Jony Ive, da dove vieni?
Jony Ive è un fottuto genio. Questa è la frase più frequente che ha attraversato le aule studio della Walton High School dove Jony ha studiato, le sale riunioni della Roberts Weaver Group (RWG) dove ha iniziato ad esplorare le sue capacità in seguito ad una borsa di studio (l’unica che la RWG avesse mai concesso, ad un sedicenne oltretutto!), i corridoi di Apple dove il Rinascimento semplicemente si manifestò, senza esitazioni. Jony Ive è inglese di Chingford, un sobborgo a nord-est di Londra, anche se dopo dodici anni la famiglia di fatto si trasferì a Stafford nelle West Midlands, figlio di Mike Ive, professore di artigianato diventato poi “ispettore di Sua Maestà” (un controllore di alto rango circa la qualità dell’insegnamento offerta dai suoi colleghi professori), nonché uno degli artefici dell’inserimento di Design Industriale nei programmi scolastici inglesi, ha studiato Product Design al Politecnico di Newcastle, è stato il più precoce designer che si ricordi e guidava una FIAT 500 che amava chiamare “Mabel”. Jony era anche dislessico, una patologia che condivide con molti altri geni nella storia del pensiero. Mike incoraggiava il figlio ed era solito portarlo nelle scuole e negli studi di design per Londra: riferendosi a una di quelle visite Jony ricordò che «in quel momento capii che diventare uno scultore su scala industriale avrebbe potuto essere interessante». Di Jony Ive si sanno delle cose, talune leggendarie, come il primo progetto da presentare al secondo anno di high-school (che poi gli valse la borsa di studio alla RWG). Scelse di produrre un retro-proiettore. Jony non sapeva nulla di retro-proiettori, se non che era un oggetto molto comune che stava su tutte le scrivanie dei professori nelle scuole. Progettò un oggetto maneggevole che potesse essere riposto in una valigetta di colore nero opaco con rifiniture verde lime. Era completamente diversa rispetto ai trabiccoli in circolazione, aveva una foggia che nessuno prima aveva pensato di dover destinare ad un oggetto tanto insignificante. Il talento di Jony era già tutto lì da vedere, come la sua ossessione e il suo focus sui dettagli – anni dopo, era il 2014, Jony rilasciò un’intervista a Graydon Carter al Vanity Fair's New Establishment Summit, e parlando di Steve Jobs, ma anche un po’ di sé stesso, disse una cosa tipica di tutti i compulsivi dallo sport all’industria, «essere “focused” non può essere una cosa che ti imponi. Non puoi dire, “hey ok, lunedì sarò focused”. Essere “focused” è un “ogni-minuto dobbiamo parlare di questo perché questo è quello su cui stiamo lavorando”». Ogni ingranaggio di quel retro-proiettore o meccanismo era perfettamente aderente e giuntato, non solo funzionante ma funzionale, magnificamente allineato. Eccolo il focus di Jony Ive. Torniamo a scuola: la sua vita da studente fu perfetta per renderlo quello che sarebbe poi diventato, un Maestro. Se da una parte, dagli anni ’50, in Gran Bretagna si decise di introdurre nell’insegnamento del design il modello del Bauhaus tedesco degli anni Venti, in cui gli studenti avevano il loro “anno propedeutico” e dovevano partire dalle basi senza fare affidamento su conoscenze pregresse, dall’altra questa concezione si sposava perfettamente con il principio minimalista per cui i designer dovrebbero progettare soltanto oggetti realmente necessari. Questa visione tipicamente tedesca ad alto valore aggiunto tecnologico, e forte imprinting minimalista, fu quella che Jony, grazie al percorso scolastico, fece sua. Ed è la stessa che anni dopo sbocciò nei prodotti che tutti noi usiamo quotidianamente.
- Apple sono tuo.
Jony sarebbe entrato in Apple a 25 anni nel 1992, comprandosi una Saab arancione decapottabile per coprire i sessanta chilometri dalla sua modesta casa di San Francisco, in un anonimo edificio a Twin Peaks, a Cupertino, sede dell’azienda; ma la sua vita professionale sarebbe cambiata quattro anni prima, a sua completa insaputa. La Apple non aveva un dipartimento di design industriale interno alla società. Si era sempre basata sul rapporto con la Frog Design di Hartmut Esslinger che aveva catapultato l’azienda di Jobs nell’empireo degli oggetti cult con il suo stile essenziale e con il celebre “Snow white”, il bianco Apple. Ma alla fine degli anni ’80 la megalitica dimensione delle fatture della Frog e la spinta ad avere un dipartimento interno indussero l’azienda di Cupertino a mettersi alla ricerca di un Chief Design Officer. Vennero passati in rassegna i più grandi studi di design del pianeta, da Porsche Design, a società da Tokyo a Berlino, da Londra a Madrid. Nessuno sembrava adatto. Gli emissari di Apple varcarono anche le Alpi, per scendere a Torino da Giorgetto Giugiaro (dopo aver incassato uno spietato “no” dal principe del design italiano, Mario Bellini). La scena fu la tipica espressione dell’Italia industriale: i dirigenti di Apple si aspettavano di trovare un uomo intento a riflettere sulla forma in un ampio ufficio tappezzato da oggetti evocativi, ma quando arrivarono trovano Giorgetto, che nel decennio successivo sarebbe stato riconosciuto come “car designer del secolo”, impartire direttive ai suoi collaboratori impugnando il telefono con una mano, e con l’altra disegnare senza sosta. Anche questo matrimonio non si fece. La soluzione arrivò solo nel 1990 quando Apple trovò un accordo con Bob Brunner di Lunar che per Apple disegnava già molti prodotti. Questo passaggio fu cruciale per Jony, perché Bob Brunner impose a Apple di costruire un dipartimento di design piccolo, indipendente, agile. Una famiglia nella famiglia, che sarebbe vissuta sempre insieme, raccolta, e che avrebbe creato senza soluzione di continuità. Per questo Bob cercò uno spazio isolato, lontano dagli occhi dei grandi direttori, uno stabile in stile coloniale con soffitti di otto metri, al numero 20730 di Valley Green Drive fu la loro casa. Molti dei titolari del “Dream Team” che Brunner mise insieme, come Daniele de Iuliis, sarebbero rimasti molto a lungo e avrebbero costituito la colonna vertebrale della Apple che oggi tutti noi conosciamo. E poi lui, Jony Ive, che quando arrivò nel 1992 tutti stavano aspettando e che avrebbe fatto decollare la squadra. Dal 1992 al 1995 Jony venne impiegato da Brunner in una serie di progetti tra cui il Mac B&O, chiamato così per la somiglianza del primo prototipo a un oggetto Bang & Olufsen, per il quale la sfida intellettuale fu persino superata da quella ingegneristica. «Sapevamo bene che tecnicamente riuscire a far entrare tutti quei componenti in uno spazio così angusto sarebbe stato un problema. Ma la sfida in quel caso si poneva più a un livello filosofico. Come era accaduto per il primo Macintosh, quel prodotto sarebbe stato il primo nel suo genere e ciò significava che toccava a me riuscire a scoprirne il senso. Volevo uno stile di design tanto semplice da scomparire». Questo tipo di difficoltà ha sempre portato Jony ad alzare il suo livello, fin da quando era uno studente. Per il Mac B&O dovette cambiare tutta la componentistica – quella utilizzata inizialmente nel minimale spazio da lui immaginato non era abbastanza potente –, e creare una tasca posteriore per l’aggiunta di schede di espansione che tutti gli utenti avrebbero non solo apprezzato ma anche preteso. La “tasca” che poteva sembrare un goffo orpello, diventò invece uno degli elementi distintivi del modo di concepire questi oggetti di Jony, e uno dei contrappunti stilistici di Apple. All’uscita «Spartacus» (così si chiamò alla fine il prodotto) ebbe un buon successo. Questo lancio servì a dare a tutta la squadra, Jony in primis, la consapevolezza dei loro mezzi: ora il Dream Team era pronto a giocare sul serio.
- Torna Steve.
Nel 1995 Bob Brunner uscì da Apple, lasciando spazio ad anni di caos, ma anche di forzata produttività che servirono a far comprendere al team di design che questo era in grado di lavorare a consegne ravvicinate, gestendo una grande pressione. Il 9 luglio 1997 molti dirigenti Apple furono convocati per una riunione improvvisa: il CEO Gilbert Amelio dava le dimissioni e, un po’ a sorpresa, chiamò sul palco Steve Jobs. Steve – chi c’era lo ricorda in pantaloncini corti, scarpe da tennis e barba sfatta, sembrava un senzatetto – arrivava da dodici anni di esilio. Jony, in disparte, e a quel punto un po’ esaurito dalla confusione in cui vagava Apple, probabilmente vicino al suo stesso addio, ascoltò le parole che gli avrebbero cambiato la vita. «Allora, spiegatemi che cosa non va in questo posto», esordì Jobs. Prima che qualcuno avesse il tempo di rispondere, sbottò: «Sono i prodotti. I prodotti fanno schifo! Non sono per niente sexy». Jobs aggiunse qualcosa che lo fece ulteriormente riflettere. Disse che la Apple sarebbe tornata alle proprie radici. «Porto nitidamente impresso nella memoria il momento in cui Steve dichiarò che il nostro obiettivo non era soltanto guadagnare, ma anche creare prodotti eccezionali», ricordò in seguito Ive. «Le decisioni che si assumono sulla scorta di una mentalità di questo tipo sono profondamente diverse da quelle che si prendevano allora alla Apple». La Apple di Jobs si sarebbe basata su questo: semplificazione. In tutto: nelle gerarchie, nei ruoli, nell’offerta dei prodotti (ridotti furiosamente da Steve che li ricondusse a una matrice di sole quattro caselle), nel design. L’iMac fu uno dei primi oggetti creati sulla base di questa nuova concezione: «molti considerano il design soprattutto come un mezzo per distinguere i propri prodotti da quelli della concorrenza», commentò. «Trovo questo approccio davvero insopportabile, tipico di chi pensa alle necessità della propria azienda e non ai bisogni dei consumatori o delle persone. È importante capire che il nostro scopo non era distinguere il nostro prodotto dagli altri ma creare qualcosa che la gente avrebbe apprezzato. Il fatto che il nostro computer sia diverso da tutti gli altri è una conseguenza di questo obiettivo». A Steve Jobs l’iMac piaceva moltissimo, ma subito dopo la sua commercializzazione cambiò radicalmente idea riguardo al colore. Dato che per lui non esistevano le mezze misure, decise che odiava il cosiddetto “blu Bondi”. «Il computer mi piace, però abbiamo scelto il colore sbagliato», annunciò al gruppo design. «Non è abbastanza brillante. Manca di vivacità.» Jony incaricò Doug Satzger, che nel gruppo era il responsabile ufficiale dei colori e dei materiali, di cercare una nuova nuance; per farlo, aveva due settimane di tempo. Satzger si trovò una stanza inutilizzata nel campus aziendale e raccolse decine di oggetti in plastica di ogni genere – stoviglie da cucina, termos trasparenti, piatti di colori vivaci – proprio com’era stato fatto per l’iMac Bondi Blue. Li dispose suddividendoli per colore: quelli blu su un tavolo, quelli rossi su un altro… Quando fu pronto, presentò il risultato delle sue ricerche a Jobs e Ive, con l’aiuto di un collaboratore esterno. Non andò bene. «Steve entra nella stanza e dice che lì dentro c’è troppa roba», ricorda Satzger. «Mi guarda e mi dice: “Fai schifo”.» Saztger oggi riesce a sorridere sull’accaduto, ma in quel momento non fu per niente piacevole. Jobs era tutt’altro che divertito. Si era irritato perché c’era troppa scelta. «Gli avevamo dato troppe informazioni, nessuna delle quali ci aiutava davvero a capire quali sarebbero stati gli effetti di quei colori su un iMac. Così mi guardò e mi disse: “quando riuscirò a vedere qualche colore su un prodotto simile all’iMac?”». «Chiesi tre settimane di tempo. Jony mi lanciò un’occhiata che sottintendeva: Cosa? Sei matto?».
