Imprenditore è qualcuno che crea valore, per sé e per i suoi soci, normalmente attraverso lo sviluppo di un business. L’Italia fortunatamente ha generato con continuità tanti imprenditori, e questi indirettamente hanno contribuito anche alla ricchezza del paese. Nel tempo però la parola imprenditore è stata utilizzata impropriamente per includere i figli degli imprenditori, gli eredi di patrimoni che includono attività industriali, i manager che sono temporaneamente senza un incarico, gli operatori di private equity, i creatori di startups ecc.; insomma, imprenditore è diventato più simile ad un titolo nobiliare o un’etichetta auto-attribuita invece che essere una competenza faticosamente acquisita. Noto che nelle professioni il titolo di dottore, professore, ingegnere ecc. non si tramanda di padre in figlio, mentre nell’industria il titolo “imprenditore” sì; addirittura esiste l’associazione dei Giovani Imprenditori! Nel resto di questa mia riflessione mi limiterò a fare riferimento solo ai classici imprenditori impegnati in prima persona, con competenze vere nel business e nella gestione delle persone, e con un track record di successo. In passato in Italia questi imprenditori hanno fondato il business a cui si dedicano, o in alcuni casi l’hanno ereditato e sviluppato al di là delle più rosee aspettative dei fondatori; abilità e fortuna si mescolano, ma comunque alla fine si parla sempre solo dei vincenti. Fare impresa vuol dire correre dei rischi, e talvolta ci sono cambiamenti epocali nel mercato o nella tecnologia che spiazzano completamente anche il più bravo degli imprenditori. È interessante però mettere in evidenza il contesto degli ultimi decenni, non per sminuire l’importanza dei risultati raggiunti dai “vincenti” ma per aumentare l’attenzione al mutato contesto che da una ventina d’anni ci sta impattando. In genere gli imprenditori italiani si sono sviluppati in un contesto di moderata espansione, di concorrenza solo continentale, di sviluppo tecnologico senza “salti”, di scarsità di capitali; sono stati capaci di sviluppare prodotti e processi generando efficienza e valore aggiunto. È evidente a tutti che da anni il contesto è cambiato; l’economia italiana è in riduzione, quella europea è in stagnazione e il resto del mondo invece è in espansione; oggi (ma in realtà da almeno un paio di decenni) il mercato di riferimento è il mondo (sia per prodotti che per servizi), la concorrenza sovente proviene da paesi con vantaggi competitivi imbattibili (dal costo e flessibilità del lavoro all’assenza di regole ambientali e simili), la tecnologia permette di trovare soluzioni “disruptive” che cambiano completamente i prodotti ed i servizi (per esempio, Netflix) con la conseguenza di generare schiere di perdenti e vincenti che hanno poche colpe o meriti circa la situazione. Infine, essendo abbondanti i capitali disponibili (per esempio, fondi messi a disposizione dai private equity), si è vista accelerare enormemente la rapidità degli sviluppi di prodotto o di processo, e l’evoluzione del mondo è cambiata – da sviluppo graduale più o meno costante, a sviluppo e recessione alternate di bolla in bolla. L’evoluzione dell’imprenditorialità potrebbe essere così rappresentata da una immagine: si è passati dal nuoto sfruttando la corrente di un fiume domestico al surf sulle onde di una riva oceanica. In un contesto così cambiato l’imprenditore deve mirare ad una dimensione prima continentale e poi mondiale, in tempi relativamente brevi; improbabile fare tutto da solo, ma la grande necessità di capitali richiede apertura, disciplina, comunicazione e l’accettazione delle regole dei private equity:cioè un orizzonte temporale per un exit, una quotazione, la rivendita dell’azienda. Quasi impossibile