Una multinazionale tascabile? Ormai ben di più, visto che il giro d’affari è destinato a superare quest’anno i 2,2 miliardi di euro.  Un’azienda a conduzione familiare? Non più a rigor di logica, perché la guida operativa è saldamente nelle mani del management, pur affiancato da azionisti molto attivi. Ma le etichette non servono più di tanto per carpire i segreti dei successi della Lavazza, azienda leader in un settore estremamente competitivo, capace di reinventarsi negli ultimi anni segnati da crisi italiane ed internazionali e pandemie varie. In maniera così originale ed efficace che l’azienda, caso quasi unico tra le imprese non quotate, è entrata nell’elenco dei modelli di governance da studiare e replicare. Un esempio tipico, insomma, di quel capitalismo che ha saputo mantenere l’Italia ai vertici della manifatturiera europea anche negli anni più difficili ed oggi promette di recuperare posizioni sui mercati prima e meglio dei concorrenti. Per merito di aziende che, per dirla con Giuseppe Lavazza, «sono consapevoli di dover crescere, attrarre talenti, attrezzarsi sul piano culturale per integrare in impresa valori etici e civili di un certo livello». «Noi ci riconosciamo al 100 per cento in questo identikit» continua il vicepresidente, classe 1965, una laurea in Economia a Torino con una tesi su complementi di matematica per economisti, che rivela la concretezza del suo approccio al tema del rischio calcolato. Per un imprenditore, ci dice, «la regola di non fare il passo più lungo della gamba vale solo fino ad un certo punto. Non deve essere un limite allo sviluppo consapevole in un mestiere rischioso perché fare economia, nonostante quel che ne pensano molti politici o maitres-à-penser resta un mestiere rischioso. Per fortuna si può programmare bene la propria attività senza mettere a repentaglio il futuro dell’azienda».

LA SVOLTA

La pensa allo stesso modo il cugino Marco Lavazza, altro esponente dei cinque membri della quarta generazione della dinastia nata nel 1895 a Torino in una torrefazione di via San Tommaso grazie al lavoro di nonno Luigi. Marco, anche lui vicepresidente, classe 1977, entrato in azienda dopo un tirocinio in International Business all’università del Nevada ed alla Ferrero, racconta così la svolta che ha preso corpo dopo il tracollo di Lehman Brothers. «Allora - ricorda - ci siamo resi conto che il mondo era cambiato ed il business andava affrontato con una nuova consapevolezza. Perché eravamo e siamo tutt’ora convinti che per un’azienda la scelta di crescere sia obbligata, se non si vuol correre il rischio di essere schiacciati». Più facile a dirsi che a farsi perché «ogni volta che andavamo ad esaminare un dossier ci trovavamo di fronte ad offerte finanziarie molto più alte della nostra, anche del 40%. Anzi, i private erano pronti a offrire più del doppio di quello che secondo noi era il prezzo giusto». Facile, in una congiuntura del genere, cadere nella tentazione di rinchiudersi nel proprio guscio, recriminando contro il mondo che è impazzito. Al contrario la famiglia Lavazza ha fatto una scelta diversa: uscire dal guscio di un mercato solo all’apparenza sicuro, ma solo dopo aver fatto un balzo culturale in avanti. «Ci siamo resi conto – continua Marco - che era necessario un salto di qualità: passare cioè da piccola multinazionale tascabile a qualcosa di nuovo e di più importante. Era necessario proiettarsi nel mondo e così evitare di restare nel limbo. Ma per fare questo era necessario assicurarci le competenze che non avevamo. Fermo restando che occorreva mantenere intatto il rapporto con gli stakeholders, in particolare tradizione, cultura ed il collegamento con il territorio».

BARAVALLE, IL GAME CHANGER

Largo ai manager, dunque. Ma con quale margine di autonomia? E con quali caratteristiche?  È il collo di bottiglia contro cui si sono infrante le aspirazioni di molte imprese del made in Italy. «La ricerca del manager più adatto per l’azienda durava da anni, con vari tentativi - precisa Giuseppe. In un primo momento abbiamo valutato diverse personalità, alcune delle quali eccellenti ma non così complete come cercavamo. Poi ci siamo concentrati su manager che avevano alle spalle una lunga carriera nella convinzione, in sé non sbagliata, che una certa seniority fosse una garanzia di esperienza. Ma più si andava avanti su questa strada, più la soluzione appariva di corto respiro: se ti affidi ad una persona di una certa età, devi esser consapevole che la sua permanenza in azienda sarà breve». Troppo breve per un’azienda che vuol pensare in grande. La quadratura del cerchio arriva con la scelta dell’attuale amministratore delegato: Antonio Baravalle, torinese, uno dei frutti della grande scuola dei Marchionne boys, i giovani scelti a suo tempo dal numero uno di Fiat per seguirlo nella mission di salvare il gruppo.  Baravalle, una grande esperienza maturata prima in Alfa Romeo poi alla guida di Einaudi si è rivelato, parola di Giuseppe Lavazza, «il nostro game changer, un collaboratore straordinario con cui nel giro di sette od otto anni abbiamo costruito una squadra vincente, frutto di esperimenti, ripensamenti ed innesti fortunati. Ne è risultato un team capace di realizzare un programma di acquisizioni molto sostenuto, ma anche di gestire un processo di investimenti e di crescita tecnologica». «Per anni – dice Marco – ho seguito il nostro amministratore delegato come un’ombra. Ho partecipato a riunioni in cui sono stato zitto perché non avevo titolo per intervenire ma che ci hanno permesso di creare una piena sintonia tra management ed azionisti. Baravalle, straordinario, ha sempre voluto coinvolgerci anche se aveva ed ha pieni poteri. Anche oggi ci incontriamo ogni 15 giorni per fare il punto della situazione».

IL VALORE DI UN CDA INDIPENDENTE

 Ma a dar la misura della determinazione della famiglia a confrontarsi, senza privilegi, con la realtà del mercato, contribuisce, assieme alla nomina di Baravalle, un’altra rivoluzione: l’ingresso nel consiglio di amministrazione di personalità indipendenti di alto livello che affiancano i membri della famiglia, cioè presidente Alberto, i due vice Giuseppe e Marco assieme a Francesca, Antonella e Manuela Lavazza. Entrano nel board, anno 2011, Gabriele Galateri, presidente delle Generali, Pietro Boroli, presidente della De Agostini e Antonio Marcegaglia amministratore delegato del gruppo omonimo. «Gli azionisti - spiega Giuseppe - sono stati molto bravi a integrarsi con amministratori indipendenti di alto livello. Anzi, di fronte all’emergenza Covid è stato deciso di ampliare la rosa degli amministratori indipendenti che oggi sono la maggioranza rispetto alla famiglia e potrebbero perfino votarci contro. Gli azionisti sono stati saggi nel valutare la loro posizione: sono azionisti attivi che seguono l’azienda nella vita quotidiana, sempre presenti. Rappresentiamo un punto di stabilità, riferimento per stakeholders».

L’AZIONISTA CAMBIA PELLE

«In sostanza – dice Marco – abbiamo aperto le porte dell’azienda ai manager, ritagliandoci un ruolo di azionista attivo, sempre presenti per l’azienda quando le circostanze lo richiedono ma capaci di rimettersi in discussione anche davanti a membri esterni illustri, persone che accettano incarichi impegnativi solo se ne vale la pena». «L’azienda è molto cambiata negli ultimi anni – concorda Giuseppe – ha fatto passaggi ragionati a fronte di un numero di azionisti più numeroso in cui gli schemi di governance della seconda e terza generazione non erano più applicabili». Di qui una serie di novità tra cui l’introduzione dell’obbligo del voto unanime per le materie più sensibili tra i cinque esponenti della quarta generazione (Giuseppe, Marco, Antonella, Francesca e Manuela, presidente della Fondazione Time 2 di cui si occupa assieme ad Antonella) che oggi vanno tra i 34 e i 56 anni di età. Il risultato è stato la complementarità tra un management team molto compatto ed autonomo a fronte di azionisti che sono molto presenti nella vita aziendale, due realtà in sintonia che condividono le decisioni. Una sintesi non sempre facile, specie per quegli azionisti che, come Giuseppe e Marco, erano cresciuti nell’etica del lavoro da piccoli Buddenbrook sabaudi e che si sono ritrovati «senza l’obbligo di timbrare il cartellino».  «Non è stato facile cambiare ruolo – ammette Marco – almeno per me o per Giuseppe che è più vecchio di me. Più facile per mia sorella».  Ma nessuno ha voltato le spalle all’azienda e scelto i campi da golf in alternativa alla missione di far crescere l’impresa che porta il nome di famiglia. «C’è un punto fermo: in azienda la famiglia c’è e ci sarà. Rappresentiamo la continuità. E non a caso alcuni di noi si sono ritagliati un ruolo nei test sui nuovi prodotti, a garanzia della qualità in linea con la tradizione. La famiglia rappresenta un punto di stabilità, un riferimento per gli stakeholders, capace di esser vicina nei momenti difficili ai soggetti deboli del territorio. Un tratto che andrà difeso anche in futuro. E ora si tratta di cominciare a pensare al passaggio alla quinta generazione per capire come sarà in termini di governance la Lavazza tra dieci anni». È proprio questa complementarità tra famiglia, azionisti e management il primo segreto dell’affermazione nel mondo del modello Lavazza negli ultimi dieci anni. Ovvero, da quando, per dirla con le parole di Antonio Baravalle «dovevamo decidere cosa fare: eravamo i più piccoli dei grandi e i più grandi dei piccoli. Non potevamo stare fermi, così abbiamo iniziato una serie di acquisizioni per diventare globali. Abbiamo alzato l’asticella cambiando metodo di lavoro e continuando a spostare più in là il nostro traguardo».

