«La nostra ricchezza è rappresentata da quelle quattro milioni di imprese che non muoiono, anzi competono. Imprese piccole o medie, comunque piccole per gli standard internazionali. Un sistema di cui si parla spesso, anche in Banca d’Italia, solo per sottolinearne i limiti. Eppure, l’ottimo stato di salute della bilancia commerciale, frutto solo del loro lavoro mentre i grandi in genere sono in deficit, dimostra che queste imprese sono competitive». Parla così Fulvio Coltorti, per 39 anni dal 1973 al 2012 a capo dell’Area Studi di Mediobanca, una sorta di archivio vivente delle imprese italiane, passate al filtro dell’analisi dei numeri, ma anche un arbitro severo, impermeabile a simpatie o passioni di parte (spesso alimentate dai media controllati dai gruppi).  Lo studio delle grandi imprese e la percezione del loro declino lo hanno portato a sviluppare un'idea evoluzionista su un nuovo ruolo delle imprese di media dimensione, viste non più come semplici fasi di crescita dal piccolo al grande, ma come unità di un nuovo modello capitalistico che riunisce la flessibilità delle piccole imprese tipiche dei distretti con la specializzazione produttiva, una formula che ha permesso di occupare numerose nicchie sui mercati mondiali. Ma è un modello ancora valido? Oppure la ripresa passa dalla capacità di ricostruire le grandi imprese quelle che, negli Anni Ottanta, sembravano in grado di conquistare il mondo sotto la guida dei “Condottieri”, come la grande stampa definiva Agnelli, Berlusconi, De Benedetti e Raul Gardini?

Sappiamo come è finita, ma perché è andata così?

«Facciamo un passo indietro. In origine la struttura imprenditoriale italiana si è basata su grandi strutture, per lo più finanziate da alcuni banchieri lungimiranti, ma a partire dagli anni Trenta l’edificio, cresciuto grazie allo sforzo della Prima Guerra Mondiale, cede di fronte alla crisi economica che colpisce le imprese esposte sul fronte del debito. È a partire da allora che lo Stato assume il ruolo che in precedenza era stato assolto dai privati: con la nascita dell’Iri la mano pubblica si sostituisce ai privati, però continua a comportarsi come fosse un privato. Le imprese rilevate dallo stato restano quotate in Borsa e fanno leva sui capitali raccolti in Borsa».

Un modello misto, che ha avuto successo.

«Il momento di gloria coincide con il miracolo economico, che è stato un fenomeno trainato dalla grande impresa. Sia quella pubblica che quella privata. Grazie ad una serie di prodotti ben fatti le aziende italiane, vedi Fiat o Montecatini, vivono una fase di grande sviluppo sotto un regime di blando protezionismo che fa scudo alla concorrenza internazionale. E si è andati avanti così in un quadro di natura tendenzialmente domestica».

Ad un certo punto l’incantesimo svanisce, però.

«È andata in crisi per prima l’impresa pubblica, che fino ad allora guadagnava soldi. E pure tanti. È stata la prima vittima di una classe politica che ha lasciato degradare la situazione perché interessata solo ad aumentare il suo potere senza badare alla crescita del debito. Quando il sistema ha dovuto fare i conti con il costo del denaro a doppia cifra, spinto al rialzo dall’esplosione dell’inflazione, il meccanismo si è rotto, trascinando con sé anche l’industria privata».

 

 

Si arriva così all’appuntamento con il mercato unico.

«Dopo Maastricht tutti, non solo i privati, si sono messi ad osannare le virtù del mercato, un oggetto quasi sconosciuto nel nostro Paese che da sempre ha protetto le grandi imprese che a loro volta vigilavano sulle medie. Ma quando il mercato si è aperto anche ai competitor internazionali ci siamo scoperti fragili, nelle mani di una classe dirigente non all’altezza del compito, non attenta al buon governo ma solo alla spesa e a far debiti».

E i privati?

«Il nucleo dell’impresa privata era di dimensioni ridotte, tra il polo torinese della Fiat e quello milanese con una forte vocazione finanziaria. Questa finanza, ad un certo punto, si è un po’ corrotta. Sono scomparsi i vecchi ideali. Tutti badavano a fare profitti, anche oltre i limiti del lecito, come, ad esempio, successe con Sindona. Diciamo che ad un certo punto la grande impresa è diventata una pura concentrazione di capitali e chi guidava questi gruppi era soggetto alle tentazioni della finanza. Questo ha coinvolto più o meno tutti. Pensiamo alla fusione tra Montecatini ed Edison, da cui emerse una gestione solo in parte industriale, perché si trattava di padroneggiare un indebitamento molto elevato ma anche di guerreggiare per accaparrarsi i fondi messi a disposizione dalla mano pubblica. All’epoca ci furono poi politiche errate, la nazionalizzazione dell’energia elettrica che fece arrivare capitali imponenti nelle mani di alcuni imprenditori poco competenti, incapaci di investire in maniera conveniente. Diciamo che lì è cominciato il declino del grande capitalismo privato».

