Intorno al 500 a.C., sulla costa ionica, nel silenzio di una campagna nella quale echeggiava solo il rumore delle onde morenti sulla battigia, mentre uccelli marittimi, tracciando strane traiettorie nell’azzurro del cielo, indicavano oscuri segni del destino, due giovani filosofi potevano facilmente pensare che l’infinito, ambiguo termine messo in circolazione dagli scritti di Anassimandro, fosse un temibile tropo speculativo, inadeguato alla perfezione del numero, in sé compiuto e finito, non soggetto, cioè, a continua metamorfosi e mutamento. Era più semplice e proficuo per loro pensare la perfezione del numero e della cosa determinata di contro all’ineffabilità, potremmo dire l’incommensurabilità, di ciò che è senza fine, nel tempo e nello spazio, per l’appunto, l’infinito. Il mondo era quel che si dava nell’armonia della misura di un pensiero in cui il senso dell’esistente si esauriva nei limiti dell’orizzonte. Nei successivi duemila e cinquecento anni, il concetto d’infinito non ha mai smesso di trasformarsi divenendo, di volta in volta, l’indice di principi primi e ultimi, emblema dell’assoluto e di Dio, del progresso e dell’espansione dell’universo, concetto astronomico e matematico. Infiniti sono stati i significati della parola infinito. Impossibile elencarli tutti, se non forse per mezzo di un labirinto di libri la cui trama è pari alla storia della civiltà, quella umana, nelle sue molte sfaccettature; labirinto in cui solo uno tra i più grandi scrittori del Novecento, Jorge Luis Borges, ha avuto l’ardire d’inoltrarsi. Non possedendo le doti del cieco veggente, limitiamoci a una sola domanda: cos’è infinito per noi, oggi, nel momento di massima espansione e superamento dei confini umani, in un mondo globalizzato, nel quale le frontiere, i famosi perimetri e orizzonti dei due filosofi di scuola pitagorica sono continuamente oltrepassati per mezzo della tecnologia? Cosa ci fa sentire, oggi, il timore e il tremore perqualcosa d’incommensurabile e cioè non prevedibile e non calcolabile e, quindi, anche, non sicuro e non assicurabile, quando questo ospite inatteso irrompe nelle nostre esistenze, nelle quali tutto vorremmo sottoposto a un controllo totale teso a generare beneficio certo, felicità costante e utili economici in progressiva e non reversibile crescita? Credo che la sola risposta possibile sia che, oggi come in altre epoche del mondo, l’infinito possa essere colto solo in quei luoghi, in quelle pratiche, in quei momenti che si rivelano inutili, esposti all’estrema incertezza, non prevedibili e non soggetti a calcolo. Questi spazi, in cui la necessità degli eventi diviene destino, sono l’arte, la parola poetica, l’amore, l’amicizia, l’esperienza della trascendenza. Topoi dell’esistenza umana che ci sottraggono ai confini angusti dell’io per aprirci alla dimensione dell’altro, di ciò che va oltre noi. Lo sapeva Rimbaud, quando scriveva “io è un altro”; lo sapeva Freud, quando chiosava, nella sua apparentemente inversa, wo Es war, soll Ich werden (dov’era Es, deve diventare Io); lo sapevano i mistici, descrivendo le proprie estasi; ma lo sa anche ognuno di noi quando sente uscire delle proprie labbra la frase “ti amo”, riponendo così l’intero senso della propria vita nel cuore e nelle mani di un altro. In ciascuna di queste sfere, in ognuno di questi momenti, in cui il tempo è sospeso dall’eternità (non una durata infinita, ma una cesura nel fluire delle ore), noi accediamo, in un slancio che ci trascina fuori di noi, a una dimensione altra, nella quale la vita assume finalmente un senso ben più vasto e complesso di quello che i nostri pensieri e i nostri calcoli avrebbero mai potuto immaginare. L’infinito è forse oggi il luogo - remotissimo, raro e abscondito - di una salvezza possibile. Se questo luogo sia altrove o sia sepolto nel più profondo dell’anima, non è dato sapere. E nemmeno certo è che si sia in grado di afferrarlo, l’infinito, quando, per brevi istanti, balenerà davanti ai nostri occhi. Possiamo solo affidarci all’incerta attesa di una visione e di un ascolto attenti a segni rivelatori. Forse l’unico indizio sarà l’indubitabile bellezza di quel momento, la comprensione che qualcosa di irripetibile sta accadendo e che quell’apparizione era destinata proprio a noi. Nell’esperienza di quella bellezza, improvvisa e imprevedibile, noi attingeremo l’infinito, divenendo forse, per un breve istante, a nostra volta infiniti.

Immagine di apertura: Gianni Caravaggio, Immagine seme, 2010, marmo nero del Belgio, polvere d'intonaco, 143,5x148,7x2,5cm Courtesy Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris