Per coltivare il proprio benessere nel tempo una comunità umana deve poter contare su persone che si preoccupino di sollevare lo sguardo dalla cronaca quotidiana per cogliere le discontinuità profonde nella realtà che la circonda. Individuarle per tempo significa poter incidere su di esse, concorrere a orientarle, o quantomeno assorbirle in modo meno traumatico. Trascurarne le sfide logora la credibilità delle classi dirigenti e spalanca la porta alle recriminazioni retrospettive di cui si nutrono le demagogie di ogni epoca. Chi oggi osserva gli equilibri globali non può non intuire che i millennials saranno la prima generazione dall’inizio dell’età contemporanea a vivere in un mondo non più organizzato e trasformato esclusivamente da centrali di potere e innovazione di matrice europea. Sulla sponda occidentale dell’Oceano Pacifico, oggi al centro dei disegni strategici delle cancellerie e delle multinazionali come lo fu per secoli l’Atlantico, la Cina persegue a tappe forzate un progetto di modernizzazione senza occidentalizzazione per recuperare il proprio ancestrale status di grande potenza. Questo appuntamento con la storia è stato fissato dalla leadership di Pechino in concomitanza con i “due centenari”: il 2021, quando ricorreranno cent’anni dalla fondazione, a Shanghai, del Partito Comunista Cinese, e il 2049, a un secolo dalla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese dal rostro di Tiananmen, all’ingresso meridionale della Città Proibita.

Dei paesi socialisti si scherza dicendo che il loro futuro è sempre certo – il paradiso comunista, per raggiungere il quale ogni mezzo è lecito – mentre a cambiare è il passato, secondo le convenienze politiche del momento. La Cina non fa eccezione: mentre i teorici del partito spiegano come le dinamiche capitalistiche che innervano il “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi” siano in realtà proprie dello “stadio primario del socialismo”, e funzionali all’approdo comunista, la vera partita ideologica si gioca sul terreno della memoria storica e della costruzione dell’identità condivisa. È qui che viene esaltato il primato del benessere collettivo sull’emancipazione individuale, giustificando il sacrificio delle storie dei singoli nel nome di una più grande narrazione nazionale. Il “sogno cinese” è essenzialmente agli antipodi di quello americano.

He er bu tong, l’armonia in senso profondo nel pensiero cinese, implica la pacifica convivenza tra esperienze politiche e socio-economiche irriducibilmente diverse tra loro e egualmente legittime.

Ne è un riflesso, in campo economico, la peculiare fisionomia del capitalismo di partito- stato coltivato da Pechino sin dall’inizio delle riforme nel 1978. Le aziende private in Cina non soltanto esistono, ma mostrano un dinamismo straordinario,  trainano la crescita e impiegano la maggioranza degli occupati nel paese. Ciò nonostante, la loro competitività è zavorrata a vantaggio di oligopoli costituiti da grandi gruppi in mano pubblica, che dominano un ampio novero di settori strategici, possono contare su agevole accesso al credito (erogato da banche di Stato) e favoriscono pratiche di revolving doors per cui gli alti quadri del partito passano da ruoli istituzionali a incarichi manageriali senza soluzione di continuità. La vita non è semplice per gli imprenditori cinesi, e il clima si sta deteriorando anche per gli operatori stranieri, a poterne sondare le opinioni in privato.

Utile ricordarsi allora che non siamo davanti a un fenomeno inedito: quella cinese altro non è che una riedizione del canone di sviluppo asiatico inaugurato in prima battuta dal Giappone negli anni ’50 del secolo scorso. Certo i volumi sono differenti, né si può paragonare l’allineamento di Tokyo ai desiderata statunitensi con la condotta di Mao durante la Guerra Fredda, e soprattutto esiste una differenza sostanziale tra una società giapponese, tutto sommato aperta, e i molti filtri che costringono quella cinese. Ma rileggendo i dibattiti della fine degli anni ’80 le assonanze sono sorprendenti. Il “pericolo giallo” veniva agitato già allora a Washington come una minaccia esistenziale per l’America, incarnato in quel particolare approccio giapponese al commercio che Peter Drucker chiama adversarial trade. Orientata a dominare intere filiere produttive, anziché alla conquista dei consumatori, la strategia delle multinazionali nipponiche minava alle fondamenta la fiducia nel libero commercio. La soluzione avanzata da Drucker era che i meccanismi di funzionamento dell’economia globale fossero integrati da un principio di reciprocità diffusa. A distanza di trent’anni, mentre inquietanti propositi protezionistici si affacciano da una Casa Bianca jacksoniana, diagnosi e terapia di Drucker sono nuovamente attuali, questa volta con riferimento alla condotta di Pechino.

La Cina, che nel frattempo è anche divenuta uno dei maggiori esportatori di capitali all’estero, non manca dal canto suo di professare il proprio credo nella globalizzazione.

Bisogna però evitare di trovarsi lost in translation: quando i vertici cinesi parlano in senso lato di “armonia” nelle relazioni internazionali, essi espongono una visione del mondo che non si esaurisce nell’assenza di conflitto. He er bu tong, l’armonia in senso profondo nel pensiero cinese, implica la pacifica convivenza tra esperienze politiche e socio-economiche irriducibilmente diverse tra loro e egualmente legittime.

È qui lo spartiacque della nostra epoca: fiduciosi nella “fine della storia” dopo l’implosione dell’impero sovietico, assistiamo al riemergere di un pluralismo che ci interpella quanto a valori, interessi e pratiche, a partire dalla regione Indo-Pacifica.

Cinquecento anni di dominio politico e culturale sempre più capillare – dalle scoperte geografiche, alle rivoluzioni industriali, dall’imperialismo alla globalizzazione del commercio e dei capitali – hanno abituato l’Occidente a considerarsi la legittima misura di tutte le cose. Il passo dalla centralità all’autoreferenzialità è sempre breve. Per affrontare i passaggi che ci aspettano meglio quindi farsi aiutare dalla saggezza filosofica napoletana e prepararsi a sostituire secoli di hybris con quella fantasia che Giambattista Vico auspicava per riflettere sui “molti differenti fini a cui gli uomini possono aspirare restando pienamente razionali, pienamente uomini e capaci di comprendersi tra loro”.

In apertura: Beijing, China 2008 / Courtesy of Olivo Barbieri