 

LA PLUSVALENZA DI GREEN MOUNTAIN

La prima occasione per cimentarsi con i mercati internazionali era appena arrivata. Nel 2010 Lavazza aveva concluso un accordo commerciale e finanziaria con l’americana Green Mountain. «E’ lì che abbiamo dovuto cambiar pelle – ricorda Marco. Io sono entrato nel board, senza avere diritto di voto, cosa che del resto non ci interessava. Ma abbiamo dovuto apprendere le regole di comportamento di una società quotata». Fu un successo memorabile. «L’esperienza è durata più di due anni dai 190 milioni iniziali ci siamo trovati con quasi un miliardo. Una plusvalenza che ti obbliga a ragionare in termini diversi. Grazie a questa, combinata con una situazione patrimoniale molto solida, ha preso corpo la possibilità di crescere in maniera significativa per linee esterne. Ma, ancor più importante, abbiamo preso coscienza che la crescita non poteva che passare da un salto di qualità nel modo di condurre il business».

 DA CARTE NOIR AGLI USA; LA SCELTA DI ESSERE GLOCAL

La “nuova” Lavazza è un’azienda che, nel panorama triste dell’economia italiana del decennio scorso, si distingue per l’alta propensione ad investire, sia nel rinnovamento degli impianti e della sede, che nelle acquisizioni, condotte secondo una logica ben precisa perché, sottolinea Giuseppe, «siamo condannati a crescere, altrimenti si sparisce. Ma la crescita va fatta nel rispetto di principi, in modo virtuoso». La vocazione “glocal” del business Lavazza è un punto di forza che, in alcuni casi, ha favorito il successo della “piccola” (per i parametri del mercato mondiale) società italiana. E così Carte Noire, la griffe francese che è stata la prima grande acquisizione internazionale, «oggi è al 100% un’azienda Lavazza per le caratteristiche di lavoro, perfettamente integrata nel nostro panorama». Ma lo stesso spirito ha guidato anche le altre acquisizioni: la canadese Kicking Horse, pioniere del caffè biologico con un packaging originale, così come la danese Merrild, con una gestione fortemente autonoma delle vendite di caffè prodotto in Italia. «Il nostro è un approccio multi-brand in linea con i criteri del settore wine spirits. La regola è di avere un forte legame con il territorio caratterizzato dal rispetto delle realtà locali. Le grandi operazioni di reinvestimento e di valorizzazione del territorio ci hanno consentito talvolta anche di prevalere sull’offerta di multinazionali più forti». È quanto è avvenuto nel 2018 in Usa con l’accordo per l’acquisizione del settore caffè dell’americana Mars, un gigante dell’alimentare controllato dall’omonima famiglia. Anche in questo caso la filiale Usa gode della massima autonomia operativa «anche se il dialogo è costante, nonostante le difficoltà imposte dalla pandemia». Non manca, infine, un avamposto in Australia (Blue Pod) e altri ne verranno, anche se l’offerta di marchi in linea con le esigenze di Lavazza scarseggia. In ogni caso, forte di una situazione finanziaria robusta, l’obiettivo è di crescere ancora anche per linee esterne, aumentando la quota di fatturato estero. Che oggi già rappresenta poco più del 70 per cento del giro d’affari complessivo. «E ci stiamo abituando – sottolinea Marco – a considerare l’Italia un mercato come gli altri, anche se qui ovviamente la nostra presenza si fa sentire più che altrove».

