere Atlantico e Pacifico in breve tempo sia con navi da guerra che commerciali. Inoltre, dalla calotta del mondo, gli Stati Uniti diventano un bersaglio a corta gittata. A presidio dell’Artico la Russia ha piazzato i migliori armamenti, due terzi delle testate nucleari, quasi tremila quelle a ridosso della Norvegia e quindi della Nato. «L’Artico è il bancomat di Putin», mi confida un’alta fonte del Dipartimento di Stato, «da lì alimenta la sua macchina da guerra. E questo per noi è intollerabile».

«Il nuovo ordine mondiale si decide oltre il Circolo Polare»

In Russia, sin dai tempi di Pietro il Grande, per capire dove punta la bussola del potere bisogna saper leggere nei crimini di Stato: e gli undici “suicidi” eccellenti del 2022 indicano Nord. Tutte morti di dirigenti russi legati alla nomenklatura dell’energia, una moria che a Washington hanno chiamato Arctic epidemic. Ulteriore conferma che il Grande Gioco di questo secolo non riguarda i deserti dell’Asia ma gli spazi boreali. «Il nuovo ordine mondiale si decide oltre il Circolo Polare», mi ha detto Anton Vasiliev, ex ambasciatore russo in Islanda: «La Nato concentra le sue forze a Nord-Est, sanno che l’esistenza stessa della Russia dipende dal Grande Nord, con Putin o senza Putin».

Quella che era considerata l’ultima delle ultime frontiere è ora il fronte più caldo e pericoloso. Ma perché questa ossessione russa per il Polo Nord? «È il totem del Rusky mir, il mondo russo propagandato da Cremlino e chiesa ortodossa», mi risponde da Washington Rebekah Koffler, accademica russa passata vent’anni fa alla Defense Intelligence Agency (Dia) come agente e analista cremlinologa: «Non mi sorprenderei se Putin decidesse un’invasione del Polo Nord, un colpo di mano per occupare militarmente quello che ritiene di sua proprietà e che ora anche l’Onu ha in sostanza confermato. Chi sarà disposto a difendere il Polo Nord?», si chiede la spia venuta dal freddo.

È nell’Artico dove si sente più forte l’eco dei cannoni che tuonano in Ucraina. Nella regione di Murmansk ho avuto l’impressione di stare dietro le quinte del conflitto, di osservare la guerra di Putin dal buco della serratura. Quello tra il Mare di Kara e il Mare di Barents è lo spazio più militarizzato del mondo. Il bastione di Putin contro quello della Nato che ora ha incluso nel club anche Finlandia e Svezia, imprimendo all’Alleanza una trazione nordica. Ho percorso (senza permessi) la E105, è la strada che porta da Murmansk verso il confine norvegese: attraversa ventidue basi, dove sono acquattati nelle baie tutti i sommergibili nucleari russi e dove sono dislocati gli hangar di stoccaggio dei missili atomici. Quando partono le minacce di escalation nucleare dal Cremlino, è qui dove mettono il dito sul grilletto. Un revolver carico puntato alla tempia dell’Occidente, e viceversa. «Paradossalmente siamo i più protetti, ma anche sempre nel mirino», mi ha detto Sasha, la guida che ha accettato di portarmi in una delle aree più segrete dell’Artico russo, vietato e protetto a livelli di Corea del Nord, interdetto agli stessi russi non autorizzati. Nella regione di Arkhangelsk, sul Mar Bianco, sono stato arrestato e cacciato dal Paese pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina. Ma anche prima della guerra era quasi impossibile raccontare che cosa accade lungo i 22 mila chilometri di coste artiche russe, dove le guardie di frontiera sono agenti dell’FSB, eredi del KGB. Come giornalista ho corso grossi rischi a testimoniare la catastrofe ambientale di Noril’sk, l’area più inquinata dell’emisfero settentrionale, dove si producono nickel e cobalto, necessari per le batterie elettriche (prodotte per inquinare meno…). Con il fotoreporter Sirio Magnabosco, quando la guerra era ancora solo un’ipotesi probabile, siamo riusciti ad entrare in Chukotka, la regione-bunker che affaccia sullo Stretto di Bering e l’Alaska: abbiamo rivelato l’esistenza di quella che Greenpeace ha poi definito una «Cernobyl del ghiaccio», la prima piattaforma nucleare galleggiante al mondo, usata per alimentare lo sfruttamento di petrolio, rame e oro, ancorata nel porto di Pevek, davanti a una scuola con 500 ragazzi. La prova di come Putin sia pronto a qualsiasi azzardo pur di continuare ad utilizzare il «bancomat».