Il compito che lo aspettava non era incoraggiante. Nel tempo concessogli, Satzger si ammazzò di lavoro per riuscire a realizzare dei modelli di iMac quasi completi e in nuove colorazioni. Quando ebbe finito, dopo un lavoro che avrebbe stroncato uno sherpa, Steve tornò a guardare i prototipi, «Entrò e osservò tutti i modelli», ricorda Satzger. «Prese quello giallo, lo mise in un angolo, si voltò verso di noi e disse: “il color piscio non mi piace. Non mi piace il giallo”. Scelse alcune tinte, poi si girò nuovamente e ci disse: “questi sono davvero belli, mi ricordano le caramelle Life Savers. Ma manca ancora qualcosa, un colore per le ragazze. Vorrei vedere un rosa. Quando riuscirete a farmelo vedere?” Così ricominciammo da capo e in dieci giorni avevamo cinque diverse tonalità di rosa. Steve ne scelse una: quella fragola.» Jony era meravigliato dalla rapidità con cui Jobs aveva approvato le nuove colorazioni. La decisione del CEO comportava che in fabbrica avrebbero dovuto mettere in produzione cinque modelli differenti di “case” e che i rivenditori avrebbero dovuto avere in magazzino cinque nuovi prodotti. Ma questi aspetti non furono nemmeno presi in considerazione. La decisione fu dettata esclusivamente da ragioni di design: Steve voleva dei colori nuovi. Alla logistica avrebbero pensato dopo.[1]
- L’iPod.
Era l’anno dell’11 settembre (l’iPod fu lanciato poche settimane dopo), ma anche quello in cui le persone scaricavano canzoni da Napster come mangiare popcorn al cinema, la telefonia era in espansione (così come la sua componentistica) ed era chiaro che Apple voleva lanciarsi nel mercato della musica. «Fin dall’inizio volevamo qualcosa che apparisse tanto naturale, inevitabile e semplice, da far quasi passare in secondo piano il suo design», spiega Jony. L’iPod avrebbe dovuto essere tanto semplice da sembrare magico, «Steve Jobs fece subito alcune osservazioni (alla presentazione dei primi prototipi, ndr.) molto interessanti su come il nostro obiettivo dovesse essere quello di creare un contenuto navigabile», dichiarò in seguito Ive al New York Times. «Dovevamo avere ben chiaro in mente l’obiettivo e cercare di non strafare, altrimenti avremmo complicato il dispositivo, decretandone l’insuccesso. Le funzioni di controllo non sono mai né semplici né chiare; era indispensabile sbarazzarsi di tutto ciò che era inutile». E poi, «l’iPod sarebbe stato un prodotto così originale ed entusiasmante che ci sembrò naturale che il nostro dovere come designer fosse quello di semplificare, eliminare e sfrondare», ripeté Jony. Quando Steve Jobs, il giorno del lancio, estrasse l’iPod dalla tasca dei jeans, le reazioni furono però molto tiepide. Non sembrava nulla di davvero entusiasmante, soprattutto dopo che vennero resi noti i prezzi: 499 dollari. Quasi 500 dollari per un lettore MP3 – e oltretutto compatibile solo con Mac, non con Windows – sembravano una cifra completamente fuori della realtà. Anche le prime recensioni, in una delle quali si diceva che «iPod» era un acronimo per “idiots price our devices” («i prezzi dei nostri dispositivi li scelgono degli idioti»), mostravano una buona dose di scetticismo. All’inizio l’iPod non vendette molto e cominciò a ingranare solo un paio d’anni dopo, quando fu reso compatibile con Windows.[2]
Eppure, i motivi del suo successo erano già stati seminati al suo interno, «il nostro obiettivo era quello di ideare il miglior lettore MP3 possibile, qualcosa che sarebbe potuto diventare un’icona», spiegò Ive nel primo video promozionale. Ripercorrendo il processo che aveva portato alla creazione dell’iPod, Jobs pensava che rappresentasse appieno la natura della sua società. «Se esiste un prodotto che possa spiegare l’essenza della Apple, è questo», dichiarò. «Combina l’incredibile base tecnologica dell’azienda, la leggendaria facilità d’uso dei suoi prodotti e il loro straordinario design. Questi tre elementi si ritrovano tutti in questo prodotto, come dire, questo è quello che facciamo». L’iPod, come ben sappiamo, ebbe moltissime evoluzioni, dalla versione “Nano”, a quella “Shuffle”, dove il piccolo schermo scompare del tutto, in una radicale operazione di minimalismo e iper-tecnologizzazione dell’idea. L’iPod fu il primo prodotto del sodalizio Jobs/Ive e fu un risultato eccezionale. Bono, il leader degli U2, seppe cogliere perfettamente l’essenza del suo fascino quando disse che era un prodotto «sexy». «È stata la prima icona culturale del XXI secolo», sostiene Michael Bull, docente all’università del Sussex, il quale, per l’oggetto principale dei suoi studi, è noto come «professor iPod». «Roland Barthes sostiene che nella società medievale la forma più inconfondibile e caratterizzante era quella delle cattedrali e che in seguito, negli anni Cinquanta [del XX secolo], questo ruolo sarebbe stato assunto dall’automobile. […] Cinquant’anni dopo, aggiungo io, è arrivato il turno dell’iPod, una tecnologia che ti consente di andare in giro con l’intero mondo in tasca. È l’immagine perfetta di una storia cruciale nella storia del XXI secolo»[3].