perseguire il sogno di passare l’azienda, una volta sviluppata, alle future generazioni; a meno di sacrificare fortemente lo sviluppo se non addirittura aumentare il rischio di rimanere in una dimensione non competitiva man mano che i concorrenti si aggregano e aumentano dimensioni e competenze. In passato imprenditori normalmente “si nasceva”; oggi c’è anche la possibilità di “diventarlo”. Sono frequenti i casi di manager che avendo gestito molto bene un’azienda, nel tempo ne divengono proprietari, da soli o insieme ai propri finanziatori. Il mercato dell’M&A è fiorente e offre tantissime opportunità anche di entrare in un business o trovare la sponda internazionale per allargare il proprio. La componente finanziaria di un piano di sviluppo aziendale è diventata altrettanto importante che quella industriale. È difficile per un imprenditore sopravvivere in una dimensione piccola, quando il mercato e la concorrenza si sono allargati al mondo. A meno di operare in nicchie difendibili è giocoforza fondersi con concorrenti di altri paesi, utilizzare i capitali “equity” messi a disposizione dai fondi, ed utilizzare la leva finanziaria anche per operazioni strutturali (leggasi, acquisizioni). Tutto ciò aumenta il rischio di impresa, inevitabilmente; per ridurre il rischio è necessario dotarsi di soci finanziari forti, capaci di sostenere l’azienda e il piano di sviluppo se e quando si dovessero incontrare momenti di difficoltà. Il mondo attuale è troppo diverso da quello precedente per poterlo capire solo leggendo i giornali; un imprenditore oggi deve dedicare del tempo a “ricablare il proprio cervello” per renderlo più adatto a competere, cogliere le opportunità, minimizzare i rischi. Non si può, ad esempio, parlare genericamente di Cina senza dedicare del tempo laggiù, almeno fino a quando il “laggiù” sembri un “qui”. Non si può discettare di sviluppo in cui le bolle sono la norma, senza avere esperienza diretta di situazioni consolidate simili, quale il trading. Quando si analizzano i casi di imprenditori intelligenti che però ad un certo punto fanno scelte sbagliate, si conclude che purtroppo è facile per chi si concentra in un solo paese e si contorna di persone simili (se non addirittura di yes men) sviluppare una forma di cecità, che invece non colpisce chi ha esperienze diverse ed internazionali, ed è meno condizionato da dogmi o modi di pensare del passato. Nessuno di noi è obbligato a pensare come pensa per effetto della tradizione; dobbiamo attivarci per comprendere veramente quale è il modo giusto per pensare, e comportarci per consolidare il modo di pensare adatto a vincere in futuro aumentando le chances di esser vincenti a termine. Un esempio potrebbe essere il concetto di partner; in passato l’imprenditore voleva dominare la propria azienda e se trovava un tecnico od un commerciale bravo lo assumeva. Oggi è molto più produttivo rovesciare questo modo di fare: è l’imprenditore che si collega con il tecnico o con il bravo commerciale, lo aiuta a mettersi nel business, gli offre supporto finanziario e operativo e se quello ha successo l’azienda dell’imprenditore ne è trainata. Un’altra riflessione fondamentale dell’imprenditore è dove mettere la sede dell’azienda: ieri era normale scegliere di metterla sotto casa. Oggi però il rischio Italia, come paese in declino strutturale inevitabile ed ostile al business, impone di spostare la sede fuori, come già hanno fatto Exor, Luxottica, De Agostini, eccetera. Tale spostamento serve anche per comprendere meglio come l’Italia sia una periferia del mondo e non necessariamente il centro della propria attività. Spostando la sede viene più naturale riflettere laicamente su dove andare ad investire nel mondo; non c’è più il bias domestico.

