Un’introduzione: cos’è questa Superlega?
La Superlega ci ha provato a nascere. Nella notte tra domenica 18 e lunedì 19 aprile, i dodici club fondatori hanno annunciato congiuntamente un accordo per «costituire una nuova competizione calcistica infrasettimanale». I club in questione sono (erano): Ac Milan, Arsenal Fc, Atletico de Madrid, Chelsea Fc, Fc Barcelona, Fc Internazionale Milano, Juventus Fc, Liverpool Fc, Manchester City, Manchester United, Real Madrid Ct e Tottenham Hotspur. Era previsto che altri tre club aderissero come club fondatori prima della stagione inaugurale, che avrebbe dovuto iniziare «non appena possibile». Gli stessi club avevano auspicato «l’avvio di consultazioni con Uefa e Fifa al fine di lavorare insieme cooperando per il raggiungimento dei migliori risultati possibili per la nuova lega e per il calcio nel suo complesso». La Superlega avrebbe dovuto essere organizzata e gestita da un’apposita società partecipata da ciascun club in egual misura e l’accordo prevedeva l’impegno da parte di ciascuno a sottoscrivere una quota del capitale sociale della società, con un investimento iniziale di 2 milioni di euro, incrementabile fino a 8 milioni. I club si erano posti l’impegno di versare oltre 10 miliardi di euro come contributi di solidarietà per il calcio europeo. Gli stessi club fondatori avrebbero poi ricevuto un contributo una tantum pari a 3,5 miliardi di euro (da JP Morgan) per bilanciare l’impatto del Covid-19. Da parte dei club fondatori, la decisione di tentare di creare una Superlega «arriva in un momento in cui la pandemia globale ha accelerato l’instabilità dell’attuale modello economico del calcio europeo. Inoltre, già da diversi anni, i Club Fondatori si sono posti l’obiettivo di migliorare la qualità e l’intensità delle attuali competizioni europee nel corso di ogni stagione, e di creare un formato che consenta ai top club e ai loro giocatori di affrontarsi regolarmente. La pandemia – proseguiva la nota divulgata in quelle frenetiche ore – ha evidenziato la necessità di una visione strategica e di un approccio sostenibile dal punto di vista commerciale per accrescere valore e sostegno a beneficio dell’intera piramide calcistica europea. In questi ultimi mesi ha avuto luogo un ampio dialogo con gli stakeholders del calcio riguardo al futuro formato delle competizioni europee. I Club Fondatori credono che le misure proposte a seguito di questi colloqui non rappresentino una soluzione per le questioni fondamentali, tra cui la necessità di offrire partite di migliore qualità e risorse finanziarie aggiuntive per l’intera piramide calcistica». Il formato della competizione prevedeva 20 club partecipanti di cui 15 fondatori e un meccanismo di qualificazione per altre 5 squadre, selezionate ogni anno in base ai risultati della stagione precedente. Le gare avrebbero dovuto venire disputate in date infrasettimanali, lasciando che tutti i club partecipanti continuassero a competere nei loro rispettivi campionati nazionali. Avrebbero dovuto esserci due gironi da dieci squadre per poi vedere le prime tre di ciascun girone qualificarsi ai quarti di finale, con quarte e quinte che si affrontavano in una sfida andata e ritorno per i due posti rimasti disponibili. Il formato ad eliminazione diretta veniva utilizzato per raggiungere la finale a gara secca, da disputare in campo neutro. Era prevista la creazione anche di una corrispettiva lega femminile. Nulla di tutto questo è mai accaduto.
Premesse: competitività, EBITDA, modello.
