La rivoluzione copernicana
Comprendere l’artico significa comprendere il Pianeta. A quelle latitudini, gli effetti del cambiamento climatico sono particolarmente pronunciati: scioglimento dei ghiacci, apertura di nuove rotte di navigazione, comparsa di vaste risorse naturali mai sfruttate. Fra implicazioni economiche, ambientali e geopolitiche è facile intuire perché questi cambiamenti stuzzichino l’attenzione globale. Uno degli effetti più evidenti di questo rinnovato interesse è l’emergere delle università artiche come centri essenziali di sapere. Dall’inizio del nuovo millennio, sono una decina gli atenei passati dal relativo anonimato tipico delle piccole istituzioni periferiche, alla fama da avamposti della conoscenza nella corsa all’oro polare. Akureyri in Islanda, Tromsøe in Norvegia, Rovaniemi in Finlandia o Archangel’sk in Russia ancora non risuonano come Oxford o Cambridge, ma si trovano al centro di una rivoluzione copernicana nel settore accademico. Negli ultimi due decenni, le università artiche hanno contribuito attivamente alle discussioni internazionali, offrendo competenze su questioni come la mitigazione dei cambiamenti climatici, la gestione delle risorse, la sicurezza marittima e i diritti degli indigeni. Attraverso la loro ricerca e il loro impegno, oggi queste istituzioni definiscono le priorità, influenzano le politiche e promuovono la cooperazione tra le nazioni artiche e il resto del mondo. Gli studi portati avanti in queste sedi hanno svolto un ruolo fondamentale nella comprensione dei meccanismi alla base dei cambiamenti climatici, attraverso una documentazione puntuale dello scioglimento dei ghiacci, dell’innalzamento del livello del mare, dei cambiamenti nel permafrost e dell’alterazione degli ecosistemi. Da qui, ad esempio, sono arrivate le prove fondamentali dell’amplificazione artica, il fenomeno che vede la calotta nordica riscaldarsi a un ritmo più rapido rispetto al resto della Terra.
L’importanza della ricerca artica per il nostro futuro
«Il concetto di arctic studies come insieme interdisciplinare che spazia dal diritto polare, alla sicurezza internazionale, dalle scienze ambientali all’antropologia si è affermato negli ultimi decenni di pari passo con l’etichetta geopolitica della regione», dice Federica Scarpa, esperta di diritto con un master in polar law dell’università islandese di Akureyri. Nonostante abbia la popolazione di un quartiere milanese, la cittadina affacciata sull’Oceano Polare è la seconda più importante d’Islanda, centro logistico e finanziario del Nuovo Artico. I cento corsi delle facoltà legate a questi studi ospitano studenti provenienti da sessanta Paesi. In questo paesone da poco più di 20mila abitanti, dietro ogni scrivania, ma anche nei pub e negli ostelli, imperversano, come segno più economico che identitario, planisferi zoomati sul Polo Nord, come a dire: quello è il centro del mondo, il resto non conta granché. Mappe artiche d’ogni sorta e per ogni uso: quelle delle rotte mercantili, dei siti minerari e petroliferi, dei migliori ristoranti, delle agenzie per safari con i cani da slitta, per la pesca al salmone. E, naturalmente, delle vacanze-studio che fioriscono in tutta la regione e rappresentano uno degli indicatori del nuovo status del luogo.
L’etichetta artica o University of the Arctic
La polar law, di cui Akureyri è il centro incontrastato, consiste in un mix di diritto internazionale, marittimo e ambientale, diritto delle popolazioni indigene, antropologia culturale, governance ed economia delle regioni polari. Il corso è stato fondato qui nel 2006 ma ora è offerto anche da altre università artiche, in Canada e in Finlandia. Pur mantenendo differenze sostanziali – basta pensare, ad esempio, all’approccio ai diritti umani in Russia e in Norvegia – i Paesi che formano questa regione condividono varie caratteristiche: le condizioni metereologiche estreme influenzano allo stesso modo le infrastrutture, le comunicazioni, la demografia e, entro certi limiti, la cultura.
