Con Diego Della Valle, Gildo Zegna, Nino Cerruti e pochissimi altri, il patron di Moncler Remo Ruffini rientra in quella genia di figli d’arte della moda che non solo supera il padre in notorietà e successi, ma ne ribalta la percezione, trasformandoli in «genitore di». In inglese, lingua onomatopeica e simbolica, esiste un verbo che definisce perfettamente i loro casi: to outshine. Letteralmente, togliere la luce. Gianfranco Ruffini, scomparso nel giugno del 2019, fu uno dei grandi innovatori della moda maschile degli Anni Settanta, in particolare negli Stati Uniti dove viveva. Alla stragrande maggioranza dei ventenni di oggi, le camicie Nik Nik dicono poco o nulla, ma all’epoca furono il marchio della disco and soul generation, e non abbiamo dubbi che i patiti dei vinili vintage di adesso sarebbero stupiti nello scoprire quanti di quegli stampati figurino sulle copertine dei 45 giri, indossati dalle pop star di quegli anni. Come scrisse «Mr magazine» in un lungo articolo pubblicato online nel giorno della sua scomparsa, Gianfranco Ruffini «era un visionario ed un vero artista». Suo figlio Remo non è un artista del design di moda, ma lo è della gestione della creatività altrui, e ritrova molto del suo stile nella madre. «Il suo lavoro la appassionava tantissimo», ha scritto di recente in un suo editoriale per l’inserto «Il Foglio della Moda» del quotidiano Il Foglio e perdonate la pur necessarissima autocitazione: «era una donna dalla straordinaria creatività ma anche con grande senso dei numeri, sofisticata ma amante delle cose semplici, rigorosa ed affettuosa al tempo stesso. Sono cresciuto con questo esempio davanti agli occhi ogni giorno». Chicca Ruffini, bellissima donna che potete ritrovare in qualche rara foto sui libri di moda, aveva fondato e guidava un’azienda di abbigliamento per bambini. Verso il 1975, o forse era il 1977 (le versioni cambiano, ma diciamo negli anni immediatamente precedenti all’avvento dei paninari), Chicca Ruffini regalò uno di quei piumini Moncler modello Bibendum che allora andavano per la maggiore, nylon compatto in colori flash, gonfi di piuma cucita a larghe fasce, al figlio adolescente che ogni mattina doveva percorrere un lungo tratto di strada in motorino per raggiungere il liceo. Nessuno avrebbe potuto dirlo allora, ma il seme dell’imprenditore da 3,5 miliardi di patrimonio che sarebbe diventato il ragazzo comasco con i riccioli scurissimi, era già stato gettato, compresa la passione per quei giubbotti corti e gonfi dall’aria plastificata che oggi, quando li osserviamo sui libri di moda nella loro panoplia completa – taglio smanicato, maglioncino Benetton girocollo su camicia button down o smerlata, jeans Emporio Armani, Timberland da boscaiolo ai piedi – ci fanno chiedere come potessimo essere così orgogliosi di uno stile raffazzonato a tal punto. In Italia, il nome di Remo Ruffini si iniziò a sentire verso la fine degli Anni Novanta. Dopo la laurea in fashion marketing all’Università di Boston e una lunga gavetta presso la società del padre, alla fine degli Ottanta era rientrato in Italia e aveva lanciato due linee di abbigliamento dai nomi “Us sounding” che in quegli anni erano il massimo della raffinatezza: New England Company e Ingrose. Nel Duemila li aveva venduti a Stefanel, ricavandone una bella plusvalenza, e aveva iniziato a guardarsi in giro. La preda perfetta si sarebbe presentata poco tempo dopo, con i primi segnali di crisi della Fin.Part di Gianluigi Facchini, il capostipite dei molti tentativi italiani di dar vita a una multinazionale della moda. Era il 2003: Fin.Part cedette Moncler per 30 milioni di euro. Il marchio venne attribuito a una società partecipata dal brand Remo Ruffini, al 24 per cento da Vela Financial Holding del gruppo Bucherer e al 25 per cento dalla stessa Fin.Part, che incassò una plusvalenza di circa 16 milioni di euro con cui mise a tacere i creditori per un po’, anche perché aveva conservato le attività produttive e commerciali del marchio. Tre anni dopo, le ripercussioni del celebre e nefasto “bond Cerruti”, avrebbero dato l’ultima spallata all’impero di Facchini, che sarebbe finito agli arresti per bancarotta. Ruffini rilevò quel che c’era da rilevare, e incominciò a rielaborare il modello del piumino, lavorando sull’unico vero impedimento alla crescita: la stagionalità. Ci ha messo più di un decennio, procedendo passo dopo passo, per avvicinamento: dapprima la suddivisione in linee ed etichette diverse, affidate a stilisti couture come Giambattista Valli; poi, l’approccio generazionale e di modalità di utilizzo (una signora non vive il piumino come una ventenne). Infine, la