Perrotin, Parigi. Dai video posti in galleria esce questa voce, placida, sulle note all’olio d’oliva di qualche tappeto musicale remixato sullo stile dei centri massaggio in stanze troppo anguste e squallide. La voce è di Izumi Kato, artista della galleria da alcuni anni, ormai cinquantenne, che nell’arte di oggi è una terribile età da avere. Troppo vecchio per prendersi la scena, troppo giovane per sperare in un ritorno o per sparire. Ad un certo punto l’artista giapponese (Shimane, 1969) dice qualcosa che non ho dimenticato: dal terrazzo di una villa troppo regale in Nuova Aquitania, sul mare dopo Bordeaux, 200km a nord di San Sebastian, dove probabilmente l’artista è stato, ospite del sontuoso gallerista francese, per raccogliere le idee per la sua nuova e ultima mostra, racconta i suoi ultimi lavori, «ero rilassato durante la mia permanenza e, vista la mia passione per la pesca, dipingevo e pescavo ogni giorno. Originariamente avevo programmato di dipingere i pesci nei miei lavori, se solo ne avessi pescati alcuni. Ma siccome non fui in grado di pescarne neanche uno, ho usato ostriche, alghe e correnti oceaniche come motivi». Questa placidità dell’arrangiarsi, l’uomo di montagna che accende un fuoco con quello che ha, o il contadino che mangia con la sua terra, l’idea di non dover forzare un flusso creativo, di non piegarlo a sé stessi, ma di accettare gli eventi e rimettersi alle cose del mondo. Ha dipinto effettivamente delle alghe e delle ostriche, insieme ai suoi ometti, piccoli extraterrestri inconcludenti. È una pittura in pace con il mondo, suddivisa in moduli: i dipinti si snodano su più tele, due o anche tre o quattro, che proseguono e tengono insieme la stessa rappresentazione, di solito uno di questi marziani ectoplasmatici. È una scultura dipinta, o un dipinto scolpito. È il linguaggio di Izumi Kato. Ma non è tutto. Girando per le stanze, bianchissime e opulente di questo palazzo ottocentesco di Parigi dove ha sede, da anni, la galleria, entro in una sala e lì ci sono una serie di trespoli, saranno una quindicina, con piccole zolle in legno, micromondi da modellismo, su cui stanno, come giocattoli tra l’uso e il disuso, alcuni modelli di plastica di giocattoli giapponesi dichiaratamente vintage. Un vulcano con sopra uno scheletro in plastica, un tratto di mare con uno squalo, un cavallo gigante a fianco ad una statua in pietra raffigurante uno degli ometti di Kato. Sono mondi indipendenti, parte di un alfabeto comune: parlano di adolescenza e infanzia, di riti ancestrali e aborigeni, di luoghi spaziali ed extraterrestri e di piccoli antri di intimità. Quelle zolle ricordano un po’ anche Woody Allen in Amore e Guerra, quando suo padre girava circospetto e fiero, un bifolco emaciato, uno zek che crede di essere un signore, nell’atto di tirare fuori il proprio metro quadro di terra che era, pedissequamente, una zolla di terra di trenta centimetri per trenta. Quella zolla assomiglia a queste di Kato. C’è un nonsoché di melanconico e anche di anticipatore, come se fossero tutti mondi futuri egualmente possibili, in cui uno scheletro svetta su un vulcano, o anche anticipatori di qualche sventura o semplicemente messaggeri, come quei sogni che svaniscono nel primo mattino e che ci raccontano qualcosa di noi. È un universo di universi. Guardare quei trespoli, fatti di giocattolini un po’ vetusti che parlano di infanzie lontane, è così un esercizio sul possibile; cioè su quello che può accadere e anche su quello che ci è accaduto mentre noi eravamo assenti a noi stessi, o meglio, a quello che abbiamo immaginato da bambini e che oggi non abbiamo saputo esaudire. Ecco, Izumi Kato ci parla dell’eterno legame spezzato tra la nostra infanzia, in fondo per nostra fortuna felice, e la nostra vita adulta. Che non contempla né scheletri di squali, né vulcani, né surf nudi su onde spumose.