È la Cina che continua a crescere nell’arte a dispetto dei licenziamenti causa Covid che hanno colpito, più o meno in tutto il mondo, i musei e le istituzioni culturali. In particolare, quattro dei principali musei del Dragone hanno recentemente annunciato rilevanti nomine occidentali che molti hanno subito bollato come «uomini bianchi con minima esperienza in Asia, di cui tre lavorano in remoto dall'estero».

Il nuovo museo privato progettato da Renzo Piano sostenuto dal marchio di moda JNBY e dal suo fondatore Li Lin apre alla fine di quest'anno sotto la direzione remota del super-curatore nostrano con d’istanza negli Stati Uniti, Francesco Bonami, supportato da un assistente alla regia locale, Wu Tian. Il tanto atteso mega-museo di cultura visiva di Hong Kong, M+, ha nominato l'ex editore di Art in America, William Smith a capo dei contenuti digitali ed editoriali. L'UCCA Center for Contemporary Art, con sedi a Pechino, Shanghai e Qinhuangdao, ha creato il posto di curatore generale per Peter Eleey, che si è dimesso dal MoMA PS1 di New York lo scorso autunno. E Shai Baitel, il co-fondatore israeliano dei locali Mana Contemporary negli Stati Uniti, è entrato a far parte del Modern Art Museum (MAM) Shanghai come direttore artistico inaugurale dopo aver curato la sua mostra Bob Dylan del 2019.

Come sottolinea anche The Art Newspaper, «i curatori cinesi e gli operatori dei musei si sentono incapaci di criticare pubblicamente la pratica, per timore di essere inseriti nella lista nera di stato, ma c'è una diffusa frustrazione. "Secondo me, la Cina manca di autostima culturale, specialmente quando si tratta di [arte contemporanea]", dice un art manager di formazione occidentale, parlando in modo anonimo. "Poiché le regole del gioco sono state stabilite dal mondo occidentale, la Cina non ha avuto questo tipo di istituzione culturale fino al secolo scorso". Sottolineano, tuttavia, che il problema non è limitato all'industria museale cinese. "È lo stesso in Occidente: la maggior parte del personale che lavora nei musei è di sesso femminile, ma i direttori sono uomini anglosassoni bianchi". Sebbene il ritmo di assunzioni occidentali sia aumentato notevolmente, la pratica di importare prestanome maschi bianchi per guidare i musei asiatici non è nuova. Il curatore spagnolo Bartomeu Marí è diventato il direttore del Museo di Arte Moderna e Contemporanea della Corea del Sud nel 2015 (fino al 2018) nonostante le controversie su uno scandalo di censura nel suo precedente ruolo al Macba di Barcellona. Il cittadino francese Larys Frogier gestisce il Rockbund Art Museum di Shanghai dal 2012, mentre l'olandese Ole Bouman è stato direttore fondatore della Design Society di Shenzhen in collaborazione con il Victoria and Albert Museum dal 2015 fino allo scorso anno». Il fenomeno rispecchia, peraltro, la diffusa tendenza a reclutare curatori occidentali affermati, per lo più bianchi e maschi, per dirigere le biennali e le triennali asiatiche, o il predominio degli artisti occidentali nelle mostre dei musei cinesi e nelle vendite all'asta. Con una tendenza paritetica, negli ultimi mesi, Sotheby's ha sostituito i membri senior dello staff asiatico nella sua sala di vendita di Hong Kong con specialisti delle sue sedi di Londra e New York.

Vita da casa

In una svolta determinata dalle restrizioni Covid-19, il boom del telelavoro ha rimosso la tradizionale necessità per un direttore straniero di spostarsi in tutto il mondo e prendere possesso del proprio scranno in loco. «Questo potrebbe essere uno degli aspetti positivi della pandemia: ora sembra del tutto naturale avere membri dello staff con sede in altri continenti», afferma il direttore e amministratore delegato dell'UCCA Philip Tinari, nato a Filadelfia. «È fantastico avere un collega curatore [all'estero] che può vedere cose e incontrare persone che per il momento noi qui non possiamo». Un altro vantaggio dell'aggiunta di Eleey e Roussell al team interno, aggiunge, «è la loro esperienza in musei con una storia più lunga di quella dell'UCCA, cosa che ci consente di acquisire informazioni utili su altri modelli istituzionali».

