È una lunga marcia che dura da ottant’anni quella che collega il calesse che, anno 1941, trasportava dalla val Gandino lungo le strade delle Prealpi Orobie, le coperte ed i copriletti prodotti dalle premiate tessiture di Pietro Radici con la multinazionale di oggi, Radici Group, presente in 15 Paesi in tre Continenti, con 24 siti produttivi. C’è un fil rouge che non si è interrotto nell’anno della pandemia che accompagna la storia di una passione per l’industria che, anno dopo anno, ha saputo conquistare anche in Cina la fiducia degli interlocutori più esigenti fino a fare della multinazionale tascabile bergamasca un partner strategico, tra i leader di mercato in un segmento, quello dei tecnopolimeri, in rapida evoluzione tecnologica. È una case history quella di Radici Group ai piedi della Grande Muraglia che merita ripercorrere per la tenacia e la pazienza con cui la società ha saputo costruire, mattone dopo mattone, una relazione destinata a durare nel tempo con ottime prospettive, testimoniate dai nuovi investimenti. Una lezione che dura ormai da mezzo secolo, come ci spiega Maurizio Radici, Vicepresidente e Chief Operating Officer del gruppo che guida insieme ai fratelli Angelo e Paolo, ovvero la terza generazione del gruppo che, per merito del padre Giovanni, fin quasi dalle origini, ha saputo diversificare produzioni e mercati.
Fino ad approdare, tra l’altro, in Cina nel 2003, guarda caso l’anno dell’ingresso di Pechino nel WTO, una data chiave per l’economia globale. Una combinazione od una scelta mirata?
Diciamo una tappa di un percorso tracciato da mio padre Gianni che già negli anni Settanta fece il primo viaggio nel Paese, avvertendo subito le enormi potenzialità di sviluppo di quell’economia. Così negli anni ‘80 il Gruppo iniziò anche in Cina un’attività di progettazione e realizzazione di impianti per polimerizzazioni e filature “chiavi in mano”, attraverso la società NoyVallesina Engineering. Successivamente fu aperto un ufficio a Shanghai che diede il via a numerose esperienze commerciali con la vendita di acido adipico e polimeri. Nel 2003 ci fu l’apertura in Cina anche di ItemaGroup, società meccano-tessile che fa capo alla nostra famiglia e oggi ancora presente a Shanghai.
Poi arrivano i tecnopolimeri.
Sempre nel 2003 prese il via l’attività produttiva di tecnopolimeri, oggi per RadiciGroup il core business della presenza in Cina: quasi vent’anni di lavoro il cui bilancio è sicuramente positivo, sotto molteplici aspetti. Ne è testimonianza anche il nostro recente investimento per la costruzione di un nuovo stabilimento (nel Parco Industriale del distretto di Suxiang nella città di Suzhou) che ci permetterà di consolidare il profilo di player globale della nostra divisione tecnopolimeri e accelerarne la crescita. L’ingresso della Cina nel WTO, e quindi l’apertura delle autorità agli investimenti diretti dall’estero senza l’obbligo di compartecipazione cinese, ci ha dato l’opportunità di muoverci più liberamente, e decidere in autonomia le strategie. In generale non abbiamo mai avuto difficoltà nel relazionarci con le autorità locali, e anzi, abbiamo potuto muoverci sempre nell’ambito di regole vincolanti ma chiare e trasparenti.
Qual è stato l’impatto con il mondo del lavoro? È cambiato qualcosa nel corso del tempo, a mano a mano che la Cina da Paese emergente di trasformava in grande potenza industriale?
Gli alti tassi di turnover del personale qualificato erano la regola generale durante i nostri primi anni nel Paese. Parlando della nostra esperienza, credo che nel tempo siamo riusciti a costruire un clima di fiducia che si traduce in rapporti di lavoro duraturi e anzianità di impiego sopra la media. Anche per la Cina l’invecchiamento della popolazione è una preoccupazione importante perché in futuro il Paese potrà contare su un minor numero di giovani, e necessariamente dovrà compensare tale fattore con un livello di formazione mediamente sempre più elevato, puntando chiaramente a un modello di sviluppo diverso.
Naturalmente è cambiato anche il costo del lavoro.
Il costo del lavoro non è mai stato per noi una variabile decisiva per investire in Cina: non è per noi una Best-Cost Country, ma un mercato in cui è necessario esserci per intercettarne la crescita in settori che richiedono catene produttive corte e reattive ed essere così partner strategici dei nostri clienti nello sviluppo di soluzioni innovative.
A proposito di catene produttive si fa un gran parlare dei colli di bottiglia che danneggiano il ciclo produttivo: aumento dell’energia, e delle materie prime, problemi logistici, eccetera. Qual è la vostra esperienza? È un problema solo temporaneo, secondo voi?
Questa “temporaneità” dura oramai da quasi un anno, se non consideriamo gli squilibri provocati l’anno scorso dallo scoppio del Covid. C’è una questione di fondo che investe la fragilità crescente di catene del valore globali. Nello specifico, la crescita della Cina assorbe la maggiore domanda di materie prime al mondo, e quindi di energia. In questo senso ha condizionato e condiziona gli equilibri mondiali tra domanda e offerta. A ciò si unisce la crescente attenzione verso i danni provocati dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, che portano la Cina ad applicare misure che hanno conseguenze immediate sulle catene produttive. L’ultimo esempio e più recente sono le molteplici fermate causate dai divieti di sforamento dei target di utilizzo di energia elettrica per attività produttive che stanno provocando una brusca frenata dell’industria nella maggior parte delle province cinesi.
