Come definire il professor Gian Maria Gros Pietro? Il suo è un curriculum tanto ricco quanto versatile: uno dei “padri” della politica industriale nell’età dei distretti, grand commis di stato alla guida di Eni ed Iri, oggi banchiere alla presidenza di Intesa Sanpaolo alla vigilia della stagione del Recovery Fund. Una carriera straordinaria tra pubblico e privato, ricerca accademica e sperimentazione sul campo. La guida ideale, insomma, per rivisitare il recente passato dell’economia italiana e, soprattutto, per cogliere alcune istruzioni per l’uso sul futuro, in un momento di svolta in cui, quasi all’improvviso, fa capolino una nota d’ottimismo per il Belpaese. 

∞ Forse un ottimismo eccessivo, Professore, alla luce dei danni passati. L’Italia, in fin dei conti, è l’unico grande Paese che non ha ancora recuperato i livelli precedenti la crisi di Lehman Brothers. Ce la faremo, finalmente?

«Abbiamo tutte le potenzialità per rivedere quei livelli. Purtroppo, a suo tempo non abbiamo interpretato al meglio il fatto di essere entrati nella moneta unica, cosa che rappresentava una grandissima opportunità perché, con la fine delle svalutazioni competitive del secolo scorso, l’Italia poteva veramente imboccare la strada dell’upgrading, cioè di un salto di qualità della sua crescita. Con le svalutazioni competitive cresce l’inflazione, diminuisce il valore della moneta, crescono i prezzi. E questo fa sì che sia difficile calcolare con esattezza quella che sarà la redditività di un investimento a lungo ritorno».

∞ Con quali conseguenze?

«Il tipico investimento a lungo ritorno è quello nell’innovazione, che presenta qualche rischiosità in più ma è molto più redditizio. È il tipico investimento dell’industria tedesca, che ha sempre potuto contare su una valuta stabile.  L’euro, almeno in quella fase, è stata una moneta stabile con un comportamento molto simile al marco che escludeva il ricorso alla svalutazione competitiva. Una volta unificata la moneta, bisognava avere la stessa politica industriale che aveva fatto il successo della Germania. Cioè perseguire il continuo incremento del valore, intrinseco delle produzioni investendo in innovazione. Magari correndo qualche rischio nel breve».

∞ Non è proprio quel che è avvenuto.

«Diciamo che la nuova situazione non è stata compresa come meritava. Il Paese ha continuato a cercare più protezione che opportunità. Più garanzie e meno apertura al rischio. Questo ci ha fatto crescere meno degli altri. Eppure, l’evoluzione era ed è a portata di mano. Bisogna ridurre le rigidità, lanciarsi verso l’innovazione, investire nelle persone e nelle loro professionalità, lasciare che esplichino la loro voglia di fare».

∞ E in Italia ci sono?

 «Sì, le abbiamo. Purtroppo, però, troppi giovani con quelle qualità vanno a lavorare all’estero, dove sono meglio valorizzati. Dovremmo smettere di regalare capitale umano e riportare in Italia una parte di quello emigrato all’estero. In questo modo ricupereremmo le competenze che quelle persone hanno acquisito nelle nostre ottime università, insieme a quanto hanno appreso muovendosi in un’economia ormai ampiamente globalizzata, comprese le reti relazionali in cui si sono coinvolti».

∞ Quanto dice, Professore, suona come un atto d’accusa verso la classe dirigente dell’epoca, incapace di cogliere l’occasione. È così?

«Sarebbe un’accusa ingenerosa. In realtà dobbiamo distinguere due fasi dopo la nascita dell’euro. Nei primi anni dell’integrazione monetaria l’Italia entra nel sistema avendo perso l’arma delle svalutazioni competitive. Sa che deve cambiare e comincia a farlo. La conferma sta nel contributo dell’export di qualità che comincia a crescere. Ma nel bel mezzo del processo, l’economia europea è colpita dalla crisi americana dei subprime, una crisi finanziaria nata dalla cattiva gestione del credito bancario. Negli Stati Uniti gli istituti di credito offrivano mutui anche ad imprenditori che non disponevano di redditi sufficienti a pagarne le rate, confidando che l’aumento costante del valore degli immobili avrebbe coperto i debiti a posteriori. Quando la bolla dei prezzi scoppia, le banche che l’avevano sostenuta diventano insolventi, anche quelle a capitale pubblico. L’Europa non era tra le cause di quel fenomeno».

∞ L’Italia ancor meno, forse.