- L’anno dell’iPhone.
Era una mattina verso la fine del 2003 quando alla Apple il team di design presero coscienza di due fattori combinati: l’avvento della tecnologia multi-touch, con la quale potevi fare cose diverse con l’uso di una, due o tre dita, e l’obbligata riduzione dei dispositivi in mano agli utenti, «nessuno vorrà più mettersi in tasca un cellulare e un iPod», disse Jobs in più di un’occasione. Quando il team iniziò a lavorarci capì subito le potenzialità del progetto, tanto che dopo le prime (sbalorditive) prove poteva essere arrivato il momento di mostrare qualcosa a Steve; Jony, però, decise di non farlo, «dato che Steve tende a manifestare le proprie opinioni senza troppo tatto, non volevo parlargliene in presenza di altri. Avrebbe potuto dire: “È una merda!” e avrebbe bruciato l’idea. Credo che le idee siano qualcosa di molto fragile e che quindi si debba agire con la massima delicatezza quando non sono ancora pienamente formate. Sapevo che sarebbe stato un vero peccato se la cosa non gli fosse piaciuta, perché era molto importante».[4]
Le cose andavano veloce e il mercato anche, così nel 2005 Motorola e Apple provarono un’alleanza per integrare musica e telefonia: non funzionò. Ecco perché si fece ritorno di corsa al progetto multi-touch. Questa volta Jobs diede massimo appoggio, creò un programma segreto alla stragrande maggioranza dei dirigenti Apple e volle solo personale interno a lavorarci. Il team prese possesso di un intero piano in uno degli edifici del quartier generale e adottò rigide misure di sicurezza: «l’accesso alle porte era possibile solo con un badge. C’erano anche delle telecamere. Mi pare che per entrare in alcuni dei nostri laboratori bisognasse usare il badge non meno di quattro volte». L’edificio fu soprannominato Purple Dorm. «C’era sempre qualcuno. Di notte, nei weekend. C’era un persistente odore di pizza. Sulla porta d’ingresso del Purple Dorm appendemmo un cartello con su scritto Fight Club, perché nel film la prima regola del Fight Club è che non si deve mai parlare del Fight Club, e così anche la prima regola del progetto Purple era che non se ne doveva mai parlare fuori di lì».
