“Sono sempre stato convinto che tutti coloro che amano essere appariscenti, che godono nel sentirsi importanti siano spesso mossi da necessità e bisogni che hanno poco a che fare con l’essenza dell’essere.” 

In una frase ecco riassunto Aldo Giacomello, da cinquant’anni primo portiere del grandioso Beau Rivage di Ginevra e personaggio cardine delle Clefs d’Or, associazione che riunisce, in una grande famiglia, i concierge dei migliori hotel del pianeta. Aldo lo dice limitandosi ad una semplice osservazione con la genuinità e l’assenza di giudizio che lo contraddistinguono. Qualità difficili da coltivare quando si è vissuta una vita così intensa e speciale. Perché la vita di un grande concierge ha come caratteristica principale proprio l’essere fuori dall’ordinario. Lo avevo intuito anni fa ascoltando, da un suo collega, un simpatico aneddoto e, da allora, mi era rimasta la curiosità, quasi un tarlo, di scoprire cosa si celasse dietro a quel mondo. Quando mi ero finalmente deciso a farlo avevo avvertito la necessità di avere la sua benedizione.

Lo vidi per la prima volta il 6 Ottobre del 1979 nella chiesetta della Salute di Marsure nel natio Friuli. Avevo sei anni. Eravamo stati invitati al loro matrimonio da Marinella, cugina di mia madre. L’anno prima a Vienna, al Congresso mondiale delle Clefs d’Or, Renzo Chiaranda mito del Grand Hotel di Roma, compaesano di Grizzo di Montereale Valcellina, lo aveva trascinato da Toni Del Fabbro che voleva conoscerlo. Dopo quella breve conversazione di cortesia, alla fine del congresso, si erano ripromessi di rivedersi se mai fosse passato a Milano. Aldo aveva 32 anni ed era ben lungi dall’idea di sposarsi. Ma qualcosa sarebbe cambiato. Toni era infatti il padre di quella che sarebbe diventata sua moglie e lo avrebbe sostenuto incondizionatamente contribuendo al suo successo personale. Toni però era anche il fratello di mia nonna Angela. Nel 2009, a quasi 30 anni dal matrimonio e senza averlo mai rivisto da allora, eccomi al telefono con Aldo: “Secondo me è una buona idea. Sarò felice di aiutarti” mi dice. Di li a poco avrei fatto una delle esperienze più belle della mia vita: raccogliere in un libro i racconti di alcuni dei più grandi portieri Italiani degli alberghi di lusso.

Oggi, a distanza di quasi 10 anni, con la giusta distanza, vedo nella nostra conversazione telefonica la chiusura di un cerchio fatto di un sangue “comune”. Un percorso cominciato dal Nonno di Aldo, Antonio, portiere negli anni ’40 dell’Excelsior al Lido di Venezia,  maestro (e collega) di leggende come Franco Vinci. Proseguito poi da suo padre Tiziano, tra i primi tesserati della nascente Associazione Europea alla cui fondazione assistette, in qualità di rappresentante della sezione italiana, proprio il futuro suocero Toni, fratello di mia nonna.

Le Clefs d’Or sono un’associazione mondiale che raccoglie oltre 4000 concierge dislocati in 80 paesi. Li riconoscete per via delle esclusive chiavi d’oro appuntante sul bavero della loro redingote. Chiavi create appositamente per loro dalla storica gioielleria Bucherer di Lucerna. Fu proprio Aldo a proporlo nel 1997. “Dovevamo creare un simbolo affinché il cliente degli alberghi di lusso potesse identificare con certezza un Clefs d’Or. Era evidente che la crescente indiscriminazione con cui le chiavi erano portate rappresentasse, al posto di un chiara identificazione, un motivo di equivoco.” Gli Americani, infatti, avevano portato all’interno dell’ospitalità un’attitudine marketing fino ad allora sconosciuta. Le chiavi finirono su qualunque cosa. Il mercato creò un abuso di questa simbologia allontanandola da ciò che aveva rappresentato fino ad allora. Apparve un “concierge desk” anche nei centri commerciali, nelle banche, negli aeroporti! Invece il portiere chiavi d’Oro rappresenta la quintessenza del servizio, la differenza dalla normalità. In qualche modo aveva raccolto l’eredità del maggiordomo delle famiglie nobili quando la società del dopoguerra cambiò, le distanze si ridussero e le esigenze ed occasioni di viaggio si moltiplicarono. Nacque infatti la necessità di trovare un punto di riferimento al di fuori della propria casa, una equipe in grado di assistere in tutto il viaggiatore; in qualunque luogo giungesse. Il portiere apre fisicamente le porte accogliendolo nella Casa ma è anche in grado di stabilire un canale di comunicazione privilegiato col cliente che va oltre l’espletazione delle singole richieste. Tuttavia, come faceva il maggiordomo, resta fidelizzato alla casa che rappresenta come nel caso di Aldo che ne è ufficialmente anche l’ambasciatore in tutto il mondo. “Quando presento a qualcuno della proprietà un cliente che non conosce dico sempre “Mi permetto di presentarle il Sig. Mayer che è il proprietario del mio albergo”. E lui risponde “Grazie Monsieur l’Ambassador”. La grandezza di questo approccio risiede nel lasciare da parte un elemento emotivo in grado, altrimenti, di generare una malsana “gelosia”.” La figura del Concierge è ingombrante perché, di fatto, è il front man, il fulcro, il fuoriclasse che può aggiungere una stella alle stelle di qualunque hotel. Specie in un mondo in cui la standardizzazione, sebbene ad alto livello, ha preso largo. Nelle epoche passate il portiere era un solista a volte egocentrico. A figure leggendarie come Tortorella a Venezia, Pinto a Roma, Franzetti a Milano vengono associate parole come “principe, barone o addirittura duce” perché, come ho scritto nel mio libro, restavano in sella come i Papi fino alla morte diventando figure mitologiche. Non senza qualche controindicazione. “Si sparse la nomea che badassero volentieri al “cassetto” e così la seconda generazione, la mia, ha dovuto ricostruire la propria credibilità. Chi non riusciva a farlo venne pian piano emarginato e finì col diventare un impiegato del front desk. La cosa però pagò visto che le grandi catene, dopo aver pianificato l’eliminazione della portineria, dovettero ricostruire la rete.” Ed anche in questo Aldo è stato protagonista spingendo all’introduzione dell’Articolo 4 dello Statuto dell’Associazione che identificava i membri Chiavi d’Oro esclusivamente come impiegati d’albergo in qualità di portiere. Il principio fu che il portiere, in quel tipo di hotel, non lo possono fare tutti. Deve essere un Clefs d’Or, avere le chiavi ufficiali Bucherer. Che si traduce in una selezione severa in grado di garantire una qualità del servizio superiore.

La figura di Giacomello è estremamente affascinante poiché è, probabilmente, l’unica persona ad aver vissuto da bambino indirettamente e, sin da adolescente, in prima persona l’evoluzione dell’Associazione di cui è un rappresentante di primo piano. In essa ha ricoperto tutte le posizioni immaginabili e, tuttora, è Presidente Onorario Internazionale, membro del comitato dei Saggi ma, soprattutto, “Good Will Ambassador” ossia colui a cui viene affidata, quando necessaria, la mediazione. Tradotto: quello di cui ci si fida di più. E del resto chi meglio di qualcuno allevato a “pane e Chiavi d’Oro”? “Ho questa visione, a cinque anni, di un nonno galantuomo, sempre distinto, vestito a tre pezzi con il gilet. Era portiere all’Excelsior del Lido di Venezia, un albergo che era uno dei fiori d’Italia. Fu però mio padre ad impressionarmi. Integro e di carattere, era un uomo molto forte, una figura patriarcale. Era stato ingaggiato come capo portiere per l’apertura del Villa Cortina di Sirmione. Creò dal nulla una brigata: dai facchini, al personale di ricevimento e poi a salire. Così, nel periodo estivo nel ’58, decise di portarmi con lui per tre mesi.” Fu a Villa Cortina che Aldo, appena dodicenne, rimase folgorato da ciò che avidamente osservava. “Ero affascinato dal vedere la maniera in cui papà operava. Chiunque da bimbo vede il proprietario, il direttore, il docente o il professore come persone importanti, grandi, inarrivabili. Io vedevo invece tutti ossequiosi e pieni di attenzioni verso mio padre. Aveva la grande forza di essere se stesso e di tenere in grande considerazione l’importanza del cliente pur trovando un equilibrio relazionale con lui. La qual cosa mi affascinava enormemente. Avevo l’impressione che riuscisse in tutto quello che faceva. Tutto scorreva liscio. La gente era stupita da quello che riusciva ad ottenere dal e per il cliente: era come se lo leggesse.” Ma questa esperienza fu altrettanto fondamentale per un’altra ragione. Divenne la mascotte della Casa ed i clienti spesso volevano che li accompagnasse nelle loro attività. “Ci mandi suo figlio che lo portiamo con noi a fare la gita in barca!” dicevano. L’albergo era uno dei punti di riferimento per un’elevatissima clientela Milanese e Tedesca. “Ero trattato come uno dei loro (pur sapendo di non esserlo). Ho avuto la fortuna di vivere in un contesto favorevole ma anche l’intelligenza di non abusarne”. Questa consapevolezza, estremamente matura per un ragazzo di dodici anni, ebbe l’effetto di “normalizzare” la percezione di questi personaggi: una componente fondamentale nel lavoro di Concierge. “Trattare il cliente da cliente, qualunque sia il grado di vicinanza è alla base di tutto. Ho fatto cose fuori dall’ordinario ma rimanendo sempre nei giusti parametri. Sapendo fare un passo verso il cliente per comprenderlo, senza esercitare alcun giudizio, anche di fronte a comportamenti apertamente bizzarri e, al tempo stesso, un passo indietro che permettesse il distacco adeguato a non farsi coinvolgere dalla bizzarria e mantenere gli occhi sul perseguimento di un risultato.” Questa legge d’oro ricorre nelle testimonianze dei più grandi. Ed è una legge che non impedisce di godere della stima e dell’affetto (e, perché no, della gratificazione) del cliente ma che permette di non fare cortocircuito e, dal punto di vista professionale, di durare nel tempo fino a, eventualmente, diventare indispensabile. Ed è una qualità che una proprietà intelligente riconosce. “Sono diventato concierge del Beau Rivage poco più che ventenne e mai sono stato un portiere di ordinaria amministrazione. Ho sempre fatto in modo di agire al di fuori degli standard per poter fornire un servizio che li travalicasse. La proprietà mi diede come priorità quella di gestire le attività del cliente non solo intese nella Casa, ma anche in senso più ampio, seguendo le necessità dei clienti anche fuori dall’albergo. Ed è ciò che mi ha portato a viaggiare e sperimentare facendo si che questa mia attività creasse un rapporto con i clienti tale che, quando volevano manifestarmi la loro gratitudine, accogliendomi nel “loro spazio”, dessero il loro meglio e mi introducessero, tra l’altro, ad altri. Cosa significa seguirli fuori? Rispondere a dei bisogni. Ad esempio venivano in Svizzera per scegliere la scuola dei figli o per problemi di salute. E così per diversi ho seguito le cure o i figli nelle scuole internazionali. Di qualunque cosa questi ultimi avessero bisogno me ne occupavo io. Se erano malati passavo persino a trovarli per accertarmi delle loro condizioni.” Non era propriamente un servizio a pagamento ma neanche “gratuito” e permetteva al cliente di sviluppare in autonomia una sorta di “dipendenza” dal Concierge. Era una forma estrema di fidelizzazione che andava oltre il moderno concetto di scontistica, accumulo punti, reward che all’epoca non esisteva. Spendendo in quell’albergo si sapeva che si sarebbero avuti vantaggi collaterali. Ma per creare una relazione di così forte fiducia non è sufficiente né consigliabile essere semplicemente accondiscendenti. “Quando hai una relazione che ti espone ad entrare nel suo intimo, il cliente ti può anche vomitare questo intimo addosso. Sono cose che, probabilmente, nella sua quotidianità non lascerebbe trapelare ma lo fa perché, evidentemente, sente il bisogno, l’urgenza di sentirsi se stesso. Ma devi sapere che subito dopo rientrerà nel suo personaggio. E dovrai agire come se nulla fosse successo. Lui sa che tu sai ma deve percepire che la cosa sia stata archiviata. Così, quando ne sentirà nuovamente il bisogno, lo rifarà. In questo caso la tua figura diventa quasi fondamentale. Più l’essere umano ha responsabilità più necessita di sfoghi. Se poi aggiungi la fragilità di alcuni… Tuttavia è necessario anche saper dire no! Perché questo rinsalda il rapporto ed evita di commettere e far commettere errori. Frequentemente mi sono trovato di fronte a persone in procinto di sbagliare. In conseguenza ad un no secco, l’indomani, il cliente passava davanti a testa bassa e ti mormorava “Grazie”.” Le chiavi sul bavero riconducono proprio a queste due dimensioni. Al principio di accesso ad uno spazio fisico che accolga ma altresì l’accesso ad uno spazio d’incontro legato ad una sfera più emotiva. Ad una speciale forma di “amicizia”. E l’amicizia, non a caso, è l’anima promotrice delle chiavi d’Oro stesse.