Al MAM Shanghai, il direttore artistico Baitel continuerà a lavorare in remoto anche dopo che la Cina riaprirà i suoi confini, anche se si prevede che trascorrerà una «notevole quantità di tempo» visitando il paese, afferma il direttore del museo Derek Yu. La nomina di Baitel si allinea con la «prospettiva internazionale» del MAM e «la missione di agire come un ponte culturale tra la Cina e il resto del mondo», afferma Yu, aggiungendo che Baitel «è stato invitato a fornire nuove prospettive ed essere provocatorio e stimolante rispetto al nostro programma espositivo».

Soffitto di bambù

Ma mentre le istituzioni occidentali devono fare i conti con la discriminazione e tematiche di genere ai loro livelli più elevati, lo stereotipo dell'autorità professionale come bianco e maschio domina ancora largamente in Cina.

Come ripete Lisa Movius su The Art Newspaper «ci sono molti casi di curatori asiatici che hanno carriere giramondo al di fuori del continente. Che ci siano solo una manciata di eccezioni di alto profilo - come Hou Hanru, direttore artistico del MaXXI a Roma, e Wu Hung, professore dell'Università di Chicago - può essere visto come una prova del cosiddetto "soffitto di bambù", un termine coniato per descrivere la sottorappresentazione delle persone di origine asiatica nei ruoli di senior leadership occidentali. Cosa si può fare per sostenere lo staff dei musei cinesi che sperano di salire di grado? L'attuale raffica di partnership tra musei cinesi e internazionali potrebbe effettivamente far avanzare le prospettive di carriera per i talenti locali, si sostiene in Cina, «formando le persone e utilizzando un modello di apprendistato». Un migliore riconoscimento e una retribuzione per gli assistenti locali ed i curatori emergenti aiuterebbe di certo, contrastando la fuga di cervelli. Lo stesso vale per i programmi che danno visibilità internazionale ai professionisti asiatici, come i post di curatori aggiunti di Tate dedicati alla Cina, sponsorizzati dalla Robert H. N. Ho Family Foundation con sede a Hong Kong». La domanda è tutto questo succederà?

