Compriamoci la Groenlandia
Diciassette elementi chimici, con nomi che risuonano come antichi imperatori. Ittrio, Neodimio, Europio, Terbio. Olmio, Lutezio, Itterbio, e così via. Materiali rari, difficili da estrarre, ma estremamente importanti. Leggendo questo articolo, avrete certamente in mano uno smartphone, o sarete magari seduti davanti allo schermo di un computer. Oggetti di uso quotidiano, quasi basilari ormai per le nostre vite digitali. Che non potrebbero esistere senza le Terre Rare, gli elementi chimici appunto su cui si basa una buona fetta di competizione economica e geopolitica del presente e del prossimo futuro. Petrolio e gas sono tutto fuorché estinti dalle nostre economie, e ancora determinano gli equilibri di numerose nazioni. Ma gli anni che viviamo segnano anche una nuova era in fatto di progresso tecnologico, che passa attraverso le automobili elettriche, la digitalizzazione dei sistemi e degli impianti, i superconduttori, i sistemi di intelligenza artificiale, i pannelli fotovoltaici. La decarbonizzazione e i piani di sviluppo sostenibile non potrebbero esistere senza queste componenti, i cui più importanti giacimenti sono sparsi in alcune regioni del pianeta. La caccia al tesoro è appena partita, e una tappa del percorso porta verso Nord. Più precisamente, in Groenlandia. Ci ricordiamo tutti di quando Donald Trump, allora Presidente degli Stati Uniti, propose al governo di Copenhagen di acquistare la Groenlandia, l’isola più grande del mondo. Da una parte si rise della notizia, mentre dall’altra Mette Frederiksen, primo ministro della Danimarca, espose il suo secco rifiuto alla richiesta di Trump. Ma era tutto fuorché una boutade. Del resto, non sarebbe stata la prima volta, visto che nel 1867 Washington riuscì nell’affare del secolo, versando una quota modesta nelle casse dello Zar per l’acquisto dell’intera Alaska. Che oggi è ben più di una spina nel fianco per le coste orientali russe. La proposta semi-seria di Trump dell’estate 2019 guardava a un orizzonte ben più ampio del singolo possesso della Groenlandia, che nei fatti è già un avamposto militare statunitense. Grazie alla base dei marines di Thule e per le tacita collaborazione danese - che ne è padrona, vista la presenza dell’isola nel Regno di Danimarca - sulla gestione complessiva. Nel giugno dello stesso anno, il Dipartimento di Stato statunitense e il Ministero delle Risorse Minerarie e del Lavoro della Groenlandia avevano appena siglato un MOU (Memorandum Of Understanding) per una nuova indagine congiunta di prospezione geologica aerea nel Sud dell’isola, al fine di aumentare gli investimenti americani nell’esplorazione mineraria. La Groenlandia non è di per sé un valore aggiunto a livello strategico quindi, ma significa avere un baluardo colossale da cui poter intercettare le mosse russe in acqua e in cielo, costringendo le possibilità di Mosca di non espandersi oltre misura. Ma c’è di più.
La coda del Dragone
La Cina, negli anni a cavallo tra il 2014 e il 2019, ha provato più volte a investire nell’isola, tramite la possibilità di finanziare la costruzione del nuovo aeroporto della capitale Nuuk. E la Groenlandia sarebbe stata ben felice di lasciarsi sedurre dalla tentacolare mossa cinese, che in un colpo solo avrebbe messo un piede importante nell’area, costringendo l’ex colonia danese a vedersela direttamente con Copenaghen. E potendo a quel punto integrarsi nei progetti di sviluppo minerario dell’isola. La Casa Bianca e la presidenza danese si affrettarono a stoppare il progetto cinese, promettendo aiuti sostanziosi agli Inuit. «Ma il nostro interesse è solo il business, non ci interessa possedere un territorio», ebbe modo di dirmi Feng Gao, Rappresentante speciale per gli affari artici del ministero degli Esteri cinese durante un’intervista. «Alla Cina interessa intessere rapporti commerciali stabili e duraturi, perché non abbiamo alcun guadagno nello scatenare una reazione degli Stati Uniti. Vogliamo sostenere la Groenlandia e le sue potenzialità, e chiaramente beneficiarne da un punto di vista economico». La posizione ufficiale cinese tradisce in realtà non soltanto una visione geopolitica, ma racconta anche in trasparenza la possibilità di Pechino di arrivare più rapidamente ad alcuni materiali importanti per il proprio sviluppo tecnologico, assicurandosi l’autarchia. L’Europa è ben lontana da avere tutti i materiali necessari per la propria transizione ecologica e digitale, e così Bruxelles ha puntato in questi ultimi mesi a riaprire le miniere degli Stati membri, per accelerarne il distacco dagli operatori cinesi. All’inizio dell’anno è stato scoperto in Svezia, nella città di Kiruna, il più grande deposito europeo di terre rare, nella zona mineraria che viene gestita dalla società LKBT sin dall’Ottocento. La reale particolarità di queste materie riguarda il fatto che siano sottoprodotti dei minerali a cui sono legate, il che rende complessa la loro estrazione e purificazione. Oltre al fatto che costituiscono una parte minuscola del materiale (da 0,5 a 60 parti per milione). La stragrande maggioranza dei REE è associato a tre minerali: bastnäsite, monazite e xenotime. Tra i vari depositi dell’area di Kiruna è presente quello di Per Geijer, suddiviso in quattro giacimenti (Nukutus, Henry, Rektorn e Haukivaara), già noti tra gli anni ’60 e ’80. Negli ultimi anni, nuove idee e tecnologie hanno mutato lo scenario, sorrette da studi di settore, come quello del 2019 in collaborazione tra LKAB e l’Istituto tecnologico minerario di Friburgo. La raffinazione circolare, in realtà, va a sopperire ad un difetto di economicità della miniera.