E cosa è rimasto di quell’epoca?

«Da una parte i rimasugli delle imprese in crisi passate allo Stato, in parte poi privatizzate, il più delle volte ad imprenditori che non erano adeguati allo scopo. Ricordo sempre quando andai con Lucchini in visita alle acciaierie di Piombino, lo stabilimento ex Finsider che gli era stato assegnato. Ad un certo punto facemmo una domanda ed il nostro interlocutore prese il telefono per avere informazioni. Ma cosa telefona a fare, chiese Lucchini. Lo chiami a voce. Abituato com’era alle sue aziende, non si rendeva conto delle distanze nello stabilimento che aveva comprato. Era rimasto ad altre dimensioni, insomma. Quando si passa dal piccolo al grande cambiano molte cose, a partire dalla complessità dei problemi».

Cosa resta di quella stagione?

«Ci ritroviamo un insieme di imprese che sono finite nelle mani dello Stato e che poi a spizzichi e bocconi sono state rivendute oppure con quelle aziende che erano già piccole e che lo Stato non ha voluto vendere se non parzialmente, come Enel ed Eni, nonostante le pressioni dell’Unione Europea. Dall’altra ci sono privati. Oggi va per la maggiore Luxottica, un’azienda che ha una forte dimensione commerciale, più che industriale, utilizzando i brand di altri, come Armani o Dolce & Gabbana. Ma, soprattutto, dispone di una fortissima rete di vendita sul territorio: se vuoi comprare un occhiale, da lì devi passare. Non vedo in giro tra i grandi molta gente che abbia a cuore la vocazione industriale. Poi ci sono i piccoli imprenditori che sono cresciuti con una logica a rete, alla giapponese: un poco per volta, all’interno dei distretti. Ci sono molti modi per crescere. Uno è quello scelto da Lvmh attraverso acquisizioni. Arnault ha creato una conglomerata, struttura considerata fuori moda perché non consente di sfruttare appieno le dimensioni di scala. Ma con lui funziona anche perché i francesi hanno un’altra testa. E poi…».    

E poi?

«Abbiamo le imprese che sono nate piccoline e che tali sono rimaste. E qui arrivano gli strali della Banca d’Italia: non hanno i dirigenti, non hanno i manager. Sono stupidaggini. Non è affatto vero che non sono competitivi come dimostra, ripeto, l’andamento della bilancia commerciale. Il saldo finale, attivo per 90 miliardi, è stato generato totalmente da questa categoria di imprese, cioè l’area distrettuale del quarto capitalismo. Le grandi imprese o vanno in pareggio o sono deficitarie nei confronti dell’estero. Non serve essere grande per essere competitivo».

Si potrebbe però obiettare che ci sono limiti evidenti nel modello «piccolo è bello».

 «Naturalmente le grandi imprese possono avere grandi opportunità. Ma la nostra storia ha fatto sì che la grande impresa abbia privilegiato la natura finanziaria rispetto a quella industriale. La contaminazione tra industria e finanza non ha portato bene. Prendiamo il caso di Fiat/FCA. Oggi, al momento della fusione con Peugeot, ha dovuto cedere il controllo al partner più avanti dal punto di vista dell’elettrico e dell’ambiente. Ma la Fiat che ho visto a suo tempo aveva eccellenze che non sono state sviluppate perché la necessità di procurare dividendi ha compresso le scelte industriali. Prima che la Fiat cedesse a Bosch il turbo diesel, le macchine tedesche avevano bisogno di motori di grandi cilindrate per muoversi. Se oggi vogliamo parlare di industria ci dobbiamo riferire a quei medi imprenditori ben patrimonializzati, con le fabbriche autofinanziate e che ricorrono alle banche solo per il circolante. È questo il quarto capitalismo che possiamo opporre alla grande impresa. Nell’ultimo mio lavoro ho guardato al capitale netto tangibile delle imprese. Se andiamo a guardare i Benetton, Telecom Italia, Luxottica o Pirelli prendiamo atto che si tratta di aziende che non hanno un patrimonio netto tangibile: chi rischia i soldi lì dentro sono i creditori, non l’azionista».

