In cod we trust
«In cod we trust» è il motto delle comunità costiere norvegesi, dove operano seimila pescherecci. Ma il cod, il merluzzo – 90 mila tonnellate pescate di media ogni anno nel Mare di Barents, 35 milioni di porzioni vendute ogni giorno in 140 Paesi – come decine di altre specie pregiate, si sposta sempre più a Nord, in cerca d’acque più fredde, e potrebbe cambiare le sue abitudini, espatriare. L’evento più sciagurato è che il baccalà sparisca dai nostri piatti. Ho incontrato biologi dell’Istituto per la ricerca marina di Tromsø che mi hanno confessato di non aver alcuna idea di che cosa possa accadere: «Non siamo in grado di prevedere quale sarà il futuro del nostro merluzzo, migra verso Nord e Nord-Est quattro volte più rapidamente del previsto, esattamente alla velocità del riscaldamento dell’Artico», l’ammissione di Gunnar Saetra, uno dei maggiori ittiologi norvegesi.
Per capire che cosa rappresenti il Mare di Barents per la Norvegia e non solo, bisogna starci dentro. Ho navigato nel 2021 sulla Senja, vascello militare classe Capo Nord della Kystvakten, la Guardia Costiera norvegese. Con le loro 1700 ispezioni l’anno, gli uomini della Senja sono testimoni di come si possa gestire una ricchezza immensa – 3.1 milioni di tonnellate l’export del pesce norvegese nel 2021 (incluso il salmone allevato) per un valore di quasi 15 miliardi di euro – consentendo che si rinnovi, diversamente da gran parte degli oceani che pagano un sovrasfruttamento causato dalla crescente domanda, soprattutto asiatica; ma anche come sia complicato confrontarsi con il mutamento climatico. «L’impatto è travolgente. Siamo preoccupati», diceva Saetra a bordo della Senja: «Lo sgombro ha praticamente abbandonato le nostre acque, si sta stabilendo nella regione islandese e groenlandese. Anche i pesci esplorano, s’insediano, inseguono la prosperità e una vita migliore, se ne infischiano dei confini e dei pescatori che vanno in malora. I pesci ci lanciano un allarme, sono il canarino nella miniera». Lo scienziato aveva aperto una mappa sul tavolo della sala ufficiali, mostrando ampie fette d’oceano che erano coperte da ghiaccio perenne e che ora sono colonizzate dalle avanguardie di merluzzi polari, halibut e gamberetti: «Dai 60° Nord sono passati agli 80° Nord. Stiamo facendo ricerche in aree non ancora mappate».
King crab vs halibut
Pesce che va, pesce che arriva. Per secoli il regno dei ghiacci è stato metafora del Male, si pensava che ai confini del mondo le tempeste di neve agghiacciassero anche l’anima e fossero il regno delle streghe. Oggi nel Mare di Barents e nel Finnmark norvegese, la regione nordorientale del Paese, si guarda a Est con apprensione, perché è da lì che può arrivare l’Apocalisse atomica. Ma da Est arriva anche una gradevole sorpresa, che ben rappresenta il paradosso artico, dove il cambiamento climatico con una mano toglie e con l’altra offre nuove opportunità. Come il granchio reale, il King Crab, che regna sovrano sulle tavole dei migliori ristoranti del mondo. È migrato dalla Russia, addirittura dalla Kamčatka. Ha poi stazionato per un po’ d’anni nella regione di Murmansk, quindi – spinto dal rapido riscaldamento dell’Oceano polare russo, accelerato dai bassi fondali – s’è messo in moto in cerca d’acque più fredde e profonde, ha varcato il confine e letteralmente invaso i fiordi del Mare di Barents norvegese. Mai invasione russa fu più pacifica, prosperosa e prelibata. Di granchio reale ce n’è a migliaia di tonnellate, si fa pigliare senza tante storie e vale oro, poco importa se devasta i fondali: vivo, lo esportano a 25 euro al chilo, ma sui mercati internazionali arriva a costare fino a 70 euro. Un giro d’affari di circa 150 milioni di euro nelle mani d’un migliaio di persone, tra pescatori e indotto. Soltanto il brand Norway King Crab di Bugøynes, con le sue 200 tonnellate di pescato, fattura quasi 20 milioni di euro l’anno in spedizioni di granchio vivo in tutto il mondo.