Il recupero delle materie
Come pubblicato nel sito web della stessa LKAB già un anno fa, le risorse di metalli delle Terre Rare a Kiruna hanno un contenuto medio inferiore rispetto ad altre zone in concessione alla ditta. Gli stessi amministratori di LKAB parlano di un periodo di circa 15 anni per essere completamente operativi a livello di iter autorizzativi, exploiting, quantificazione e certificazione delle risorse in riserve. La cui bontà risiede in uno dei tre fattori della produttività (innovazione di prodotto, di processo e di materiale): una tecnologia innovativa e sostenibile per la separazione degli elementi delle Terre Rare in grado di competere con il dominio cinese. Cina che ha visto mettere in stand-by l’autorizzazione all’esplorazione del progetto Kvanefjeld, in Groenlandia appunto, sponsorizzato da Greenland Minerals LTD, società partecipata in maggioranza dalla cinese Shenzhen Resource Holding Co. Ltd). La partita tra Cina e Occidente si gioca dunque anche su questi difficili e rari materiali, di cui servono poche migliaia di tonnellate per soddisfare la domanda globale. Un rapporto dello US Geological Survey stimava in circa 210.000 tonnellate la richiesta mondiale di questi elementi, che però godono di pochi siti estrattivi nel mondo. Inoltre, nonostante si stia lavorando per l’elaborazione e lo sviluppo di nuovi processi per il recupero dei prodotti, il tasso di riciclaggio non raggiunge l’1%, e non sono in vista validi sostituti. Nel 2018 a Bruxelles è sorto il progetto GloREIA col fine di condividere conoscenze, sviluppare un know-how comune per lo sviluppo di un’industria delle Terre Rare, e un’economia circolare sostenibile. Da ciò è nata nel maggio 2020 la REIA (Rare Earth Industry Association), che associa produttori e competenze accademiche europee, insieme ad associazioni nazionali cinesi, giapponesi e statunitensi. Il problema è che Pechino non è solo il primo importatore e lavoratore mondiale di REE, ma sta anche sviluppando una completa e autosufficiente Value Chain, con finanziamenti pubblici nella ricerca. Nel periodo 1950-2018, ha depositato 25.911 brevetti sugli elementi delle Terre Rare, con un significativo aumento dal 2011, a fronte dei 9.810 degli Stati Uniti, dei 13.920 del Giappone e dei 7.280 dell’Unione Europea. I vari brevetti riguardano le tecniche manifatturiere per utilizzare i metalli nei magneti, nei motori, nelle batterie e nei veicoli elettrici. Nell’Artico, troviamo giacimenti di Terre Rare in Canada, Alaska, Scandinavia e Russia, specialmente nella penisola di Kola. Ma sono quelli in Groenlandia a essere potenzialmente cruciali sullo scacchiere economico mondiale. Le riserve stimate vanno da 1,5 milioni (Secondo un rapporto del 2020 dello US Geological Survey) ai 38,5 milioni di tonnellate del report 2015 del Center for Minerals and Materials (MiMa). Cioè dal settimo al secondo posto nella classifica mondiale. Attualmente vi sono una manciata di compagnie minerarie dedicate ai REE, tra cui la Greenland Minerals LTD. La più nota, attiva con il progetto Kvanefjeld, nel complesso alcalino di Ilimaussaq, è guidata dal 2016 dai cinesi della Shenzhen Resource Holding Co. Ltd. Gli fa eco l’australiana Tanbreez, proprietaria del secondo deposito per grandezza della Groenlandia, preminentemente focalizzato su cerio, lantanio e ittrio. Partecipa alla ricerca mineraria locale anche il Czech Geological Research Group (CGRG), team che detiene 5 licenze nella zona centrale e nel Sud. Insieme ad altre due realtà, di proprietari canadese e australiana. I processi di estrazione sono complessi, e altamente inquinanti. Nonostante la domanda mondiale e la scarsità del materiale, i governi groenlandesi che si sono succeduti negli ultimi tre anni hanno messo un freno ai progetti minerari. La resistenza locale è stata motivata soprattutto dal potenziale inquinante del processo di estrazione e dalla richiesta di manodopera specializzata difficilmente reperibile in territorio groenlandese. Era il 2011 quando incontrai Johannes Riber Nordby, ex componente delle forze armate danesi e all’epoca analista presso il DIIS (Danish Institute for International Studies). La preoccupazione principale di Riber era che le grandi multinazionali non sfruttassero eccessivamente le risorse offshore nell’Artico, intese come petrolio e gas naturale. Ma erano altri tempi, e la cooperazione nell’area era ancora un tassello fondamentale per lo sviluppo dell’Artico. Nelle settimane successive si sarebbe tenuto un referendum per un avanzamento dell’autonomia della Groenlandia dalla madrepatria danese. Alla mia domanda sull’eventualità che Nuuk potesse un giorno staccarsi totalmente da Copenaghen, Riber Nordby, con lo spiccato distacco tipico dei nordici, in un ufficio vetrato da cui rimbalzavano le luci del tramonto, mi rispose senza batter ciglio: «Se dovesse mai accadere che Nuuk raggiunga la piena indipendenza, ci riprenderemmo la Groenlandia manu militari. Per risorse, posizione e importanza, non è in discussione la sua presenza nel Regno».
Credits fotografici Sirio Magnabosco ©