La parte essenziale dell’iPhone era lo schermo. Qui venne in aiuto a Jony un altro intellettuale di massa, un gigante del Novecento inglese, David Hockney. Le sue piscine (“pool”, appunto) sono entrate nell’immaginario collettivo, e così «capimmo in modo nettissimo che era essenziale; volevamo creare un dispositivo in cui tutto rimandasse al display, in cui lo schermo fosse la caratteristica principale», spiegò più avanti Jony. «Alcune delle prime riflessioni che facemmo sull’iPhone ruotavano intorno a questa immagine di… una piscina a sfioro, una sorta di vasca da cui il display sarebbe sorto come per incanto».[5] Gli sviluppi dell’iPhone andarono avanti per tutti il 2005 con forti impennate e altrettanto feroci cadute, come quella che impose di colpo a tutti di ripensare al materiale dello schermo: «avevamo scelto la plastica perché con questa c’era molta confidenza come materiale ed era anche impermeabile. Ma capimmo presto che era un errore, perché si graffiava». Steve dopo aver notato che in tasca con le chiavi lo schermo dava segni di consumo ci disse, «non voglio vendere un prodotto che si riempie di graffi». «Voglio un display di vetro e lo voglio entro sei settimane».[6]
Per trovare un vetro con quella resistenza dovettero cercare a lungo, ma la caccia fu fruttuosa: arrivò la Corning, azienda con sede a nord dello stato di New York, leader nei vetri ad alta resistenza e antisfondamento. Il Chemcor era un vetro con le caratteristiche che Apple voleva. Unico problema: era fuori produzione dal 1971 – nessuno aveva bisogno di quelle qualità. E anche questo è uno dei miracoli industriali della Apple di Jobs, riuscire a sollevare tutto un indotto al loro livello. In sei settimane la Corning convertì alcuni impianti produttivi e si avviò alla produzione del vetro per l’iPhone. I passi avanti verso l’oggetto del secolo erano continui e notevoli, ma una mattina del 2006 Jobs convocò i responsabili del progetto e la realtà cadde come un macigno sulle illusioni di tutti. «Era evidente che il prototipo era ancora un disastro. Non solo era pieno di difetti; non funzionava proprio. Le telefonate cadevano continuamente, la batteria smetteva di ricaricarsi prima che fosse al completo, dati e applicazioni tendevano a corrompersi e a diventare inutilizzabili. L’elenco dei problemi sembrava infinito. Al termine della dimostrazione, Jobs lanciò un’occhiata relativamente tranquilla alla decina di persone presenti nella sala e disse: “Non abbiamo ancora un prodotto”».[7] Il fatto che sembrasse calmo e non avesse dato in escandescenze come al solito spaventò tutti. Un dirigente intervistato da Vogelstein descrisse quel momento come «una delle poche volte alla Apple in cui ho avvertito un brivido di paura».[8] Mancava ormai poco al Macworld 2006 in cui si sarebbe dovuto (e non solo voluto) lanciare l’iPhone, e tutto era un cantiere aperto, ogni minimo dettaglio. «Per quelli che lavoravano all’iPhone, i tre mesi successivi sarebbero stati i più stressanti di tutta la loro carriera», scrisse Vogelstein. «Nei corridoi scoppiavano di frequente liti furibonde; alcuni ingegneri, a pezzi dopo notti insonni trascorse in un tour de force di programmazione, sparivano per tornare solo dopo qualche giorno, una volta recuperato il sonno perduto. Una product manager sbatté la porta dell’ufficio con tale violenza che la maniglia cadde e lei rimase chiusa dentro».[9] Il lancio al Macworld fu però il coronamento di anni di lavoro senza sosta, che come disse tempo dopo un dirigente della Apple, «fu una guerra infinita. Ogni singola cosa fu una battaglia, per tutti quei due anni e mezzo». La “battaglia”, questa parola, da il significato di cosa significa creare un prodotto, idearlo e lanciarlo: non è l’ispirazione di un eremita, è una lotta quotidiana con i problemi, i dubbi, le avversità, endogene, esogene, intrinseche. È un incontro di pugilato contro te stesso, la tua azienda, i consumatori, il mercato, le aspettative. Steve Jobs, Jony Ive, e tutto quel “Dream Team” la vinsero, la stravinsero, fecero un ca**o di knock-out. L’iPhone fu commercializzato nel 2007, migliorato anno dopo anno, rendendolo un oggetto mitico, mantenendo sempre questa idea di piscina a sfioro, così come quell’aura di magia quando lo si tira fuori dal suo imballo. A questo punto il mondo avrebbe poi dovuto attendere ancora poco per conoscere un altro dei prodotti più rivoluzionari della storia di Apple a firma di Jony Ive: l’iPad.
La morte di Jobs e il lascito di Jony.
