Cucina nordica alla Casa Bianca

Il 13 maggio 2016, l’allora primo ministro danese Lars Løkke è invitato alla Casa Bianca, in occasione di una delle ultime cene ufficiali tenute dal presidente uscente Barack Obama. Durante la serata, Løkke intrattiene l’ospite americano con un discorso dai toni ironici che si chiude con una battuta: «Mi permetta un consiglio personale», dice il premier danese. «Quando sono davvero frustrato, io mi sfogo cucinando. Se volesse fare altrettanto, le suggerirei d’ispirarsi alla Nuova Cucina Nordica, famosa per utilizzare ingredienti particolari come il muschio, la corteccia o gli insetti. Lei sarebbe molto ben qualificato per sperimentare un’altra ricetta innovativa: quella a base di anatra zoppa». Il riferimento al soprannome riservato ai presidenti a fine mandato strappa una risata ad Obama. Ma per funzionare, la battuta presuppone che il presidente e i suoi ospiti internazionali abbiano una certa familiarità con il concetto di Nuova Cucina Nordica, sconosciuto ai più fino pochi anni prima. Effettivamente, sono bastati un paio di lustri per trasformare la cucina del settentrione del mondo da cenerentola a protagonista della gastronomia globale, spazzando via lo stereotipo di dieta insipida fatta solo di aringhe e renne, accompagnate da montagne di patate. Un’operazione apparentemente impossibile riuscita in grande stile. Al punto che oggi, anche i critici più esigenti riconoscono il Grande Nord come fucina di Grandi Piatti.

Nascita di un movimento culinario

Il movimento nasce a Copenaghen nel 2004, ma ormai vanta avamposti in tutti i paesi artici. Alla base c’è una tradizione culinaria antica, che per anni è stata semplicemente sottovalutata, se non addirittura dimenticata. L’idea è quella di creare ricette rivalutando una varietà di prodotti locali per proporre un’alternativa alla cucina mediterranea e a quella francese, da sempre considerate sinonimo di buon gusto anche alle latitudini più frigide. Il momento fondante di questa riscoperta avviene con la pubblicazione di un manifesto redatto dall’imprenditore Claus Meyer, una sorta di Oscar Farinetti in salsa danese, in collaborazione con una serie di chef gourmet provenienti da Svezia, Danimarca, Groenlandia, Norvegia, Islanda, Isole Faroe e Finlandia. Il risultato è la creazione di un’identità culinaria sovrannazionale che abbraccia l’intera regione artica. Un po’ come avvenne nel decennio precedente con la rifondazione del cinema nordico attraverso il movimento Dogma del regista Lars von Trier, il manifesto gastronomico della Cucina Nordica presenta regole precise e una serie di obiettivi dichiarati. Il primo è quello di «esprimere la purezza, la freschezza, la semplicità e l’etica associate alla regione». Il secondo è «riflettere i cambiamenti delle stagioni». In questo, il cambiamento climatico ha giocato un ruolo stranamente positivo in alcuni casi. In Alaska, ad esempio, l’assenza prolungata di ghiaccio, oggi permette di coltivare patate, carote e frutti di bosco che prima erano impraticabili. Mentre in Groenlandia, l’aumento delle temperature ha creato una sovrabbondanza di alcuni pesci, come i merluzzi, spinti a nord in cerca di acque fredde.  Il terzo obiettivo del manifesto riguarda l’uso d’ingredienti e prodotti «le cui caratteristiche sono rese eccellenti dal clima nordico». «La carne del merluzzo selvaggio pescato direttamente nel mare di Barents in inverno è una prelibatezza che non ha confronti con quello catturato in stagioni più clementi che siamo abituati a mangiare di solito», fa notare Elisabeth Ones, direttrice dell’ufficio norvegese per il Commercio e il Turismo. In generale, il leit-motiv della riscoperta del territorio risuona un po’ dovunque nella bibbia della gastronomia boreale, insieme all’idea di ripensare la cultura e le tradizioni alimentari nordiche con un occhio di riguardo per la salute umana, il benessere degli animali e una produzione sostenibile degli ingredienti.