La feroce polemica

Chi non ha dimestichezza con Instagram avrà perso l’occasione di gustarsi, sulla scorta di quanto accaduto con le nomine sopracitate, la polemica dell’anno, che ha coinvolto Francesco Bonami (già direttore artistico della 50^ Biennale di Venezia nel 2003, e Senior Curator al Museum of Contemporary Art di Chicago, nonché direttore onorario della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e una parte della comunità artistica contemporanea. Tutto nasce dall’articolo di Lisa Movius a cui Bonami risponde con la sua ironia pungente, talvolta sardonica, attraverso un video visualizzato da circa 10.000 persone, «l’articolo assume che, per come guardiamo dentro a noi stessi, noi ci sentiamo sempre vecchi maschi occidentali, e questo non è vero: per esempio, nel mio caso io spesso mi sento di essere una lesbica iraniana trentacinquenne, quindi loro non possono sapere come mi sento dentro. […] Come vedete nella foto abbiamo i capelli bianchi, quindi non capisco a cosa l’articolo si riferisca quando parla di bianco. […] L’articolo non prende in considerazione il fatto che in Cina tutte le persone vengono molto onorate, quindi probabilmente loro avvertono che in quanto vecchi curatori necessitiamo di essere onorati e aiutati negli ultimi anni della nostra vita. In tutta l’Asia, la prostata di un trentacinquenne o di un anziano è considerata una specie di oggetto di culto, e in certe culture è anche considerata una prelibatezza culinaria». Questa risposta tutta giocata sui toni dell’ironia e della satira ha ovviamente attirato riflessioni e ribattute. Poco dopo un gruppo di circa quaranta tra artisti e curatori (tra i quali spiccano i nomi di Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia all’ultima Biennale di Venezia, dell’artista Paulina Orlowska, del curatore Matteo Lucchetti della Fondazione Pistoletto, della critica e storica dell’arte Stella Bottai) ha pubblicato contro Bonami una dura lettera aperta. «Dobbiamo presumere, che annunciando la sua identità non binaria egli si stia effettivamente dimettendo dal suo attuale incarico a Hangzhou, dato che non potrebbe ricoprire un ruolo di così alto profilo pubblico in Cina come giovane donna trans iraniana. Ovviamente no. È un maschio cis bianco fino all’osso. Per Bonami, l’identità di genere sembra essere un cappello da festa usa e getta, senza traumi annessi. Non sembra preoccuparsi dell’esperienza di vita reale di discriminazione e omofobia subita da molti, né che l’omosessualità in Iran sia illegale e punita con la reclusione e persino l’esecuzione». La lettera accusa il curatore poi di superficialità: «Se Bonami si fosse davvero preso la briga di leggere l’articolo completo di Lisa Movius, avrebbe saputo che il punto di questo servizio giornalistico è quello di criticare la mancanza di impegno a livello nazionale cinese per favorire migliori opportunità di lavoro e percorsi di sviluppo per i professionisti cinesi. Viene da chiedersi perché questo sembri così sbagliato al signor Bonami – così sbagliato da meritarsi una presa in giro pubblica. Indipendentemente dal potere e dalla fama che si è guadagnato, Bonami si sente insicuro e minacciato dal cambiamento sociale e dalle giovani generazioni al punto di scagliarsi contro di questi nella sfera pubblica. Ha mai pensato a come il proprio lavoro si sarebbe sviluppato in modo molto diverso se tutte le opportunità professionali che ha ricevuto in Italia in passato gli fossero state negate, e invece riservate a professionisti stranieri invitati a mostrare al Paese ‘come si fa’”? Bonami appartiene a una generazione di leader culturali con ampio potere, budget e influenza che stanno plasmando il presente e il futuro per le istituzioni e gli artisti globali. Quindi, quando lo sentiamo parlare in questo modo, ci sentiamo emotivamente scossi, proviamo panico e rabbia. Lo scopo di questa lettera è invitare il signor Bonami a smettere di incitare punti di vista che considerano tematiche di genere e razziali, nonché la decolonizzazione, come questioni ridicole. È offensivo e pericoloso per altri cittadini in posizioni meno privilegiate della sua. Per favore, mostri empatia. È devastante vedere qualcuno che presumibilmente ha tutti gli strumenti intellettuali e il cui lavoro dovrebbe essere intrinsecamente connesso a coltivare l’immaginazione e la libertà, scegliere attivamente di influenzare l’opinione pubblica nella direzione di idee retrograde che alimentano e amplificano la nostra società, già molto polarizzata. Per favore, signor Bonami, smetta di sfogarsi e lasci vivere gli altri».

Il senso di tutto questo

Qual è il vero senso di questo fenomeno e dell’annessa polemica? È indubbio come ancora oggi il pensiero critico visuale dominante sia quello Occidentale, tra gli Stati Uniti, Londra e parte dell’Europa. La Cina, come d’altronde anche il quadrante arabo, stanno destinando grandi investimenti in arte, essenzialmente verso artisti ed autori Occidentali, penalizzando, ad oggi, il mercato domestico. È qualcosa che accade anche per la moda, o per l’automotive, e che, invece, ha smesso di accadere per le nuove tecnologie. Non possiamo sapere se questo avrà un termine e quando: l’espansione dell’industria culturale segue regole analoghe a quelle di altri settori, ma, come diceva Pierre Courzi ne Le Invasioni Barbariche «l’intelligenza non è una caratteristica individuale. È un fenomeno collettivo, nazionale e intermittente». Quindi immaginare un punto di svolta nel consumo di arte cinese “contro” (si fa per dire) quella Occidentale, è difficile se non impossibile. Da questo deriva anche la tendenza ad assumere mega-direttori Occidentali, oggi governano il pensiero contemporaneo. Inoltre, è difficile comprendere la strategia di Pechino e l’eventuale desiderio dello Stato Centrale di crescere realmente una generazione libera di curatori indipendenti cinesi. Si sa, un europeo od un americano lo puoi licenziare con una mail ed un assegno; più difficile con un cinese che cresce internamente e muove le coscienze dal di dentro. Quello che è certo è che oggi la Cina compra spesso cultura dall’Occidente, e sarà interessante capire quanto questo fenomeno durerà e come si modificherà. E quindi, appuntamento alla prossima analisi e alla prossima polemica dell’anno.