La foto più famosa pubblicata in Corea del Sud negli ultimi anni raffigura un giovane uomo con un completo elegante mentre, in manette, viene scortato da poliziotti in divisa. L’uomo è Lee Jae-yong, ed è il capo del grande impero industriale Samsung, figlio del patriarca Lee Kun-hee, e unico erede maschio della più grande dinastia d’affari di Corea, una delle più grandi di tutta l’Asia. La foto in realtà è stata scattata molte volte: Lee Jae-yong fu arrestato dapprima nel 2017 con accuse di corruzione che arrivarono a coinvolgere il governo del paese, e poi è stato rilasciato e portato più volte in carcere negli ultimi anni. La foto di Lee Jae-yong ebbe un effetto pazzesco sul pubblico e sull’industria coreani. La famiglia Lee, di gran lunga la più potente del paese, per decenni era stata considerata intoccabile, e quando il suo rampollo fu arrestato si parlò della fine di un’èra, di una rivoluzione per l’industria coreana, e di un cambiamento epocale per tutto il paese.
L'arresto
Per capire l’effetto enorme che la foto di Lee Jae-yong in manette fece sui coreani, bisogna capire anzitutto Samsung. In Italia e in occidente, Samsung è una notissima azienda di tecnologia ed elettronica, che produce telefoni, computer, frigoriferi, lavatrici e altri apparecchi molto venduti. Ma in Corea, Samsung è infinitamente di più. Oltre ad avere il dominio del settore dell’elettronica di consumo, tramite varie aziende controllate Samsung è anche una delle più grandi società di costruzione del mondo, il secondo costruttore di navi del pianeta, è una grossa compagnia di assicurazioni, una multinazionale delle biotecnologie, gestisce una rete di ospedali, costruisce centrali elettriche e industrie di raffinazione del petrolio, è leader mondiale nella produzione di batterie e di semiconduttori – e si potrebbe andare avanti. Samsung è così importante per la Corea che il suo fatturato equivale a poco meno del 15 per cento del pil totale del paese: se Samsung fallisce, l’intero paese diventa da un giorno all’altro più povero. Ed è per questo che, quando Lee Jae-yong è finito in prigione, tutti si sono chiesti se un’epoca stesse finendo.
Samsung è un “chaebol”
Samsung è un “chaebol”, un termine costituito delle parole coreane “ricchezza” e “clan”. I chaebol sono giganteschi conglomerati industriali gestiti da una sola famiglia, tipici non soltanto della Corea ma di altri paesi dell’Asia (in Giappone, per esempio, prima della Seconda guerra mondiale si chiamavano “zaibatsu”), che negli anni Sessanta resero possibile il boom economico del paese. Furono creati dal dittatore Park Chung-hee, che scelse alcune aziende (e dunque alcune famiglie) per trasformarle in campioni nazionali fornendo loro aiuti di stato ed enormi risorse. La strategia funzionò: oggi la Corea è una delle principali potenze economiche del mondo (la dodicesima per grandezza del pil, poco sotto l’Italia). Ichaebol sono ancora decine e dominano l’economia del paese. Alcuni sono famosi anche in occidente: oltre a Samsung, sono chaebol anche LG e Hyundai, per esempio. Il problema, oggi, è che secondo la maggior parte degli esperti il modello di sviluppo che ha consentito i grande boom coreano non è più adatto alle sfide del Ventunesimo secolo. I chaebol sono considerati poco efficienti, sono diventati una ragione di corruzione e malaffare nel paese e sono anche piuttosto malvisti dai coreani, che non apprezzano l’eccezionale privilegio e ricchezza concentrato nelle mani di pochissime famiglie. Samsung è il prefetto esempio di tutti questi problemi.
L’enorme potere economico di Samsung in Corea ha fatto sì che nel corso dei decenni, man mano che l’azienda si espandeva nei principali settori industriali del paese, il rapporto tra impresa e stato diventasse sempre più simbiotico: Samsung serviva alla Corea e la Corea serviva a Samsung.