rivoluzione. Il progetto Genius – otto stilisti, otto collezioni diverse rilasciate una al mese, diciamo una massimizzazione organizzativa della strategia mai troppo ben praticata delle collaborazioni – parte nel febbraio del 2018. Tre anni dopo è oggetto di studio nelle università e largamente imitato. Nel frattempo, cioè in piena pandemia, Ruffini ha acquisito Stone Island sulla base di una valutazione da 1,15 miliardi calcolata sulla totalità delle azioni. Come abbia diffuso la notizia spiega che tipo sia Ruffini più di molte parole: una nota accompagnata dalla filosofia di Stone Island «beyond fashion, beyond luxury» condivisa attraverso Instagram anche dal marchio di piumini di alta gamma, in cui i due brand hanno evidenziato la volontà di consolidare con questa unione il loro posizionamento all’interno del segmento del lusso. Un sodalizio manageriale e creativo, quindi, anche per Carlo Rivetti, uno degli eredi della gloriosa famiglia che negli Anni Settanta rivoluzionò il sistema della moda mondiale e che finì per soccombere sotto le successive gestioni e trasformazioni operate da Agnelli e Romiti. Stone Island aveva, come ha tuttora, molte potenzialità, ma non i capitali sufficienti e le competenze per espandersi nei mercati americano e asiatico, fondamentali soprattutto per il dopo pandemia, e nel canale direct to consumer, oltre a condividere con Moncler la cultura della sostenibilità che le ha permesso, per il secondo anno consecutivo, di posizionarsi al primo posto come industry leader del settore Textile, apparel & luxury goods negli indici Dow Jones sustainability world and Europe. «Fino a pochi anni fa la sostenibilità era un accessorio», ci disse Remo Ruffini dopo aver conquistato il suo primo podio. «Oggi è una colonna del business, soprattutto se devi attrarre la clientela giovane: la giacca che proponi deve essere bella, ma soprattutto pulita. Non si tratta, però, di un processo che un’azienda possa compiere da sola: deve avere il supporto della filiera, dei produttori. E, naturalmente, anche di chi compra. Si può lavorare sulla durabilità del prodotto, sulla sua seconda vita, sul riciclo che, in casi come il nostro, in cui il capo nasce da molti componenti diversi, è particolarmente complesso. Si può azzerare il magazzino regalando capi a chi non se lo può permettere, e sono tutte cose che facciamo; ma il mondo migliore che ci chiedono i nostri figli, i nostri investitori e i nostri clienti, si crea tutti insieme. In questo processo il ruolo della community è fondamentale. Ed è anche per questo che lavoriamo al suo coinvolgimento, quotidiano e personale». Gli spazi in cui Remo Ruffini si muove e lavora, negli headquarters di Moncler in via Solari a Milano allestiti in quel punto di grigio antracite in cui declina tutte le sue case, fra campate di mattoni vetero-industriali a vista e vasi di piante tropicali che sceglie personalmente, rivelano un uomo abituato ad ascoltare, mettere tutti a proprio agio spingendoli a dare il meglio di sé, e poi ad agire da solo. Delle affermazioni dell’interlocutore, per esempio, trattiene il dettaglio che lo interessa; poi lo elabora e lo include nel proprio discorso, magari di spirito diametralmente opposto a quello della persona con cui sta parlando. Il risultato è che ci si trova sempre ad accondiscendere, soddisfatti, a quello che vuol dire lui. In Moncler, che ha chiuso il primo trimestre che 2021 con ricavi consolidati stati pari a 365,5 milioni di euro, in aumento del 21 per cento a cambi costanti (18 per cento a tassi di cambio correnti) e ricavi retail a 279,2 milioni, +22 per cento. È iniziato, come dice il patron, «un anno importante. Un anno che ci auguriamo di rinascita e di nuova energia; e per noi di grande progettualità». «Non ho mai visto un imprenditore con un’idea più chiara del suo progetto di business», ci disse tempo fa un banchiere del gruppo Bank of America che tiene in ufficio la statuetta di una papera in piumino smaltata in argento, spiritoso dono di Moncler dopo la clamorosa quotazione del 2013. Da qualche tempo, sull’onda del movimento mondiale pro-inclusione, anche Moncler ha avviato il suo comitato interno «per accompagnarci in questo percorso attraverso attività di formazione e sensibilizzazione, eradicando i pregiudizi impliciti di ognuno di noi». In Moncler, il 70 per cento della popolazione-dipendenti e il 56 per cento dei dirigenti è composta da donne, circa il doppio dei concorrenti. Ci pare già un bel passo avanti.

 

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Autore: Jean-Jacques Halans 
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