È difficile comprendere, ancora adesso, quello che Steve Jobs abbia fatto per il cambiamento in questo mondo contemporaneo, così come è difficile prendere la giusta distanza dal lavoro di Jony. Se oggi riguardassimo le forme di opere come Attese o Concetto Spaziale Ovale, di Lucio Fontana, ideate negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, potremmo trovarci dentro e fuori alcuni dettagli di cruscotti BMW, linee di moto come Ducati, divani stile Molteni o De Padova. È la forza del segno e dell’idea. Jony Ive, uno dei pochissimi a partecipare al funerale in forma privata di Jobs, che da lui ebbe totale controllo, «Jony ha più potere operativo di chiunque altro alla Apple, dopo di me. Non c’è nessuno che possa dirgli cosa fare o cosa lasciar perdere. Ho disposto io che sia così», ha creato non solo una poetica, un imprinting sempiterno per Apple, ma ha influenzato tutte le nostre vite. Prendiamo ad esempio il processo Unibody ideato da Jony: questo è il risultato della ricerca di totale semplificazione di tutti i processi, da quello creativo a quelli in fabbrica. Unibody è una vera e propria conquista manifatturiera perché ha elevato la qualità dei dettagli in un rigoroso procedimento di riduzione e semplificazione, «l’uso di questo metodo consente di ottenere un livello di precisione praticamente sconosciuto nel nostro settore», spiega Ive. «Nella realizzazione di questo dispositivo (il MacBook Pro in modalità Unibody, ndr) siamo stati così maniacali con le tolleranze che sotto molti aspetti credo sia più bello dentro che fuori. E questo rende l’idea della nostra attenzione, di tutta l’attenzione che gli abbiamo dedicato».[10] Gli oggetti creati da Jony non hanno solo cambiato le nostre vite, le nostre interazioni con il mondo e con noi stessi. Dopo il lancio dei primi iMac colorati, ad esempio, quelli che sembravano caramelle, sono usciti molti altri prodotti che riprendevano la stessa idea. C’erano spillatrici in sei diversi colori. L’iMac ha trasformato i consumatori in amanti del design ben più di quanto lo fossero prima.[11]
Dopo tutti i numerosissimi premi, i riconoscimenti (per dire, Jony Ive è Sir per la Corona inglese), quello che mi rimane scolpito in mente sono le parole dello stesso Steve Jobs, «[Jony Ive] Comprende l’essenza di quello che facciamo meglio di chiunque altro. Se alla Apple ho trovato un partner spirituale, è senza dubbio Jony. Siamo io e Jony a concepire insieme molti prodotti, poi coinvolgiamo gli altri e chiediamo loro: “Ehi, che ne dite?”. Lui riesce sempre ad avere una visione d’insieme di ogni dispositivo e al contempo a cogliere anche i minimi dettagli. E sa che la Apple è un’azienda che deve vendere prodotti. Non è soltanto un designer». Questa è la storia del genio di cui tutti i giorni, ne sono certo, tenete una creazione tra le mani.
[1] Da “Jony Ive. Il genio che ha dato forma ai sogni Apple”, Leander Kahney, Sperling & Kupfer
[2] Da “Jony Ive. Il genio che ha dato forma ai sogni Apple”, Leander Kahney, Sperling & Kupfer
[3] Da Johnny Davis, «10 years of the iPod», The Guardian, 18 marzo 2011, www.guardian.co.uk/technology/2011/mar/18/
[4] Da Walter Isaacson, Steve Jobs, Simon & Schuster, New York 2011 (edizione ebook). (Trad. it. Steve Jobs, Mondadori, Milano 2011.)
[5] Dalla deposizione di Jony al processo «Apple vs. Samsung»
[6] Charles Duhigg e Keith Bradsher, «How the U.S. Lost Out on iPhone Work», New York Times, 21 gennaio 2012, www.nytimes.com/2012/01/22/business/apple-america-and-a-squeezed-middle-class.html
[7] Fred Vogelstein, «The Untold Story: How the iPhone Blew Up the Wireless Industry»,
[8] Da “Jony Ive. Il genio che ha dato forma ai sogni Apple”, Leander Kahney, Sperling & Kupfer
[9] Fred Vogelstein, «The Untold Story: How the iPhone Blew Up the Wireless Industry»,
[10] «Oct 14 - Apple Notebook Event 2008 - New way to build - 2/6», YouTube, https://www.youtube.com/watch?v=7JLjldgjuKI
[11] Da “Jony Ive. Il genio che ha dato forma ai sogni Apple”, Leander Kahney, Sperling & Kupfer
L'immagine di cover del pezzo è di Mathieu Thouvenin ©