«Ma l’Italia aveva una debolezza. Diverse banche prestavano, a imprenditori sani più di quanto raccoglievano, procurandosi la liquidità aggiuntiva sul mercato interbancario nordamericano, a tassi interessanti. In seguito allo scoppio della bolla subprime, ed al fallimento delle banche che ne erano state protagoniste, il mercato interbancario nordamericano si chiude, le banche italiane non vi trovano più finanziamenti. Per necessità, sono costrette a tagliare fidi, a chiedere rientri, il che non aiuta in presenza di una crisi grave, complicata da una ricaduta dopo un primo accenno di ripresa».

∞ L’origine della crisi, dunque, è internazionale. Ma ha colpito un’industria fragile, che non aveva sviluppato gli anticorpi.

«In realtà fino al 2006, 2007 l’industria italiana si stava spostando verso un nuovo modello di crescita. E, nonostante la gravissima crisi finanziaria nella quale è stata poi coinvolta, non appena le condizioni lo hanno permesso, sono riemerse quelle tendenze virtuose, e si è notato il netto divario di risultati tra le imprese che avevano intrapreso questo percorso e le altre. Non dimentichiamo che nel biennio 2019, 2020, la dinamica dell’export italiano è stata superiore a quella tedesca. Per dirla “alla Merkel”, avevamo fatto i compiti a casa. Ma non ancora in una misura sufficiente».

∞ Cosa ci manca?

«Insisto: credo che richiamare i nostri giovani che hanno fatto esperienza all’estero sarebbe il propulsore ideale. Come fare? Le imprese in grado di crescere sono l’unica risposta valida ed efficace ai bisogni dei giovani. Essi non aspirano soltanto ad un reddito adeguato, cercano posizioni dignitose, progetti di avvenire gratificanti per il ruolo che vogliono avere nella società».

∞ Ma le aziende di casa nostra, pubbliche o private, sono in grado di rispondere a queste aspirazioni?

«Le imprese non sono tutte uguali: ci sono le grandi, le medio grandi, le multinazionali tascabili, le piccole e così via. In Italia negli anni Ottanta ha preso il via una forma di organizzazione di queste imprese che ha avuto un grande successo: erano i distretti composti da tante piccole e medie imprese di che si scambiavano componenti o si specializzavano in singole fasi di produzione. Oggi, di fronte ad un mercato globalizzato, la formula classica del distretto non è più sufficiente. Bisogna pianificare investimenti più importanti, non solo nella produzione, ma anche nella logistica, nel marketing e nella gestione degli asset immateriali: tecnologia, organizzazione, marchi, brevetti.  Soprattutto, bisogna investire nelle persone, consapevoli che formarle costa, e che ancora più importante è trattenerle una volta formate, offrendo loro prospettive attraenti. Il distretto tradizionale non è più sufficiente».

∞ E allora?

«Subentra la filiera, cioè un sistema di aziende che fanno capo ad uno o più committenti. Prendiamo il caso dell’auto. Alcuni distretti sono nati servendo clienti italiani; le loro aziende si sono poi irrobustite fornendo anche marche estere, che fossero premium o caratterizzate dai grandissimi volumi. Imprese che alla loro nascita non sarebbero state in grado di aggredire un mercato globale ma che, lavorando per imprese più grandi, sono arrivate indirettamente su quei mercati grazie al componente che sta dentro alla vettura. Una relazione positiva per entrambi: il capo filiera risparmia gli investimenti, che sono a carico dei fornitori, e ne incorpora la capacità di innovazione e la flessibilità. I fornitori, grazie all’appartenenza alla filiera, accedono a mercati, a cambiamenti tecnologici e organizzativi, vengono esposti a stimoli positivi che lavorando in maniera autonoma non avrebbero percepito. La filiera è un modello di grande successo: Intesa Sanpaolo, grazie ai rapporti con i capi delle filiere, non solo finanzia le imprese che ne fanno parte, ma anticipa ai fornitori il pagamento delle fatture verso il capo filiera».

∞ La filiera, insomma, è un modo per garantire una finestra internazionale al nostro sistema. Lunga vita ai capi filiera.