Il crollo dell’Artico

Dopo il 24 febbraio 2022, nell’Artico è saltato tutto. È dove si sono immediatamente visti gli effetti della dissoluzione dell’ordine mondiale. Si è sciolto il «patto del ghiaccio», quell’eccezionalismo rappresentato dall’Arctic Council, il forum intergovernativo che imponeva agli otto Paesi artici – Russia, Usa, Canada, Norvegia, Islanda, Danimarca, Svezia e Finlandia – di collaborare nel nome della stabilità e dell’ambiente. Gli Inuit della Groenlandia hanno una parola complicata, piliriqatigiingniq, per dire una cosa semplice: salvarsi insieme. I sette paesi soccidentali” hanno interrotto ogni rapporto con Mosca. Non era mai accaduto, l’Arctic Council aveva passato indenne anche l’annessione della Crimea nel 2014. Ora di fatto è il braccio politico della Nato. «La prima vittima della guerra è l’Artico, che è già una Waterloo per il Pianeta», mi dice Artur Čilingarov, ricordando i tempi in cui organizzava spedizioni internazionali e veniva accolto alla Casa Bianca, premiato all’Eliseo o dalla Regina Elisabetta. «Lassù nessuno sopravvive se pensa di fare da solo, è sempre stato così, per gli individui e per gli Stati. Nemmeno la Russia può fare da sola. L’alternativa è una catastrofe per tutti». Dice che quello era l’unico tavolo dove si discuteva tutti insieme e si prendevano decisioni concrete, «come imporre una moratoria sulla pesca in alcune zone delle acque internazionali. E poi la condivisione dei dati sul cambiamento climatico, delle informazioni sulle infrastrutture di ricerca e salvataggio sulle nuove rotte, sui rischi di un turismo incontrollato…». Le guardie costiere degli otto paesi si incontravano regolarmente per confrontare esperienze e soluzioni. «C’era un Artico condannato alla pace, nonostante la corsa per la conquista delle risorse», dice il vecchio esploratore, «ora ce ne sono due condannati a scontrarsi. La Russia sta organizzando il suo consiglio antioccidentale con Cina e India», confida. Chi sorveglierà i pescherecci-fabbrica cinesi? Chi controllerà l’inquinamento nelle aree industriali russe? «C’erano 420 progetti scientifici comuni soltanto tra Stati Uniti e Russia» racconta Čilingarov. «Uno scambio mai interrotto prima d’ora, ricerche incrociate sul cedimento del permafrost, sull’erosione delle coste, sul contrasto agli incendi nella tundra siberiana o dell’Alaska. Che ne sarà di questo immenso patrimonio di sapere? La guerra ha spento i riflettori sull’Artico». Prendete il Mare di Barents, Artico europeo. Era una storia di successo, Norvegia e Russia erano riuscite a darsi regole di pesca comuni, a salvare insieme gli stock di merluzzo. Gli scienziati dei due paesi si incontravano per concordare le quote da indicare ai rispettivi governi. «Tutto finito» mi dice Gunnar Saetra, biologo dell’Istituto norvegese per la ricerca marina con cui ho navigato a bordo di un vascello della Guardia costiera poco prima dell’invasione dell’Ucraina. Gunnar mi raccontava come russi e norvegesi stessero studiando un fenomeno che potrebbe presto mettere ko i pescatori della regione e un business mondiale di circa 15 miliardi di euro: la migrazione dei merluzzi verso Nord e Nord Est, in aree praticamente sconosciute e non mappate, spinti dal riscaldamento dell’Artico. «Potrebbe anche essere un suicidio di massa, stiamo cercando di capire» mi diceva mostrandomi le mappe. Ora Gunnar non vede più i colleghi russi, perché quello che attraversa il Mare di Barents, dopo il 24 febbraio 2022 è un confine segnato in rosso sulle mappe di Mosca e della Nato.

E la Cina?

Se c’è uno spazio che fa capire come nell’Artico tutto pare convergere verso il peggio è appunto l’oceano scandinavo. È dove la Nato svolge le sue manovre navali più imponenti, dove la Flotta del Nord russa testa i missili supersonici Poseidon, dove gli Stati Uniti inviano la Gerard Ford, la portaerei più grande del mondo, dove i cacciabombardieri di entrambi gli schieramenti si provocano quotidianamente sul filo dei reciproci spazi aerei. Sono stato sull’isola norvegese di Vadø, avamposto occidentale nel duello nucleare con Mosca. Nei giorni senza foschia da lì si vede la penisola russa di Kola: «Possiamo osservare che cosa fanno loro sopra e sotto il mare», mi ha detto Lasse Haughom, ex sindaco e veterano dell’intelligence norvegese. Il Mare di Barents è diventato cruciale anche per i collegamenti cable sottomarini, target di vari sabotaggi che la Nato attribuisce a Mosca. A Vadø è stato collocato un sistema d’allarme avanzato, chiamato Globus 3, che fa impazzire i russi perché potrebbe sgonfiare il ruolo della flotta artica, rafforzata in modo impressionante negli ultimi anni per sovrastare la Nato in caso di ritorsione, cioè nella capacità di second strike con i sommergibili nucleari. La difesa missilistica è la priorità del Cremlino. Putin sa che le forze armate convenzionali russe sono decisamente inferiori a quelle americane; l’attivazione di uno scudo antimissile sull’uscio di casa viene visto come una minaccia diretta a un settore dove ritiene d’essere ancora temibile: la deterrenza nucleare. In questi scenari di Guerra Bianca c’è un convitato di pietra, la Cina. Con la guerra in Ucraina, Washington ha lanciato la controffensiva polare pubblicando per la prima volta una National Strategy for the Arctic Region, dove s’avvisa la Russia che le verrà impedito con «ogni mezzo» di dominare l’Artico, ma dove si parla soprattutto di «minaccia cinese», sia militare che economica. In prospettiva gli Stati Uniti temono di più la presenza e gli interessi dei cinesi, i quali che definiscono l’Artico una «priorità strategica ed economica» sia per quel che riguarda le nuove rotte mercantili, sia per l’approvvigionamento energetico, sia per affermare una presenza militare. Putin ha siglato accordi capestro con Xi Jinping perché la Cina è l’unico partner in grado di sostituire gli investimenti e la tecnologia occidentali nello sfruttamento energetico e navale artico. Se la Russia dovesse collassare Pechino potrebbe di fatto ipotecare una delle regioni più ricche del pianeta e determinante nella definizione del mondo che verrà.

 

(*) Anche titolo del Libro di Marzio G. Mian* per Neri Pozza (2022) di Marzio G. Mian*

Credits fotografici Sirio Magnabosco ©