Russia, merluzzo, Norvegia

L’accordo del merluzzo ha funzionato anche negli anni più bui della Guerra Fredda. Più per necessità che per la buona volontà degli umani. Madre natura ha voluto infatti che la popolazione di merluzzi che vive nel mare di Barents, una delle più numerose del pianeta, si dividesse equamente tra le acque russe, dove i pesci vengono a deporre le uova e quelle norvegesi, preferite dai pesci in età adulta. E così, rispettando i gusti della fauna ittica, gli uomini hanno raggiunto l’accordo: ai pescatori in arrivo dall’ex Unione Sovietica è stato consentito, ancor prima della perestrojka, di accedere alle acque norvegesi per pescare i preziosi merluzzi. In cambio i Russi si sono impegnati a non praticare la pesca degli animali nella fase della crescita. «Possono litigare quanto credono, ma se vogliono continuare l’attività di pesca i due Paesi sono obbligati a cooperare» ha detto Kristin Jorgensen, ricercatrice presso il Fridtjof Nansen Institute, in occasione dell’ultimo rinnovo del patto del merluzzo giusto un anno fa (novembre 2022), l’unica intesa tra Est ed Ovest sopravvissuta alla guerra ucraina. E questo non solo perché, ci spiega la ricercatrice che si occupa di ambiente, energia e gestione delle risorse legate all’economia ittica, tra Norvegia e Russia corre una lunga tradizione di buoni affari (più che con Svezia e Finlandia) che garantisce ad Oslo un giro d’affari pari a 2,6 miliardi di dollari per la sola pesca, cui va aggiunto l’indotto. Basti dire che la più importante industria di Kirkenes, la cittadina a 10 chilometri dal confine che pure punta sullo sviluppo del turismo artico («ci aiuta – spiega il sindaco- l’aumento delle temperature in Italia e Spagna») con i suoi hotel con le stanze a forma di igloo, è ancor oggi la Kimek un’azienda specializzata nella riparazione dei pescherecci che vanta una nutrita clientela in arrivo da Est. O meglio, vantava. Nel 2023 il fil rouge tra Kirkenes e la siberiana Murmansk si è sfibrato, ad un passo dalla rottura. I pescherecci russi sono ammessi ormai nel porto di Kirkenes per il pieno di carburante e le riparazioni di emergenza. E le autorità di Oslo, che sospettano attività di spionaggio o di sabotaggio dei cavi che corrono sotto la superficie marina (preziosi per i collegamenti tra la City londinese ed i mercati del Nord America) hanno limitato i servizi a disposizione dei clienti russi e l’accesso al centro cittadino ai marinai. Di qui i licenziamenti in Kimek (15 in tutto) e nei centri commerciali che nel 2019 e 2020 sono arrivati a servire 266.000 viaggiatori in arrivo dalla Russia contro i 60 mila scarsi di quest’anno. È facile immaginare che la stessa nostalgia dei tempi andati si respiri dall’altra parte della frontiera. Ma è assai difficile averne una prova vista la difficoltà a varcare la soglia di una regione ad alta densità militare. Ogni sentimento pacifico, però, è offuscato dalla cappa di aspro nazionalismo che alimenta, almeno in superficie, il rancore contro l’Occidente. Basta citare a mo’ di esempio il necrologio pubblicato su Telegram da Vladimir Ouba, il governatore della repubblica dei Komis, una popolazione autoctona. «E’ con dolore che vi annuncio la scomparsa del caporale della guardia Vladimir Ievguenievich Oplesnin durante l’operazione militare speciale (l’Ucraina non è nominata ndr). Vladimir, reduce da anni di servizio in Cecenia, è morto eroicamente nel villaggio di Davydov Brod nella regione di Kherson, difendendo la Russia e i nostri compatrioti contro i neonazisti. Gloria eterna ai difensori della Patria». Parole che lasciano il segno in una regione che ha pagato a caro prezzo l’aggressione a Kiev voluta da Vladimir Putin: sia la 200° brigata di fucilieri della flotta del Nord che la 61° brigata di fanteria di marina di stanza a Murmansk sono stati decimati nel corso delle battaglie attorno a Kharkiv. Tutti soldati originari delle repubbliche del profondo Nord.

High North, low tensions?

Queste poche note dal fronte servono a dare una prima misura della tensione che si respira oggi nei mari dell’Artico, area strategica per eccellenza specie dopo che il riscaldamento climatico (a queste latitudini quattro volte più rapido) rende sempre più praticabili rotte un tempo vietate dai ghiacci. Un tesoro di materie prime unico al mondo, al 54 per cento situato entro i confini della Russia, ma che si prolunga fino all’Alaska ed al Canada. Una fetta del globo che, fino a pochi anni fa sembrava destinata a promuovere la cooperazione e la pace internazionale. Ma che, un po’ come capita ai merluzzi dal doppio passaporto, rischia di diventare il terreno di scontro più pericoloso del pianeta, senz’altro il più fragile dal punto di vista dell’ecosistema. Eppure, sembra quasi incredibile, non sono passati trent’anni da quando, era il 1996, sull’onda della distensione nacque il Consiglio Artico, frutto della collaborazione tra le otto nazioni che si affacciano sulla regione: Canada, Danimarca, Stati Uniti, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia nonché la Russia il cui territorio comprende oltre a metà delle terre della regione 24 mila chilometri di costa (il 63% del totale). L’obiettivo dichiarato? «Promuovere la tutela ambientale e lo sviluppo durevole nella regione». Un programma all’insegna dello slogan «High North, low tensions» che ha retto per anni, invasione della Crimea nel 2014 compresa, finché le questioni militari non hanno preso il sopravvento facendo così svanire «l’eccezione artica». E così, giusto una settimana dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, gli altri membri del Consiglio Artico hanno preso la decisione di disertare le riunioni dell’organismo presieduto all’epoca dalla Russia. Una triste svolta per un organismo internazionale che nel 2021 era stato addirittura indicato come possibile vincitore del Nobel per la pace. Di tutto questo resta, per ora, solo la volontà di Oslo di mantenere in vita il Consiglio in attesa di tempi migliori come dimostra l’intesa sulla pesca rinnovata nell’ottobre del 2022.