Due sono le cose che non possiamo ignorare di queste settimane del calcio mondiale: il progetto Superlega è fallito, il progetto Superlega è solo l’inizio. Nessuno può essere così ingenuo da credere che ora si possa tornare al calcio di tutti i giorni (ammesso che questa definizione abbia senso), così come nessuno può essere a tal punto ipocrita da pensare che un progetto presentato con queste modalità vagamente asettiche e dilettantistiche potesse attecchire in poche ore. Prima di addentrarci in quello che è stato, per capire quello che sarà, è necessaria un’ulteriore premessa: non è immaginabile che dirigenti e strutture ormai a tal punto managerializzate come quelle dei top-club europei possano non comprendere che un sistema con un impatto così rilevante del costo del lavoro sui ricavi, con EBITDA striminziti, non produca, negli anni, un pesante squilibrio economico e successivamente finanziario che, nonostante tutto il coté d’immagine e di potere mediatico che il calcio comporta e favorisce, non sia gestibile con la ricetta attuale, debito, aumenti di capitale, plusvalenze e goodwill ossia (iper) valutazione degli avviamenti e del marchio oltre che opacità nelle valutazione delle immobilizzazioni e dei famigerati cartellini dei calciatori. Esiste un punto limite, in sostanza, in cui, anche il più auto-referenziale dei sistemi si deve fermare e chiedere «perché tutto questo?», domanda che di solito porta ad una fragorosa rivoluzione. La Superlega non è forse la soluzione, non questa Superlega fallita prima di nascere, ma è il sintomo. Ecco perché Karl-Heinz Rummenigge, manager di quello che per molti versi è il primo e più virtuoso club europeo, il Bayern di Monaco, parla di «un chiaro colpo di avvertimento per tutto il calcio europeo». Non solo, Rummenigge difende la riforma della Champions League da poco presentata in quanto «renderà molto più difficile vincere per le grandi squadre». Questo è un altro elemento basilare per un’analisi seria del contesto del calcio europeo: in molti, in queste settimane, si sono affaccendati a citare come esempio il modello made in USA della NBA (National Basketball Association), puntando sul meccanismo del salary-cap. Il salary-cap (per semplificare) è un dispositivo legislativo della lega che costringe le squadre ad agire entro tetti salariali di spesa per comporre il proprio roster di giocatori. Il salary-cap non è un meccanismo di controllo della spesa, bensì la modalità (non la sola peraltro) che la lega americana di pallacanestro si è data per favorire la competizione. Buona parte del lavoro dei general manager NBA sul versante delle cosiddette basketblall operations, è quello di arrivare a comporre una squadra competitiva utilizzando il salary-cap, e spesso si trovano a doverlo fare in limitate finestre temporali, sfidando la curva agonistica dei giocatori al fine di compensarli con un salario più basso rispetto a quanto offre la media della lega per prestazioni sportive analoghe. Tutto ciò non avviene nel calcio, e non può avvenire senza una concreta ristrutturazione di molti dei processi competitivi alla base del gioco, un’impalcatura complessiva, che nella NBA si estrinseca anche mediante sistemi di scelta di nuovi giocatori in ingresso (draft) molto regolamentata in cui si facilitano le franchigie meno competitive in quel momento, di cui negli scarni documenti della Superlega non si è vista traccia.
Karl-Heinz Rummenigge
Il CEO del Bayern Monaco si è già lasciato alle spalle una serie di commenti piuttosto pungenti contro la Superlega, alla Bild, per esempio, «se avessi saputo prima della Superlega avrei fatto di tutto per evitarla, con i nostri amici del Dortmund e del Paris Saint-Germain. È un progetto definitivamente liquidato, inaccettabile e ora è importante che i club che hanno riconosciuto il proprio errore tornino nella famiglia del calcio. (Andrea Agnelli) ad esempio fa parte di un’altra generazione ed è un tipo di persona diversa da me. Io ho giocato al calcio. Sono legato al calcio e non soltanto al denaro». È necessario però comprendere perché si è arrivati a tutto questo, «se ne parlava da dieci anni e abbiamo sempre