«Questa parte del mondo è unica, in nessun altro posto ci sono ambienti così simili per animali, risorse e culture», conferma William Fitzhugh, direttore del Centro Studi Artici in Alaska. «Il resto del mondo è diviso da vasti oceani che hanno limitato le comunicazioni fino ai tempi più recenti». «Sotto tanti punti di vista, l’etichetta artica è paragonabile a quella mediorientale», gli fa eco Scarpa. «Funziona come categoria geopolitica, ma anche accademica». Con un’importante differenza climatica, ovviamente. «Per chi non ci è nato, la notte polare è davvero tanto buia e lunga. A dicembre il sole non sorge mai e ci sono due ore scarse di luce», continua la ricercatrice veneziana trapiantata in Islanda. «Ma il senso d’isolamento che si può provare è largamente compensato dall’ethos egalitario che si respira. L’impressione è davvero che tutti abbiano le stesse opportunità di crescere e contribuire a qualcosa d’importante». Nel campo del diritto artico, la summa di questo impegno è contenuta nello Yearbook of Polar Law, compendio annuale che raccoglie tutte le novità e le opinioni più avanzate su cui si basa lo sviluppo dei regimi giuridici applicabili all’artico, un settore ancora parzialmente inesplorato. Un esempio concreto, che può essere considerato una diretta emanazione degli studi portati avanti dagli esperti delle polar universities, è il trattato sulla pesca artica entrato in vigore nel 2021. Un accordo preventivo che impegna i dieci paesi aderenti – fra cui UE, USA, Cina, Russia e Canada – a non pescare nell’Oceano Polare Centrale, una zona grande quanto il Mar Mediterraneo, fino a quando non saranno raccolti maggiori dati sulla sostenibilità delle specie ittiche che nuotano in quelle acque. Questo vasto tratto di mare, fino a pochi anni fa accessibile solo ai grandi rompighiaccio, potrebbe presto essere alla portata di pescherecci commerciali. Ad oggi, però, sappiamo ancora troppo poco dell’ecosistema sommerso sotto il ghiaccio in scioglimento. Molti pesci sono grandi migratori che non conoscono confini. E lo sviluppo di una pesca non regolamentata potrebbe ripercuotersi negativamente ben oltre la regione artica.
Anche le attività del Consiglio Artico, principale forum intergovernativo tra gli Stati circumpolari, si basano spesso su ricerche e valutazioni portate avanti dalle università boreali. Al punto che, la University of the Arctic (UArctic), rete internazionale che rappresenta questi atenei, è stata riconosciuta come osservatore ufficiale del Consiglio fin dal 2002.
La guerra arriva anche qui.
«Da quando il cambiamento climatico ha cominciato a rendere abitabili zone sempre più a nord, si è colta l'importanza di questa regione», fa notare Outi Snellman, segretaria generale di UArctic. «Senza contare che la transizione energetica necessita di una quantità crescente di minerali rari di cui l'artico è ricco».
Oggi UArctic vanta oltre 200 membri fra atenei e istituti di ricerca di una ventina di nazionalità, ma l’impulso iniziale è partito da un discorso visionario pronunciato nel 1987 a Murmansk, città russa affacciata sul Mare di Barents, da Mikhail Gorbaciov, in cui l’allora segretario del PCUS auspicava che l'artico potesse diventare una terra di cooperazione e pace. Il suo sogno si è realizzato solo al quietarsi delle rivalità da guerra fredda, nei primi anni 2000, quando UArctic è stata fondata ufficialmente con sede a Rovaniemi, nella Lapponia finlandese. Da allora, diversi atenei hanno condiviso infrastrutture e dati sfornando decine di ricerche sotto la sua egida. Purtroppo, però, proprio il Paese da cui è scattata la molla alla base di questa straordinaria collaborazione, è quello che rischia di incepparla definitivamente. Nel marzo 2022, poco dopo l’attacco all’Ucraina, il Consiglio di UArctic ha deciso di sospendere la partecipazione di 55 istituti di ricerca russi. «Prima della guerra, c’era una vivace collaborazione tra la Russia e l’Occidente nel campo dell’istruzione, della ricerca e della mobilità degli studenti» sottolinea Snellman. «La sospensione è stata estremamente dolorosa, perché il ponte umano era efficace e fidato». Oggi, la diffidenza ha preso il posto della cooperazione per ragioni anche molto concrete. Alla fine dell’anno scorso, le autorità norvegesi hanno arrestato un ricercatore con passaporto brasiliano che studiava all’università di Tromsøe con accusa di essere una spia russa sotto copertura. Nel frattempo, il sogno di un sapere artico condiviso continua ad essere coltivato fra gli altri atenei, ma l’assenza di un membro che vanta oltre la metà delle terre polari non passa inosservata. «Purtroppo – conclude Snellman – la mancanza di collaborazione avrà conseguenze gravissime soprattutto nella ricerche sul cambiamento climatico e sulla biodiversità».
Credits fotografici Sirio Magnabosco ©