L’ASSE CON I PRODUTTORI, PARTNER PREZIOSI

Oggi, in attesa di passare il testimone alla quinta generazione di casa Lavazza, l’azienda è pronta a svolgere un ruolo pubblico più attivo, tanto più importante in un’economia ferita dal Covid -19. «La pandemia – sottolinea Giuseppe – ha provocato più di uno shock nel settore, specie nei bar. È una clientela da non abbandonare, anche sul piano psicologico». E questo imperativo morale vale ancor di più nei confronti dei Paesi produttori. «I rapporti con i fornitori sono stati sempre al centro dell’attività di mio padre Emilio – spiega Giuseppe – La Colombia, l’Africa, mancava l’Asia perché all’epoca non c’erano le piantagioni del Vietnam. Ma il rapporto più radicato e profondo era con il Brasile, cosa che ha permesso all’azienda di superare la crisi più grave, quella degli anni Settanta quando le gelate hanno distrutto due milioni di piante, i prezzi si sono impennati e noi, per giunta, eravamo alle prese con i vincoli sul movimento dei capitali in piena crisi valutaria. Solo le amicizie di mio padre ci consentirono di disporre della materia prima necessaria per andare avanti».

LA SOSTENIBILITA, UN IMPEGNO STRATEGICO

Oggi la frontiera dell’impegno passa dalla sostenibilità. «A conferma di quanto consideriamo strategico il tema – interviene Marco – basti considerare che abbiamo deciso di mettere la Fondazione Lavazza dentro il perimetro della società». «Non abbiamo piantagioni – dice Giuseppe – ma abbiamo relazioni strette con fornitori e traders. Le attività della Fondazione servono a fornire le comunità dei mezzi necessari per attuare progetti per proteggere l’ambiente e la biodiversità. Se ci fosse un solo tipo di caffè che ci staremmo a fare? Saremmo come un pittore con un solo colore. Ci sta molto a cuore il futuro dei Paesi produttori, perché bisogna evitare che si spopolino le campagne».

 

 

CAFFE’, CAFFE’ E ANCORA CAFFE’

Caffè, caffè ancora caffè. Non pensate a fare altro? «Negli anni Ottanta ci fu una riflessione sul modello conglomerata che allora andava di moda. Poi prevalse la linea di restare concentrati nel caffè e di crescere per linee esterne a partire dalla Francia in cui operiamo come Lavazza dal 1982. Penso sia stata la soluzione più intelligente». «Il caffè – insiste Marco – rappresenta ancora un universo sensoriale che può proporre grandi novità. Basti pensare all’enorme crescita degli specialty coffee che spuntano in America come in Europa ma anche in Cina ed in Corea. È una commodity antica ma con una straordinaria capacità di rinnovarsi. C’è ancora molto da fare per valorizzare il prodotto: dallo sviluppo delle tecnologie per le cialde ed altre forme di consumi fino alle nuove qualità più pregiate. Noi lavoriamo con gli chef di punta cui diciamo: non dimenticate mai che l’ultimo gusto in bocca ai vostri clienti è quello del caffè».   

TORINO, UN PATTO PER IL FUTURO. LA BORSA? PER ORA NO

Infine, Torino. La culla dell’impresa, una città in cerca di riscatto, non solo economico. La “Nuvola”, un investimento da 120 milioni nella nuova sede sociale in un’area dismessa di un quartiere difficile, Aurora, ha rappresentato una grande boccata d’ossigeno per la metropoli. «Siamo partiti con un’iniziativa immobiliare per poi renderci conto che stava nascendo qualcosa di più, un progetto con valenze sociali e culturali entro una sorta di rudere. In più abbiamo scoperto una magnifica area archeologica con una basilica del II secolo d.C. e ce ne siamo innamorati. Il quartiere è soddisfatto, abbiamo attivato un programma di eventi in uno spazio importante in cui ospitiamo lo Iad per il design, una mensa per 800 pasti al giorno più il ristorante gastronomico che ha conquistato la stella Michelin». Insomma, manca solo la quotazione in Borsa… «Per ora non ne abbiamo alcun bisogno. Non è certo la finanza che ci manca. Domani vedremo» dice Giuseppe. E Marco concorda: «Se domani servisse a crescere saremmo pronti a farlo, perché sul piano della gestione l’azienda si comporta già oggi secondo i criteri della miglior governance».