Lo scacchiere artico si affolla

Ma, con buona pace degli stoccafissi, le tensioni internazionali salgono oltre il livello di guardia. A mano a mano che si sciolgono i ghiacci, in Russia, la grande madre del Nord, cresce la tentazione di trasformare l’Artico nel mare di casa, che fa da confine ad un territorio immenso, il 20 per cento del totale della Federazione, abitato però solo da 2 milioni di persone. Un obiettivo che potrebbe consolidare il ruolo della Russia come Stato petrolifero per eccellenza: l’accademia delle Scienze di Mosca ha quantificato in 30 mila miliardi di dollari il valore potenziale delle ricchezze minerarie russe. E a conferma delle sue intenzioni, Putin ha istituito un nuovo comando Artico mentre la Cina non nasconde le sue ambizioni di dar vita ad una Via della Seta Polare. Intanto la Nato, una volta rafforzato il fianco settentrionale dell’alleanza con l’adesione di Finlandia e Svezia, sta aumentando la sua presenza nello scacchiere. A sottolineare il peso assunto dalla regione agli occhi di Washington è stata la missione a fine maggio del segretario di Stato Anthony Blinken in Norvegia, presenti i ministri degli Esteri di Finlandia e Svezia, punto d’avvio di una nuova strategia: l’Artico, in passato trascurato sul piano militare, si avvia ad essere al centro di una tempesta perfetta. «Il cambiamento climatico e la rinnovata aggressività russa hanno ridato vita ad un clima da Guerra Fredda – commenta sul New York Times l’analista finlandese Matti Pesu – in cui i cambiamenti climatici impongono di ripensare le strategie militari e le rotte commerciali, nonché i sistemi di sfruttamento delle risorse naturali». Di qui la decisione del Dipartimento di Stato di annunciare la prossima nomina di un ambasciatore speciale per la regione artica per «promuovere gli interessi americani nella regione». Con l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato il Consiglio Artico a trazione euro-atlantica sta sviluppato una dottrina militare nordica aumentando le sue attenzioni sullo scacchiere dove Putin ha concentrato le sue forze non convenzionali. Con l’obiettivo di limitare il più possibile lo spazio d’azione russo. Al contrario, da quello che lo zar considera il mare di casa, la Russia sfodera le sue ambizioni neo-imperiali grazie alla flotta del Nord che dalle acque polari può spostarsi dall’Atlantico al Pacifico, agendo di conserva con l’alleato cinese, membro osservatore del consiglio Artico dal 2013. Da qui iniziative sempre più audaci. Anzi, arrischiate. Come racconta il Financial Times, nel mese corrente ci sono state almeno due navi russe che, per consegnare petrolio alla Cina, dal porto di Murmansk hanno deciso di circumnavigare la Siberia, attraversare lo stretto di Bering con l’Alaska e riscendere verso sud per attraccare nella cinese Rizhao. Una rotta da circa 5.600 chilometri che impiega 10 giorni in meno (35 contro 45) di quella convenzionale che parte da Primorsk (Golfo di Finlandia) e passa per lo stretto di Suez. Un tragitto che tra l’altro farebbe risparmiare a Mosca circa mezzo milione di euro a tratta, solo in carburante. «Questa dimostra la disperazione della Russia, che così minaccia l’ambiente», racconta al “Ft” Malte Humpert, giornalista della rivista specialistica High North News, che per primo ha denunciato queste spericolate operazioni russe. L’aspetto più inquietante è che a inizio settembre Mosca ha utilizzato, in due di questi viaggi verso l’Asia, navi non ice-class. Ossia non rinforzate e senza doppio scafo di sicurezza. Si tratta della Leonid Loza e della NS Bravo, in attività rispettivamente da 12 e 13 anni, che possono trasportare fino a un milione di barili di greggio. Ancor più clamorosa la «provocazione» del 6 agosto quando al largo della costa dell’Alaska si è presentata una flotta di undici navi militari cinesi e russe che hanno svolto un pattugliamento congiunto nella cornice di una più ampia esercitazione marittima nell’Oceano Pacifico. Non è mancata la reazione degli Usa che hanno inviato quattro navi da guerra ed un aereo da combattimento nell’area, ma solo dopo che la flottiglia si era ritirata. Intanto, negli stessi giorni, la Svezia ha deciso di far valere il primo suo intervento come prossimo membro dell’Allea Atlantica con un volo di ricognizione vicino appunto alla penisola russa di un S 102 B Gulfstream modificato con sistemi di intelligence. Ma gli episodi sono destinati a moltiplicarsi a mano a mano che cresce l’attenzione per la Northern Sea Route, più rapida del tradizionale passaggio di Suez. Mosca ci crede al punto di aver messo in cantiere 152 progetti speciali per accelerare il ricorso alla nuova autostrada degli Oceani. Speriamo che resti almeno un angolo di mare per i poveri merluzzi di Barents, per ora i soli messaggeri di pace.

Credits fotografici Sirio Magnabosco ©