Da piccola azienda a conduzione familiare a multinazionale globale, sulla base di una convinzione ben radicata fin dalle origini: «Abbiamo sempre creduto che fosse necessario confrontarci con il mercato globale. Se ti limiti ad agire sul fronte interno ti condanni a dipendere dall’andamento di un solo mercato, condizionato da vari fattori di breve respiro. Se invece raggiungi una dimensione globale puoi contare su più stabilità nello sviluppo dell’azienda».
È con questa filosofia che i fratelli Tadolini, Giorgio e Marco, figli di Corrado che, anno 1957, ebbe l’dea di sviluppare una serie di cinghie di gomma nel retro del negozio di Mathi, nel cuore del Canavese, sono partiti alla conquista dell’economia mondo, sia verso che Ovest che, ancor di più, verso la Cina dove il gruppo Megadyne è approdato nel 1993, all’inizio del decollo del Drago, dieci anni prima dell’ingresso del Celeste Impero nel WTO, trampolino di lancio di quel decollo che Giorgio Tadolini ha in pratica seguito in diretta. Con l’umiltà e la voglia di capire di un novello Marco Polo, piuttosto che con la presunzione di dettare ricette con il metro di giudizio occidentale. Per questo la sua testimonianza è preziosa: «Non puoi – ammonisce - andare in Cina con la mentalità italiana. Devi imparare a ragionare in maniera diversa, come ragiona un cinese. Altrimenti le barriere culturali sono assolutamente insuperabili». Una lezione sul campo, insomma, appresa in più di trent’anni di esperienza in cui Megadyne, dal dicembre 2018 unita in Ammega con Ammeraal Bellech, ha saputo diventare uno dei leader mondiali nelle cinghie e nei sistemi di trasmissione che trovano applicazione in molti settori industriali.
∞ In origine la vostra era una piccola azienda di dimensioni domestiche, con un fatturato al 90 per cento in Italia. Eppure, vi siete spinti sia verso Ovest. Facendo rotta verso gli Stati Uniti che verso la Cina, 8 mila chilometri ad Est rispetto al Canavese. E forse qualcuno in più in termini di cultura.
La nostra è stata fin da subito un’esperienza positiva: la Cina ha avuto un ruolo molto, molto importante nel nostro sviluppo, sia in termini di fatturato che di sviluppo della cultura aziendale. Quando si esce dal recinto domestico si ha a che fare con culture molto diverse a partire dai rapporti con il personale ma anche con l’ambiente circostante: quando entri nell’economia mondo devi esser pronto a cambiare, ad essere flessibile.
∞ La flessibilità è senz’altro una virtù. Ma si può passare sopra a differenze profonde anche sul piano dei valori?
Da industriali amo ragionare con uno spirito pratico: ci sono questioni basilari che vengono prima delle differenze ideologiche, politiche o di schieramento. La prima esigenza, quella davvero basilare, è quella di dar da mangiare alla gente, perché finché la gente non ha niente da mettere in pancia non ha senso parlare di diritti fondamentali. Anzi, il primo diritto fondamentale è di aver la pancia piena. È l’angolazione da cui mi permetto di guardare con un certo disincanto le critiche che si fanno sull’eccessivo accentramento, sulla mancanza di libertà individuale, di autoritarismo.
∞ Non è così?
La mia esperienza va in senso contrario. Sono in Cina dal ‘93 prima con un’attività commerciale, poi con le nostre fabbriche. Noi ci occupiamo di trasmissioni facciamo cinghie di trasmissione e nastri trasportatori. All’epoca il nostro prodotto era considerato alta tecnologia, ed abbiamo avuto subito una risposta importante dal mercato. Ad oggi abbiamo quattro stabilimenti in Cina in cui occupiamo 1.500 persone, più una serie di uffici in tutto il Paese. Proviamo a rispondere alla domanda iniziale: che cos’è la Cina?
∞ Già, che cos’è per un industriale di casa nostra?
È un miliardo e mezzo di persone che fino a ieri hanno vissuto in condizioni molto precarie, come oggi capita ancora in diverse regioni, ma sono state capaci di uscir fuori dalla miseria grazie ad una capacità produttiva straordinaria. Ma non solo: i cinesi, grazie ad una cultura millenaria, sono soprattutto straordinari commercianti. Qualsiasi cosa si tratti di vendere, loro ne sono capaci. È la loro qualità principale. Quasi all’opposto dell’India.
∞ Ovvero? Meglio l’India o la Cina per fare business?
Gli Indiani, invece, sono molto intelligenti ma quando si svegliano al mattino guardano l’immagine di Shiva e chiedono: fammi morire e rinascere in un’altra casta. Il cinese accanto al comodino ha una foto di un dollaro e chiede all’immagine: fai che ne abbia tanti. Il cinese è estremamente aggressivo rispetto al benessere. Anche le regole del governo rispondono all’esigenza di raggiungere risultati nel minor tempo possibile.