Questo significa, tra l’altro, che alla famiglia Lee era concesso di fatto la totale immunità. Nei decenni passati, il patriarca Lee Kun-hee fu accusato due volte dai procuratori coreani, dapprima di aver corrotto il presidente, poi di evasione fiscale e appropriazione indebita. Per questi reati avrebbe potuto scontare una pena detentiva, ma non avvenne mai, e anzi ricevette il perdono presidenziale. Da decenni in Corea si parla di riformare i chaebol, senza successo. Il modello dei grandi conglomerati famigliari, che ha avuto una notevole forza nella seconda metà del Novecento, è sempre meno dinamico, riduce la competizione e rende l’economia coreana dipendente da poche famiglie. Per esempio, mentre il giovane Lee Jae-yong era in prigione la comunità d’affari coreana si mobilitò per la sua liberazione, perché, anche se Samsung è gestita da una schiera di manager professionisti, senza un rappresentante della famiglia Lee al comando nessuno prendeva le decisioni più pesanti e strategiche. Secondo molti esperti, di fatto, aziende come Samsung hanno smesso di essere un elemento di crescita e stanno diventando un ostacolo ai cambiamenti necessari per consentire al paese di rimanere competitivo. Anche gli investitori internazionali si fidano poco dei chaebol: esiste perfino un termine specifico, lo “sconto coreano”, per indicare il fatto che le azioni delle aziende coreane valgono meno delle loro pari americane o cinesi, perché secondo gli investitori mettere soldi in un chaebol è più rischioso a causa della corruzione, dell’assetto societario che favorisce le famiglie al potere e di altri fattori.
L'eredità, il fisco, le trattative
Anche buona parte dell’opinione pubblica coreana spinge per le riforme. L’immagine della famiglia Lee, per esempio, oltre che dagli scandali è stata colpita anche da polemiche sull’enorme ricchezza dei suoi membri. Quando il patriarca Lee Kun-hee è morto, a ottobre del 2020, i suoi tre figli (Lee Jae-yong e due sorelle) hanno cominciato complesse trattative con il fisco per la gestione dell’eredità. La Corea ha una delle imposte di successione più alte del mondo, e alla fine i tre fratelli hanno pagato quasi nove miliardi di euro soltanto in tasse. Inoltre, hanno promesso di donare ai musei coreani l’enorme collezione d’arte di loro padre: 23 mila opere, compresi dipinti di Monet, Dalí e Picasso. Ma nonostante le pressioni le riforme non sono mai riuscite del tutto. Il fatto è che, per la Corea, Samsung è ancora il più prezioso tesoro nazionale. Non soltanto perché è una multinazionale ricchissima, come abbiamo visto, ma anche perché è una delle aziende più strategiche del mondo. L’esempio perfetto sono i microchip, cioè i componenti necessari per il funzionamento di smartphone, computer, frigoriferi, automobili, missili balistici e praticamente qualunque cosa che abbia dell’elettronica al suo interno. Di microchip, in questo periodo, c’è eccezionale richiesta, e Samsung è uno dei principali produttori al mondo. Non solo: costruire microchip, soprattutto i più sofisticati, è eccezionalmente difficile: servono investimenti ingenti, infrastrutture complesse, conoscenze molto specifiche e anni di lavoro. Non si costruisce una fabbrica di microchip in pochi mesi, ed è per questo che i microchip sono così importanti. Ora, al mondo ci sono soltanto due aziende capaci di costruire microchip di ultima generazione, i più complessi e importanti: una è la taiwanese TSMC, e l’altra è Samsung. Questo rende Samsung importante non soltanto a livello economico, ma anche strategico e perfino militare. La grossa sfida per la Corea – e per Samsung – è trovare un equilibrio tra il rapporto simbiotico sviluppato con i suoi chaebol e le necessità del nuovo secolo. Il paese ha bisogno di riformare i grandi conglomerati industriali per poter reggere la competizione internazionale di economie più dinamiche, come la Cina. Ma deve trovare il modo di farlo senza danneggiare la crescita economica, che dipende proprio da quei conglomerati. Samsung, per la Corea, è una delle più grandi risorse nazionali, e per molti versi è anche un motivo di orgoglio. Ma è, al tempo stesso, anche uno dei suoi problemi più grossi.