«Talvolta il capo filiera non è italiano, basti pensare ad alcuni nomi del luxury. Prendiamo il caso di Lvmh, che controlla numerosi brand tra i più noti al mondo, molti dei quali sono italiani. È un gruppo che in Italia ha acquisito diversi marchi prestigiosi e li gestisce bene, anche grazie alla forza competitiva che è rappresentata da fornitori di altissimo livello qualitativo. Un fatto positivo, ma per quale motivo, avendo generato tanti marchi di successo in quel settore, non siamo stati capaci di sviluppare un numero adeguato di grandi capi filiera, come ha saputo fare Luxottica e, in altro settore, Ferrero? A mio avviso, è anche un problema di sistema, che affonda le radici nella storia. Il nostro capitalismo è nato più di un secolo dopo quello francese, o belga, per non parlare di quello inglese. Ha avuto meno tempo per costituire e irrobustire grandi protagonisti del mercato finanziario. Ancora oggi da noi il mercato dei capitali, soprattutto equity, non ha la larghezza, la profondità, la liquidità, la ricchezza di specializzazioni e di ruoli che costituiscono il terreno di coltura sul quale più facilmente crescono grandi e rigogliosi capi filiera. Ma stiamo colmando il divario, anche grazie a imprese capaci di affrontare mercati i globali. Un esempio: Brembo. È un’ottima azienda cresciuta in un ramo della componentistica da cui ora si sta allargando, con obiettivi strategici più ambiziosi, anche per non essere confinata nella tecnologia automotive termica. Cresce con investimenti, acquisizioni o alleanze, per esser protagonista anche in futuro, nonostante il fatto di vivere in un paese non ancora sufficientemente sviluppato nella raccolta di capitali di rischio».

∞ Si ha l’impressione di un quadro in rapida evoluzione difficile da inquadrare in uno schema rigido.

 «Spesso la possibilità di creare gruppi nel luxury viene colta da operatori esteri senza dover comprare l’azienda italiana, ma semplicemente facendola lavorare per proprio conto. Non meno importante è il tema della scelta della sede legale. Non è sempre per motivi fiscali che operatori italiani spostano la loro sede all’estero, dal momento che spesso lasciano in Italia la sede fiscale: più importante è la scelta di un ordinamento giuridico dinamico e più favorevole alle nuove iniziative. È il fenomeno dell’arbitraggio regolamentare: l’impresa si sposta dove i regolamenti sono meno farraginosi, comportano tempi e costi minori e prevedibili per gli adempimenti. Se il successo è legato all’innovazione, l’immobilismo come conseguenza delle lentezze burocratiche è una condizione da rifuggire. Non a caso la riforma della pubblica amministrazione è una delle richieste che il Next Generation EU pone come condizione per erogare i fondi all’Italia».

∞ Ma a cosa si deve questo vizio italico?

«E’ un atteggiamento sbagliato che dobbiamo superare. Di fronte al cambiamento, anziché l’opportunità spesso tendiamo a vedere la minaccia, alla quale contrapponiamo limiti ed adempimenti che vorrebbero costituire delle garanzie, ma il cui effetto principale è quello di rallentare od impedire il cambiamento. Lo si vede anche da come vengono recepite le norme europee nell’ordinamento italiano: più rigide ed ingessate nella versione di casa nostra, rispetto agli altri paesi dell’Unione. In più, fatte le leggi, non seguono prontamente i decreti attuativi. Fatte le norme, a fronte dei conseguenti atti operativi si moltiplicano i ricorsi ai Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte dei Conti. E le aziende dinamiche si spostano».

∞ Andrà sempre così?

«Il cambiamento climatico è un forte stimolo a cambiare atteggiamento. Bisogna fare qualcosa e farlo presto, perché è peggio di una pandemia, visto che per questo non esiste vaccino!».

∞ Sul banco degli imputati mancano le banche.

«Voglio spezzare una lancia a favore del sistema bancario e del suo comportamento durante la crisi del 2008-2011. Mi sento di farlo, dato allora non ero banchiere. La realtà è che alcuni istituti hanno concesso credito alla clientela d’impresa più per la stima dell’imprenditore che per un’effettiva valutazione del business. Si è fatto credito in modo incauto, il più delle volte in buona fede. Da allora le banche sono cambiate molto, sono più robuste e hanno imparato a gestire meglio il credito. Vale un principio spesso non abbastanza considerato: la banca, per garantire i suoi depositanti, deve coprire eventuali perdite esclusivamente con capitale proprio.  Perciò deve mantenere costante il rapporto tra credito erogato e capitale proprio. Se una banca, che eroga impieghi per 100 a fronte di un capitale di 10, subisce una perdita di 1, o esegue subito un aumento di capitale per compensare la perdita di 1, oppure deve ridurre il credito erogato nella medesima proporzione, cioè, in presenza di quel rapporto, deve ridurlo da 100 a 90.  Quel rapporto di capitalizzazione significa che ogni euro non restituito alla banca produce una riduzione di fidi moltiplicata per 10. Di qui una prudenza che si è andata consolidando in questi anni. Le banche hanno rafforzato la loro consistenza patrimoniale, il rapporto tra credito erogato e capitale proprio è sceso, ed è ben al di sotto di 10. Sono pronte, perciò, a far fronte al manifestarsi di crediti deteriorati che si potrà manifestarsi dopo la pandemia, quando si esauriranno i ristori e le moratorie».