∞ Senza andare per il sottile, forse…
È un sistema autoritario? Senz’altro Sì. Dittatoriale? No! In vent’anni di attività in Cina, rispettando regole, tra l’altro normalissime, non abbiamo mai avuto condizionamenti o pressioni. Tutto è sempre andato in maniera lineare. Ma il rispetto delle regole è fondamentale. Faccio l’esempio della riduzione delle emissioni. Il primo provvedimento in tal senso data all’inizio degli anni Duemila (2007/08). Non ci hanno invitato a ridurre, ma ci hanno detto entro un anno e mezzo dovete adeguarvi a questi parametri, senza discussioni. Se fate così bene, altrimenti chiudete. Dopo un anno e mezzo sono venuti a controllare. Noi eravamo in regola e ci hanno detto bravi. Altri no e li hanno fatti chiudere il mattino dopo. Loro hanno molta attenzione alla collettività.
∞ Il modello presenta numerosi puti critici, però. A partire dalla bolla immobiliare. O no?
“Anche in questo caso occorre partire dalla dimensione dei problemi e dalla loro soluzione. Lo Stato ha avviato una gigantesca revisione dello stato delle città e delle infrastrutture che non riguarda solo Pechino o Shanghai ma tante medie metropoli, cosa che in Cina vuol dire dieci milioni di abitanti. Hanno spostato interi quartieri, bonificato aree enormi, messo in piedi piani di trasformazione delle città che hanno coinvolto le popolazioni: se il piano prevede che entro tre anni il quartiere venga bonificato. vuol dire che la gente spostata oggi, tra tre anni rientrerà nello stesso posto. Non è una speculazione a vantaggio dei più abbienti con intenti speculativi.
E sono certo che sarà questo lo spirito per intervenire nelle crisi di cui si parla. Le banche straniere si leccheranno le ferite e ci i saranno problemi per la finanza internazionale, ma non ne vedo per la stabilità del Paese. Non è un mercato saturo, hanno almeno 400 milioni di persone da sistemare da campagna a città, come è avvenuto in Italia.
∞ In questi anni è cresciuta l’aggressività cinese. Pensiamo all’Africa.
E che lezione possiamo impartire noi occidentali? In Africa cii siamo stati per cento anni ma non l’abbiamo fatta crescere. I cinesi si prenderanno le risorse per carità, ma lasceranno qualcosa, cioè il frutto di anni di investimenti e di infrastrutture. Mi parlate di democrazia? È ben poca cosa quando hai la pancia vuota: la gente quando non mangia diventa molto aggressiva.
∞ Insomma, molte più luci che ombre, per un bilancio positivo. È così?
Vista con la mia esperienza la Cina è una storia molto positiva di crescita e di benessere. Ma dirò di più: la Cina è il baricentro di una regione, il Far East, che è da decenni sotto l’influenza del commercio cinese, dalla Malesia alla Tailandia all’Indonesia. La presenza dei cinesi è un po’ simile a quel che hanno fatto con i ristoranti da noi; ne arriva uno apre un posto, poi ne apre un secondo, arriva il resto della famiglia e così via. Oltre alla necessità di sviluppo interno, perché almeno il 40 per cento del Paese ha bisogno di infrastrutture, ci sono quelle legate ai mercati limitrofi, un bacino da 1,2 miliardi di persone. Da una decina d’anni va avanti la penetrazione in questa area cosa che compensa l’aumento dei costi di produzione interni con la delocalizzazione, parlo anche di Vietnam.
∞ Ma per il salto di qualità manca la libertà politica con quel che ne segue. Le immagini da Hong Kong non sono un bello spettacolo. Soprattutto per chi s’era illuso che, dopo l’uscita dalla povertà, la Cina potesse conquistare una certa libertà. O no?
Il passaggio da paese povero a ricco è già avvenuto, se pensiamo al finanziamento del debito di tanti Paesi, compresi gli Stati Uniti. Ma quello cinese non vuole essere un capitalismo senza regole proprie. Se partiamo dal concetto di capitalismo inteso come libertà economica assoluta, Loro hanno ancora un concetto del popolo, della loro popolazione e dei loro cittadini che devono arrivare ad una soglia di benessere garantito. Le diseguaglianze? Noi vediamo le proteste di Hong Kong, le proteste delle minoranze ma stiamo parlando di migliaia di persone… ma di che stiamo parlando? Girate per le strade di Shanghai o di Qingdao, la gente è assolutamente tranquilla, non ho mai visto nel corso delle mie visite una qualche manifestazione di disagio o di protesta per i temi che appassionano i media occidentali. È quanto emerge quando si parla con i locali, non sono imprenditori, ma anche tra la gente comune. di protesta. Ad Hong Kong, dove ho molti amici, anzi c’è un certo fastidio per i danni gli intralci all’attività economica.