Il problema islandese
Nel Nord Est dell’Islanda non sanno più che pesci pigliare. Sono stato a Finnafjord, dove la società tedesca del porto di Brema sta progettando la costruzione di quello che potrebbe diventare il più grande porto artico, un megaprogetto che prevede anche la nascita di una nuova città, una Rotterdam boreale. Ma per ora è ancora un piccolo villaggio di cinquecento anime, pescatori in balia degli sconvolgimenti dell’oceano. Era il paradiso del capelin, pesciolino tipicamente islandese che scende, scendeva, dalla Groenlandia tra febbraio e aprile per riprodursi al largo di queste coste settentrionali. In annate normali, il trawler (ndr. tipo di peschereccio a strascico) tipico della famiglia Halldòrsson di capelin ne pescava in media due tonnellate al giorno. «Il mare qui è diventato troppo caldo», diceva Reimar Halldòrsson, «e il capelin rimane in Groenlandia. Con il capelin ho mandato all’università tre figlie. Anche il merluzzo islandese ingrassa con il capelin, è la sua preda preferita, infatti il merluzzo è più grande e pregiato di quello norvegese. Ora temiamo che se non si accontenta dello sgombro e delle aringhe, il nostro merluzzo se ne andrà in Groenlandia. E allora addio, sarà la fine. La verità è che il merluzzo già non lo peschiamo quasi più con il nostro trawler, perché con il calare del ghiaccio ora c’è sempre un vento della malora e le onde sono troppo pericolose per la nostra imbarcazione».
A Finnafjord, per adesso, tutto gira intorno alla Ísfélag, una delle principali cooperative ittiche dell’isola. Il frigo è grande come un hangar, potrebbe ospitare un Hercules. Affaccia direttamente sul porto dove dovrebbero attraccare, nella stagione del capelin, i cargo internazionali, soprattutto da Giappone, Corea, Cina. La voce di Gudmundur Björnsson, il responsabile vendite della Ísfélag, rimbomba nel vuoto: «Fino a due anni fa in questi giorni i bancali arrivavano al soffitto, uno stoccaggio di 3000 tonnellate solo di capelin, una media di 400 tonnellate congelate al giorno. Ora la media in transito nel capannone freezer è di 10 tonnellate di merluzzo al giorno. Soltanto in agosto arriverà la stagione dello sgombro. Senza il capelin crolla tutto, rischiamo tutti il posto». C’era già stata la batosta delle prime sanzioni europea alla Russia dopo gli eventi in Crimea nel 2014, perché quello è il maggior mercato del capelin, il pesciolino più consumato nella tradizione slava orientale. Il pesce dalle uova d’oro è la femmina, perché quel caviale dal colore giallo ocra è una ghiottoneria soprattutto per i giapponesi, ma anche per coreani e cinesi. Poi è arrivato il blocco della pesca al capelin, 50 milioni persi solo a Finnafjord. L’economia islandese da 20 anni viaggia con spregiudicatezza sulle montagne russe: unico paese, per dire, ad aver fatto bancarotta dopo la crisi del 2008. Negli ultimi dieci anni sta cavalcando le opportunità del cambiamento climatico nell’Artico, dalle infrastrutture per la navigazione polare, al boom del turismo nel Grande Nord, diventato la prima voce del bilancio dell’isola.