∞ Davvero?

«Sì, quasi tutte le banche hanno già accantonato. Non avremo sorprese, le perdite previste sono già state assorbite nei conti».

∞ Ma si porrà il problema di chi aiutare e di chi lasciar andare a fondo. O no?

«Una delle ultime uscite pubbliche di Draghi come presidente G30 riguardava la distinzione tra debito buono e debito cattivo. Il primo permette allo Stato di soccorrere, tenere in piedi le imprese valide, cioè quelle che potranno riprendere a produrre anche più di prima, magari recuperando gli ordini inevasi. Ci sono poi le imprese dei servizi, in particolare il turismo o la ristorazione, che soffriranno di più, perché non potranno ricuperare i ricavi persi durante le chiusure. Poi ci sono quelle non valide, o che operano in settori che non hanno futuro. E qui le scelte vanno fatte una per una, valutando tutti i fattori, dalle competenze del personale e dell’organizzazione, alle potenzialità di mercato. Sotto questo profilo il compito delle banche è importantissimo. Solo loro possono convogliare liquidità verso le imprese che hanno futuro, e hanno le conoscenze per farlo. Senza dimenticare un altro dato non meno rilevante».

∞ Quale?

«L’economia non sarà più quella di prima ma dovrà tener conto dell’ambiente: di qui l’importanza dell’economia circolare, della tutela delle acque, dell’uso dei materiali. Ci sono immense risorse di capitali male utilizzati che possono sopportare un maggior rischio. Non parlo del credito bancario, che non deve partecipare ai rischi di impresa. Ma le banche possono convogliare i capitali di rischio dei privati offrendo alle imprese finanziamenti, non solo crediti. E nel frattempo garantire al risparmiatore investimenti più redditizi del deposito in conto corrente. È uno dei compiti importanti delle banche in questo periodo, perché l’investitore singolo non è attrezzato per affrontare investimenti di questo tipo. Occorrono veicoli finanziari specializzati, in cui il singolo risparmiatore può investire secondo le proprie risorse, ma, insieme a tanti altri che investono poco, arrivare a costituire la capacità operativa che porta a rendimenti elevati. In Italia c’è bisogno di moltiplicare il numero, le tipologie, le specializzazioni di questo tipo di operatori, analogamente a quanto si fa in altri paesi. E le banche possono e debbono fare molto per far nascere e crescere tali veicoli».

∞ È ottimista? Come vede il dopo Draghi?

«Mi auguro che non ci dobbiamo pensare adesso perché Draghi sta facendo molto bene. È riuscito a mettere in atto un metodo alto di gestione della politica, nel quale gli interessi collettivi hanno la priorità sulle pur importanti differenze di sensibilità politica. In questa chiave occorre che ciascuno si assuma le sue responsabilità: non solo chi governa, ma anche chi orienta l’opinione pubblica. Quando si critica un governo, si dimentica spesso che in democrazia un governo deve fare ciò che vuole il popolo. Perciò è importante che la popolazione sia bene informata e messa nella posizione di comprendere i reali interessi in gioco, immediati e di lungo termine. Le differenze di interesse e di opinione sono nelle cose, ma non debbono condurre a immobilismi o contrapposizioni sterili. Altrimenti anche la democrazia rischierebbe di apparire poco efficace, o addirittura un bene meno prezioso».

∞ Un’ultima cosa: nostalgia della vecchia Fiat?

«E perché? La Fiat, grazie a Sergio Marchionne, intravvide con grande anticipo l’assoluta necessità di andare oltre i confini nazionali. Cosa che fece con successo, acquistando Chrysler, salvandola dal fallimento e facendone un punto di forza della sua gamma di offerta e dei suoi mercati di sbocco. Ora che c’è la grande corsa verso l’elettrico, ci si rende conto che le competenze, i costi e l’impegno per passare dal termico all’elettrico, travalicano le risorse di un singolo paese. FCA aveva fatto un grande passo, ma da solo non bastava. Ora Stellantis è uno dei grandi mondiali. Ecco, questo è ciò che si deve fare».