Ha ancora senso, in questa cornice, parlare di un primato cinese nel manufacturing oppure i margini si stanno erodendo? Ci può fare, ad esempio, un paragone con l’India?
Faccio delle considerazioni generali che non riguardano direttamente le nostre attività produttive in questi paesi. La corsa verso Paesi che offrono costi della manodopera più bassi di quelli cinesi è iniziata già da qualche anno, come conseguenza inevitabile della crescita cinese, he ha aumentato la ricchezza del Paese e quindi anche i costi. Se la forza della Cina sono i grandi numeri, credo che lo stesso possa dirsi dell’India, ma con alcune importanti differenze, tra cui sicuramente il peso del settore industriale per il PIL dei due Paesi, che va decisamente a vantaggio della Cina, dove lo sviluppo dell’industria è cominciato con almeno un decennio di anticipo. Per contro, nel PIL indiano i servizi sono una voce importante. Ci sono inoltre differenze nello sviluppo delle infrastrutture che premiano nettamente il Dragone.
Siete un’azienda ad alto contenuto tecnologico: avete avuto problemi di plagio, violazione della proprietà intellettuale?
Sono questioni all’ordine del giorno in Cina, ma non ne siamo stati toccati in maniera importante. Anni fa, abbiamo avuto casi sporadici e poco rilevanti quali ad esempio la falsificazione del nostro packaging.
Siete un grande attore anche nell’industria dell’auto, presenti in molti segmenti della produzione, comprese batterie e componenti dell’auto elettrica. Qual è la vostra esperienza in Asia? Davvero la Cina è avanti all’Occidente?
I cinesi hanno creduto per primi all’auto elettrica, e hanno agito subito con regolamenti e incentivi per favorire la crescita della produzione dei cosiddetti NEV (New Energy Vehicles). Oggi sono all’avanguardia tecnologica se si guarda alle performance delle auto elettriche, e i più forti dal punto di vista industriale se si considera anche la produzione di celle batteria. L’importanza dell’Europa – in particolare della Germania - però è in aumento, e le aspettative al 2025 sono che nei prossimi anni diventerà, insieme alla Cina, il mercato con i tassi di crescita più elevati per le auto a batteria.
RadiciGroup è una realtà con forti legami con il territorio, ovvero con un’area colpita in maniera profonda dalla pandemia. Come giudicate, sulla base della vostra esperienza italiana (e non solo), le misure prese dalle autorità cinesi all’inizio dell’emergenza e più avanti?
Credo che nessuna nazione al mondo sia esente da critiche quanto alle esitazioni iniziali nell’affrontare una pandemia di queste proporzioni. Detto questo, nel valutare l’efficacia delle misure prese in Occidente rispetto alle autorità cinesi, si deve tenere conto delle differenze sostanziali nel concepire i rapporti tra lo Stato, la collettività e l’individuo. Partendo da qui, non si può certo negare l’efficacia delle misure prese in Cina. Lo dimostra il fatto che già nel secondo trimestre dell’anno scorso l’economia del Dragone era ripartita e anche per quel che riguarda la nostra attività nel mondo dei tecnopolimeri c’è stata una ripresa molto veloce.
La Cina continuerà ad essere la fabbrica del mondo? E se sì, perché?
La forza trainante della Cina è stata per 40 anni la capacità di organizzare grandi produzioni standardizzate con un modello fortemente orientato all’esportazione. Il modello ora sta cambiando, e le conseguenze sulla manifattura cinese causate dalla turbolenza della domanda internazionale negli ultimi anni stanno orientando sempre di più gli obiettivi futuri verso la crescita del mercato interno e il cosiddetto “decoupling” dalla domanda internazionale. La Cina vuole però raggiungere l’obiettivo strategico dell’autosufficienza anche attraverso la leadership nell’Intelligenza Artificiale che consentirà di soddisfare la domanda di elevati standard qualitativi, riducendo il ricorso all’importazione.
La vostra famiglia, a suo tempo, ha avuto l’intuizione ed il coraggio di entrare nella chimica delle specialità quando gli altri, una volta esauriti i contributi di Stato, ne uscivano. Ritiene che ci siano le premesse nel nostro Paese per vivere una nuova fase di ripresa, magari all’insegna della sostenibilità?
Penso che per far ripartire l’economia del Paese, c’è bisogno del contributo di tutti, ottimizzando competenze e opportunità e noi come RadiciGroup ci impegniamo per fare la nostra parte, collaborando con i principali stakeholder. Il Recovery Fund e il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono incoraggianti in tal senso e vanno nella direzione di cogliere le opportunità offerte dalla transizione verde e dalla transizione digitale che, frequentemente, sono strettamente interconnesse. Gli imprenditori sono disposti a investire ma c’è bisogno anche del supporto della politica per filiere di prima necessità made in Europe, trasparenti e tracciabili sulle quali il consumatore, sempre più sensibile ai temi della sostenibilità, può fare affidamento. Per quanto ci riguarda “Ricerca, Innovazione, Sostenibilità e Valorizzazione del Territorio” sono le parole chiave che ci guidano nelle azioni quotidiane e nella strategia di business per il futuro, consapevoli che il nostro ruolo è fondamentale per la ripartenza dell’economia del Paese.