E il mercato.

«Cominciamo con il chiederci se da noi il mercato ci sia mai stato. Dalle origini le nostre grandi imprese nazionali, da Ansaldo a Fiat, nascono come fornitori della Difesa, e non competevano sul mercato. Poi è risultato molto più conveniente farsi proteggere dai dazi e pure dai media controllati che non competere. Ed è stato un guaio: tu ti ingegni e ti dai da fare se è necessario per vendere, ma se trovi un mezzo più comodo, sei portato a sederti».

Poteva andare diversamente?

«Sì, se guardiamo la Germania che ha un patrimonio di tecnologie e di aziende eccellenti. Non è che la Fiat non sapesse fare le macchine altrettanto bene dei tedeschi. Ma quando il padrone ti dice brevettiamo tutto, poi lo cediamo perché devo distribuire i dividendi, la strada è segnata. Sapevamo fare le macchine meglio dei tedeschi. Ma una classe dirigente non adeguata ti porta a fare scelte sbagliate. Per giunta, specie dopo Maastricht, ha prevalso un’impostazione di breve termine».

E abbiamo sprecato le privatizzazioni.

«Un’esperienza fallimentare perché legata solo ad obiettivi di carattere finanziario invece che industriale. Se vuoi privatizzare devi prendere chi ha i soldi senza verificare più di tanto se sia o meno in grado di gestire. E così per l’Ilva ti rivolgi a Riva che non era adeguato ad un’impresa del genere o scegli i Benetton solo perché hanno i soldi. Fermo restando che se disponi di strutture regolatorie adeguate, una struttura autostradale la puoi affidare senza grosse preoccupazioni anche ad un cinese. Ma il controllo non c’è stato e questo ci riporta al colpevole: una classe dirigente inadeguata».

E adesso? Sapremo sfruttare i fondi del Recovery Fund?

«Sì, penso di sì. Dobbiamo affrontare grossi problemi infrastrutturali, ma dobbiamo anche pensare alle imprese industriali che merita sviluppare. Vale l’esempio della Germania: hanno un tessuto davvero robusto di grandi imprese ma accanto esiste il Mittelstand, che è in tutto e per tutto simile al nostro quarto capitalismo: sono altamente innovative, lavorano su nicchie. Le nostre sono più leggere, le loro sono pesantucce. Ma puntano ad inserirsi nei mercati con prodotti leader, nei primi tre posti. Ecco, se noi aiutiamo le nostre imprese a puntare di più sull’innovazione centriamo l’obiettivo. Non è che le nostre imprese non siano sensibili al tema, ma badano a non superare i livelli consentiti dall’autofinanziamento. Bisognerebbe fare come i tedeschi. Le aziende sorgono vicino alle università o ai grandi centri di ricerca che collaborano attivamente con loro. Capita, ma assai di meno, anche da noi. C’è molto spazio per accelerare».

E poi?

«Io credo che il compito di Draghi non sia quello di rimettere a posto l’economia, semmai di risistemare la classe dirigente. Un po’ quello che aveva pensato Mattioli all’inizio degli anni Settanta quando venne cacciato dalla Comit».

È ottimista?

«Bisogna essere ottimisti. Noi italiani diamo il meglio quando siamo alle corde. Siamo resilienti, cioè capaci di tornare alla forma iniziale dopo aver subito una deformazione. Ci vuole realismo. Vincenzo Cuoco scrisse ‘Se cominceremo a parlare delle nostre cose con ragione e dignità, forse troveremo mille volte motivi per renderci migliori e non mai di crederci pessimi’».

 

Fulvio Coltorti, già direttore emerito dell’Area Studi Mediobanca e Direttore dell’Area storica di Mediobanca (Archivio Storico Vincenzo Maranghi e Biblioteca Storica). In precedenza, Direttore centrale di Mediobanca responsabile dell’Area Studi (R&S e Ufficio Studi) fin dai tempi di Enrico Cuccia. Nel corso della sua attività scientifica ha introdotto numerose innovazioni su indicatori e statistiche finanziarie, aprendo anche un filone di lavori sul cosiddetto Quarto capitalismo. Dal 2015 insegna Storia economica (e in particolare Storia delle Spa e delle grandi imprese) all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Fra le sue pubblicazioni più recenti «La Mediobanca di Cuccia» (Giappichelli 2017), «Debiti, colpe e vergogne ai tempi del Coronavirus» (in Nuova Antologia Aprile-giugno 2020) e «Mondi reali e virtuali» (in «Al di là del tunnel», a cura di Marco Vitale; M.S.Tarantola editore 2020).