L’effetto domino dello sgombro
Ma a risollevare le sorti economiche nel momento di maggiore crisi, è stato l’arrivo provvidenziale dello sgombro, riparato a quelle latitudini in fuga da un Nord Atlantico sempre più caldo. D’altronde la krona, la moneta nazionale, non effigia monarchi o musicisti, ma merluzzi, naselli e capelin; l’economia è stata agganciata alla pesca sin dalla colonizzazione vichinga, dodici secoli fa. È sempre stato il pesce a guidare gli spostamenti dei pescherecci, non viceversa, come diceva l’ittiologo norvegese. Fatto sta che lo sgombro ha avvelenato i rapporti tra nazioni storicamente amiche, come Islanda, Norvegia, Scozia e Irlanda. Comunità norvegesi e scozzesi, che da secoli sbarcavano il lunario grazie allo sgombro, sono ridotte in miseria. Mentre Islanda, isole Faer Øer e Groenlandia riempiono le reti e i conti in banca. Se le Faer Øer hanno raggiunto un accordo con l’Unione Europea e Norvegia, invece Islanda e Groenlandia hanno detto che entro le loro 200 miglia marittime dello sgombro fanno quel che credono. Dopo la bancarotta, grazie al gradito ospite, il pesce è tornato a diventare il grande asset nazionale in Islanda. Intanto nelle reti s’impigliano specie mai viste prima, la platessa, il rombo giallo, la rana pescatrice, addirittura il tonno. Un fenomeno che sta sconvolgendo molte economie costiere tra Nord Atlantico e Artico. Le aragoste scappano dalle acque troppo calde del Maine verso Canada e Labrador, dove gli abitanti si fregano le mani perché diventeranno presto ricchi; lo Stato del New England, invece, rischia di perdere la bandiera, il totem intorno al quale ha formato la sua immagine e cultura marinara, un crostaceo sacro come la vacca in India, soltanto che finisce bollito in pentola: è la maggiore risorsa per una comunità di un milione di abitanti, un miliardo di dollari che sta per espatriare.
Il frigorifero della Cina
Il merluzzo atlantico, predatore formidabile, sta occupando territori lasciati liberi dal merluzzo artico. Il pollock punta a Nord e si porta dietro il salmone di cui è la preda preferita. Secondo Maria Fossheim, direttrice dell’Istituto di ricerca marina di Tromsø, «nei prossimi vent’anni saranno 25 le nuove specie provenienti da Sud e che si stabiliranno nel Mare di Barents. È difficile dire quale sarà il nuovo equilibrio, chi vincerà e chi perderà la lotta per la sopravvivenza. Ma una cosa già la sappiamo, che stanno venendo a mancare le condizioni fondamentali di sostentamento e riproduzione per il merluzzo artico norvegese». Arrivano nuovi predatori e batteri fantasma, malattie finora sconosciute in acque fredde stanno decimando aringhe e seppie. Si stanno creando nuovi equilibri tra invasori e residenti, perché sta formandosi un nuovo mare con un ecosistema tutto da costruire. Ciò che accade sotto le acque artiche non è solo materia da biologia marina. Se il 60 per cento del pesce consumato negli Stati Uniti proviene dal Mare di Bering e la stessa percentuale del mercato europeo attinge dagli stock del Mare di Barents, è chiaro che il merluzzo o lo sgombro diventano animali politici in un pianeta che cresce di un miliardo di abitanti ogni quattordici anni e ha disperato bisogno di proteine. L’organo del partito comunista cinese due anni fa ha scritto che l’Artico diventerà il «frigorifero della Cina», la «nostra banca delle proteine». Chi impedirà alle navi-fabbrica cinesi di pescare nell’Artico centrale, nelle acque internazionali polari, nonostante la moratoria imposta da nove Paesi, Cina inclusa, nel 2018, in attesa di capire che cosa accade al pesce artico? La guerra in Ucraina ha sconvolto gli equilibri politici e militari nella regione. Anche le poche leggi che provavano a regolare la selvaggia trasformazione dell’Artico causata dal cambiamento climatico, stanno saltando. Secondo il Dipartimento di Stato americano quello della pesca potrebbe essere uno dei fattori destabilizzanti nella regione. Insieme ai pesci, infatti, a puntare a Nord, ci sono le navi da pesca e le navi da guerra.