deciso di mantenere il modello esistente. Poi il coronavirus ha danneggiato tutto il calcio europeo, soprattutto le grandi squadre, che senza tifosi allo stadio hanno perso tanto. Alcuni club hanno pensato che fosse quindi il momento buono per fare una Superlega. Ed è nato questo un grande casino». E quale può essere una soluzione, «la soluzione è ridurre i costi. Con la Superlega i club cercano di risolvere il problema dei debiti, peggiorati con la pandemia. Ma la strada non può essere quella di incassare sempre di più e pagare sempre di più giocatori e agenti. Dobbiamo ridurre un po’ le cose, non metterne altre sul tavolo. Abbiamo esagerato con le spese: tutti, nessuno escluso. È il momento di fare un calcio meno arrogante». In Italia l’adesione di Juventus, Milan e Inter sembrava scontata, squadre diverse, problemi simili, «si dice che l’Inter abbia grossi problemi finanziari e magari pensa di risolverli così. L’incasso di cui parlano per la Superlega sembra enorme, ma non so se alla lunga i problemi saranno risolti. Io non ci credo. Non si può incassare sempre di più per compensare le spese». E poi ancora, «il mercato è esploso nell’anno di Neymar, ma eravamo già sulla via sbagliata e non è colpa di Uefa e Fifa. Adesso abbiamo la grande chance di trovare soluzioni per tornare a un calcio più razionale. Tutte le aziende in Italia, Giappone, Germania o Usa pensano a ridurre i costi: solo nel calcio si pensa di risolvere tutto con l’aumento dei ricavi». Questo approccio di Karl-Heinz Rummenigge chiarisce alcuni concetti chiave del modello attuale del calcio europeo: innanzitutto un approccio attitudinale, il calcio concentra molti dei suoi sforzi nell’aumentare i ricavi per gestire i costi (configurazione del conto economico di cui qualunque microimprenditore comprende i rischi più basilari). Ci si è mai chiesti cosa sia e cosa debba diventare il prodotto calcio? Fino a che punto è un valore avere una competizione nazionale in cui il Benevento sfida l’Inter o la Juventus, e dove questa iniqua sfida sportiva diventa un semplice ossimoro, una inutile rappresentazione retorica o dove questa partita rappresenta invece una reale opportunità di spettacolo? Andrea Agnelli, oggi uno dei più sbeffeggiati protagonisti della vicenda, continua a sostenere che «i ragazzi di 10-15 anni si interessano ad altro e nella fascia fra i 16-24 il 40% non si appassionano di Ibra o CR7». Se questo è vero, che cosa il calcio dovrebbe fare perché quelle percentuali si alzino e diventino una solida base per i ricavi del futuro? Rummenigge anche qui offre una sua visione, diciamo da ex-calciatore, amante del gioco, e alla domanda se il Bayern farà mai parte di una Superlega risponde: «non siamo dentro perché non vogliamo farne parte. Siamo contenti di giocare in Bundesliga, un business “pane e burro” come dicono gli inglesi. Siamo contenti di fare la Champions e non dimentichiamo la responsabilità verso i nostri tifosi, che sono generalmente contro una riforma del genere. E sentiamo anche la responsabilità verso il calcio in generale». Questo è il Rummenigge-pensiero: il calcio deve regolarsi e divenire un business sostenibile, per chi lo ama.
Il calcio è della gente?
Quanto è bello il calcio. Moltissime persone nel mondo ricordano avvenimenti della propria vita in relazione a quanto è accaduto su quel rettangolo verde. Un gol di Johan Cruijff, un’impresa di Van Basten, uno stop di Scirea, quale juventino non si ricorda dove fosse su quel gol di Magath o quale Sampdoriano la notte del 1992 a Wembley. Molte persone ricordano a memoria la prima formazione di infanzia, quando il calcio ti sembra tutto, «Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair; Mazzola, Milani (Peiró, Domenghini), Suárez, Corso. Allenatore Herrera. Quale altra formazione, a distanza di tanti lustri, è impressa più di questa nella memoria di ogni tifoso, anche non nerazzurro ?»