Alcune riflessioni che gli imprenditori non possono rimandare, oggi come ieri, sono relative alla managerializzazione dell’azienda, alla successione, alla propria trasformazione, da imprenditore industriale ad imprenditore finanziario. L’imprenditore sogna di sviluppare l’azienda e di passarla ai figli, i quali dovrebbero passarla ai nipoti e così via. Per un’azienda immobiliare forse tale sogno è realizzabile, non per un’azienda industriale. Nel giro di qualche decennio cambiano così tante cose che pianificare il futuro non è davvero possibile. Tipicamente un’azienda nasce e si sviluppa con l’imprenditore, o magari con l’accoppiata finanziatore/imprenditore; quando le dimensioni sono limitate (per esempio fino a qualche milione di euro di cash flow libero) c’è poco spazio per introdurre un manager di valore che possa, nel tempo, sostituire l’imprenditore; man mano che le dimensioni crescono tale opzione diventa possibile; talvolta è essenziale in quanto un’azienda che è gestita da una bravo manager (il quale ovviamente dovrebbe aver imparato tanto dalla vicinanza con l’imprenditore) ha maggior valore, nel senso che gli operatori o i mercati finanziari la percepiscono meno a rischio e sono più propensi a mettere capitali equity. Nel passaggio dalla gestione diretta alla gestione indiretta è rarissimo il caso di un figlio/a più bravo/a di un manager di qualità e quindi i figli devono capire che il loro futuro è quello di azionisti, non di manager auto-nominati. Però, appena ci si convince che non vale la pena (anzi è controproducente) gestire l’azienda tramite un membro di famiglia, la successiva domanda diviene: ma è davvero utile mantenerne il controllo? In genere la risposta corretta è “sì” ma a patto che il percorso di ulteriore creazione di valore sia chiaro e fattibile; se non è così, allora meglio diluire la proprietà con investitori finanziari capaci di stimolare lo sviluppo, per esempio tramite acquisizioni. Ad un certo punto, però, lo sviluppo comunque finisce e diventa attrattiva l’alternativa di liquidare la posizione per investire nei mercati finanziari del mondo; dopotutto è dimostrato che un aumento del valore di un patrimonio, in termini reali, può esser realizzato investendo con continuità e passivamente in un indice dei mercati finanziari del mondo; un tasso di aumento del valore del 5% all’anno porta al raddoppio del patrimonio ogni 14 anni circa, con rischi molto inferiori a quelli di un’attività industriale in settori senza significativa crescita. Il ciclo di evoluzione dell’imprenditore, e della sua famiglia, da gestore diretto di uno sviluppo imprenditoriale a gestore indiretto di una imprenditorialità finanziaria è così completo. Il sogno di una gestione eternamente in famiglia dell’azienda originaria svanisce, ma i pronipoti saranno grati a chi gli ha lasciato davvero un patrimonio in accrescimento. Concludo con un’analogia di 500 anni fa. Sia Venezia che Genova erano città-stato in cui le oligarchie erano imprenditori del mare, e l’enorme accumulo della loro ricchezza dal 1100 al 1500 era dovuto ad un modo di pensare imprenditoriale adatto ad un contesto che, nonostante guerre e pestilenze, non cambiava; per commerciare con l’estremo oriente si passava dal Medio Oriente e poi per il mare di Venezia o di Genova. Quando Vasco da Gama dimostrò che si poteva andare e venire dall’oriente passando per il capo di Buona Speranza, con costi e rischi molto minori della via tradizionale, le repubbliche marinare capirono che il modello di business storico era diventato perdente ed insostenibile. Entrambe le repubbliche disinvestirono i capitali dall’attività armatoriale; Venezia decise di investire in immobili in Veneto e di godersi la vita. Genova decise di investire in attività bancaria e, nel tempo, spostò il baricentro dell’attività a Londra. I patrimoni di Venezia non ci sono più, quelli di Genova sono stati reinvestiti in un altro ciclo secolare di sviluppo, e cioè nell’impero mondiale della Gran Bretagna; gli eredi degli eredi non hanno più nomi italiani, ma ringraziano i trisavoli che hanno capito dove andava il vento e, da veri imprenditori, si sono riposizionati in modo vincente.