Il massimo con il minimo (di rifiuti)

«Ci sforziamo al massimo per produrre il minimo di rifiuti possibile», sottolinea Gunnar Karl Gíslason, chef del ristorante Dill di Reykjavík, uno dei più famosi presidi di cucina nordica. Qui, ad esempio, il pesce viene utilizzato fino all’ultima lisca. «La sfida è proprio sfruttare ogni parte della materia prima per ricavare ricette appetitose». Il movimento non ha mai avuto né un logo, né una leadership formalizzata anche se, per anni, il suo simbolo è stato il ristorante pluristellato e pluripremiato Noma di Copenaghen, concepito dallo stesso Claus Meyer insieme allo chef René Redzepi e considerato uno dei migliori al mondo. Non a caso, il suo nome deriva dalla crasi fra nordisk (nordico, in danese) e mad (cibo). Ironicamente, questo locale divenuto sinonimo di sostenibilità oltre che di prelibatezza, ha da poco annunciato che chiuderà definitivamente i battenti nel 2024 a causa dell’insostenibilità sia economica, sia umana di creare una gastronomia ultra-raffinata. Nonostante questo, la rinascita dell’alta cucina polare ha continuato a crescere in tutta la regione, al punto da trasformarsi in quella che qualcuno ha scherzosamente definito gastronomia neo-artica o neo-fiordica.

Bacche stellate

Oggi sono tanti i ristoranti sparsi nel Grande Nord che s’ispirano in modo più o meno lasco alle idee della Nuova Cucina Nordica e contribuiscono ad assicurare un posto al sole ai suoi piatti. Una delle caratteristiche che li accomuna con più frequenza è il fatto di limitarsi all’uso di materie prime reperibili unicamente nei mercati locali, ancor meglio se colte direttamente nella tundra e dalle campagne subartiche, come bacche selvatiche, fiori, alghe, licheni e funghi. Ciò significa eliminare spesso dai menù sapori comuni come i pomodori e l’olio d'oliva a favore, ad esempio, di fiori di sambuco, piuttosto che olio di colza o aghi di pino. Questi ultimi, secondo lo chef norvegese Christopher Haatuft del ristorante Lysverket di Bergen, sono la risposta nordica “all’eterna ricerca di un gusto acido che non sia il limone”. Allo stesso modo, prelibatezze come il foie gras francese o il tartufo italiano vengono sostituiti da rarità locali come il cervello d'anatra o le carote blu invecchiate al gelo invernale. E se il metro di giudizio, sono i premi internazionali e le recensioni dei professionisti del settore, la cucina nordica è diventata davvero una testa di serie nel campionato dei buongustai. In Svezia, un esempio riconosciuto a livello internazionale è il ristorante Brutalisten, ideato dal famoso artista contemporaneo Carsten Höller. Qui non si servono necessariamente cibi autarchici ma rigorosamente elementari, in linea con i principi dell’omonimo movimento d’architettura: un solo ingrediente, massimo due per piatto, preparati con metodi primitivi come l’affumicatura e l’essicazione. Il tutto per far emergere sapori essenziali che possono, a secondo dei palati, rivelare esperienze miracolose oppure piuttosto bizzarre. In Norvegia spicca il ristorante Maaemo dello chef Esben Holmboe Bang. È l'unico nel paese ad aver meritato tre stelle Michelin e offre un menù nordico che, per essere gustato appieno, può richiedere fino a quattro ore. C’è anche il nuovissimo Iris della chef Anika Madsen, creato in una struttura argentea e tondeggiante ispirata alla forma dell’occhio di salmone che galleggia nel fiordo di Hardanger, circondato da montagne e ghiacciai. Il tema qui è la vita marina sostenibile e il menù promette «un’esplorazione culinaria impossibile da replicare altrove». C’è anche il Koks, forse il più remoto fra i locali stellati, che nasce alle isole Faroe ma si è temporaneamente trasferito a Ilimanaq, sulle coste della Groenlandia. Questo locale è immerso in un paesaggio degno del Signore degli Anelli e offre un esclusivo tasting menu composto da 20 portate. «Qui cerchiamo di concentrarci su ingredienti tipici della Groenlandia, dalla granceola artica al bue muschiato passando per l’halibut, oltre ad alghe e bacche», dice Poul Andrias Ziska, cuoco stellato del Koks. «Mentre quando eravamo alle isole Faroe, ci dedicavamo molto alla fermentazione. A differenza di altri Paesi nordici, lì molte vecchie tradizioni culinarie sono sopravvissute all’omologazione portata dalla globalizzazione».