∞ Insomma, la Cina gode di buona salute.
Hanno le loro difficoltà di fronte alla pandemia e alle sue conseguenze. Compresi i nodi della logistica. Ma non mi sembra in discussione il fatto che, tempo cinque anni, l’economia cinese supererà quella degli Stati Uniti. Ed è un dato di fatto che dà fastidio. La ricerca di barriere verso la Cina d’usare come oggetto di una trattativa per ottenere compensazioni fa parte della politica Usa da almeno tre amministrazioni. Ma sono stati gli Americani che, nella logica del profitto, hanno investito massicciamente, messo su fabbriche d’avanguardia, spinto i ragazzi a studiare nelle università Usa. Adesso abbiamo paura dei cinesi perché sono cresciuti troppo. Ma mi ricordo quando si vendevano le prime catene di trasmissione a 2.000 dollari l’una mentre ne valevano 80. Oggi sono loro che vendono a 50 dollari. Ma potevamo pensare che loro, una volta dotati di tecnologia continuassero a lavorare per fare ricchi noi?
∞ Dalla analisi emerge che la democrazia non è fatta per i cinesi. O no?
Certo, la Cina non è una democrazia elettiva. Ma è un terreno minato che richiede molta prudenza. Pensate alla primavera araba? Cosa ha portato? Destabilizzazione, guerre, nuove dittature. Ci vuole tempo. La Cina deve essere tenuta sotto controllo per almeno un decennio sennò gli squilibri potrebbero compromettere lo sviluppo civile, oltre che economico. I Paesi prima devono crescere prima di potersi permettere il lusso della democrazia. Prima, come ho già detto, dobbiamo riempire le pance. Per questo non mi preoccupo dell’autoritarismo cinese che, comunque, rivela sotto molti aspetti una certa sensibilità sociale.
∞ Ad esempio?
Prendiamo il sindacato. Non è vero che il padrone lì ha mano libera. C’è una rappresentanza anche politica dei lavoratori che è attenta, ma soprattutto c’è l’attenzione del governo. Io non posso lasciare a casa gli operai: devo pagarli, devo trovare soluzioni senno finisco sotto processo. E non dopo manifestazioni di protesta, bensì perché c’è una regola da seguire. Ma sono cose che non si sanno in giro dalle nostre parti. Non si sa che lo Stato protegge i dipendenti a livello legislativo e non puoi fare quello che vuoi. Da noi leggiamo di delocalizzazioni decise dalle aziende. Là devi passare da un’autorità. Noi volevamo delocalizzare da una provincia ad un’altra, ci hanno detto di no. È un esempio di informazione magari esatta nei singoli episodi ma che finisce con il fornire un quadro complessivamente distorto e un’idea sbagliata delle opinioni della gente.
∞ Anche sui fatti di Tien An Men?
Ufficialmente no se ne può parlare ma in questi anni ho avito tante occasioni per parlarne con colleghi, dipendenti e tan0ta altra gente incontrata in tante occasioni. Ebbene, diciamo che 50 persone non ce n’è stata una che abbia contestato la repressione che pure è costata, pare, almeno 40 mila morti. Ma se non ci fosse stata, mi hanno detto tutti, saremmo precipitati nel caos. Ecco dobbiamo essere così equilibrati da chiederci; la democrazia, che prezzo ha? Viene prima di tutto o c’è dell’altro? Dove si ferma la libertà individuale?
∞ La sua è una voce contro il ritorno della Guerra Fredda. Ma è inevitabile oppure no?
Ci stiamo avviando ad un confronto molto delicato ed incerto perché con la Cina si è schierata la Russia e molti Paesi sono in bilico. Per il momento vedo più aggressività da Ovest. Pensi ai sommergibili americani venduti all’Australia in funzione anticinese in un’area sensibile per la difesa di Pechino. Come reagirebbe Washington se il Brasile o il Messico si dotassero di armi anti-Usa? Io credo, da spirito pratico, che bisogna accettare la competizione e mettersi in grado di affrontarla e vincere, senza far crescere nuove barriere. Non vedo un pericolo cinese se non andiamo a stuzzicarli: non è il caso di svegliare il gigante che dorme perché la Cina non rinuncerà alla sua area do influenza, come gli Usa ai tempi della crisi di Cuba.
E nel frattempo? Voi di Megadyne Tirate i remi in barca in attesa di tempi più sereni oppure insistete sulla via di Marco Polo?
Non vedo l’ora di rimettermi a viaggiare e di tornare in Cina. Le nostre proiezioni ci dicono che il mercato salirà a doppia cifra, un po’ in tutti i settori, dolciario e trasporti in testa. E sì, noi ci saremo.