[1]. Quello che ha impressionato, in un periodo così ingrigito dal Covid, è stato vedere, soprattutto in un paese che la pandemia sta riuscendo a superarla come la Gran Bretagna, la reazione dei tifosi scesi per le strade; per la serie, «il calcio è nostro. Non fatelo diventare una questione tra ricchi». Se questo sentimento fosse realmente radicato, e venisse considerato un valore di questo enorme carrozzone sportivo, parte concreta di quel goodwill che le società sportive professionistiche dichiarano in bilancio, perché non integrarlo in un progetto complessivo? Oggi, lo sappiamo, non è così: il calcio non è della gente. Il calcio oggi è dei ricchi. Cacofonia e disomogeneità fiscale tra paesi (e squadre), vincoli economici riduttivi, costo del lavoro fuori controllo e competizioni inique (inutile ripetere il liso esempio della differenza del monte ingaggi tra Crotone e Juventus): in Italia 9 degli ultimi 10 scudetti li ha vinti la Juventus, in Spagna 15 degli ultimi 16 campionati li hanno vinti Barcellona o Real Madrid, in Germania 9 delle 11 ultime BundesLiga le ha vinte il Bayern Monaco, 7 degli ultimi 8 titoli in Ligue-1 francese li ha vinti il Paris Saint-Germain. È questa l’idea di «di tutti» che ha chi è sceso per strada a protestare contro i ricchi della Superlega, gli stessi ricchi, all’incirca, che già dominano i rispettivi campionati? Nel mondo occidentale ci si è sperticati di lodi per il Leicester di Claudio Ranieri, ma nulla si fa per generare altri Leicester, altre Atalanta, o Borussia Dortmund. Bastano questi sparuti casi per alimentare la fiamma della passione e la speranza di ogni tifoso di essere il prossimo Leicester? Recentemente un tifoso della Juventus ha commentato un articolo sulla Gazzetta con un lungo ragionamento: abbonato da ventitré stagioni in curva si è chiesto che senso abbia una Superlega in cui i tifosi, quelli che si considerano i veri sostenitori, quelli della «mentalità ultrà», verranno marginalizzati a favore di un pubblico pagante più alto-spendente disposto a pagare non cinquanta, o settanta, ma duecento o cinquecento euro a biglietto. È questo il progetto del calcio di domani? È bello raccontare il calcio di ieri, antico, rabberciato, con palloni pesanti e fango, elementi estetizzanti e romantici difficili da conciliare oggi e, direi, anche vagamente anacronistici, buoni per una retorica passatista; ma questo calcio reggerebbe i bilanci di oggi? E se non li reggesse, avrebbe senso pagare meno Cristiano Ronaldo per poter offrire il suo spettacolo ai tifosi che hanno fatto del calcio (di ieri) quello di oggi, o questa pelle va cambiata, migrando il prodotto calcio verso un nuovo universo diverso e lontano, potremmo dire, di business? Si possono tenere insieme le due anime del prodotto, dove quella popolare è il cuore ed il sangue, e quella di business cervello e polmoni? Nello stesso stadio possono venire Rihanna o Kim Kardashian e Luks1977, il nickname dell’utente che commentava sul sito di Gazzetta? Queste sono le domande che oggi aleggiano, dopo la notte della Superlega, fallita ma più presente che mai. In definitiva, che modello dobbiamo forgiare per il calcio che verrà, tra Rummenigge, CEO virtuoso di un grande club che ama il calcio in cui lui stesso ha giocato, ed Andrea Agnelli che vorrebbe, forse confusamente, un nuovo paradigma? Queste sono le questioni che neppure l’UEFA di Ceferin può annichilire con un comunicato stampa, e che torneranno in questi mesi. Un’ultima cosa è bene notare: ogni prodotto ha bisogno di consumatori, e prima di lanciarlo sul mercato sarebbe opportuno capire se questo grande rito generazionale chiamato calcio, che si tramanda come fosse un segreto collettivo nelle famiglie, ed è animato dai gesti estetico-sportivi dei suoi interpreti, ha ancora attrattività e verso chi. Quando nacque l’Europa, altro esercizio altissimo che avrebbe bisogno di una potente e virtuosa rivoluzione, ma la cui ratio ed esistenza sono cruciali per chi ci vive, venne creato un tavolo di pensatori ed intellettuali che doveva disegnare i valori fondanti dell’Unione – per l’Italia partecipò, ad esempio, Umberto Eco. Questo è quello che farebbe bene al calcio, sedersi e comprendere, sino in fondo, quali siano i suoi valori, e per chi, ogni maledetta domenica, quei beneamati calciatori scendono in campo.
[1] Eduardo Galeano, «Splendori e miserie del gioco del calcio», Sperling & Kupfer, 1997