Nel 1929 le Clefs d’Or vedono la luce ad opera di una serie di portieri parigini che facevano capo a Monsieur Pierre Quentain. Poi, tra le due guerre mondiali, un gran numero di svizzeri emigrarono in diversi paesi europei e presero servizio negli alberghi. Era gente considerata molto seria. Non per niente le guardie del Papa sono tuttora Svizzere o i mercenari di quel paese erano considerati i più affidabili, fedeli e feroci. Oltre alla serietà però avevano la facoltà di parlare almeno due lingue, cosa che difettava negli altri.

Così alcuni di essi, tutti provenienti dal Vallese ed arrivati a Parigi e Londra negli anni ’20 del Novecento, avendo, per via della loro amicizia, mantenuto i rapporti iniziarono ad utilizzare questa loro rete a fini lavorativi scambiandosi idee ed esperienze. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale però tutto si fermò. Alla ripresa della vita “normale” il mondo europeo si trovò a doversi muovere, viaggiare, coprire le distanze in maniera molto più rapida di quello che era prima del conflitto. Aumentò altresì la necessità di comunicare meglio e mantenere rapporti in luoghi lontani. E così, quel gruppo di concierge, capitanati dal conterraneo Ferdinand Gillet contribuirono a ricostituire la rete. La loro svizzera ed innata attitudine al dialogo tra culture e lingue diverse e la familiarità con un concetto di struttura federale giocarono sicuramente un ruolo fondamentale nella nascita di una Associazione Europea (U. E. P. G. H. Les Clefs d’Or) di cui il padre di Aldo fu tra i primi a ricevere una tessera.

L’associazione esaltò il concetto di amicizia facendolo prevalere su tutto e favorendo l’integrazione di stati profondamente diversi dal punto di vista culturale, di lingua se non di religione in barba agli strascichi politici ed ai rancori post bellici di vincitori e vinti. I paesi europei vennero chiamati a raccolta. Li convocarono nel 1951 non a caso nella loro patria, un paese rimasto perfettamente funzionante poiché neutrale. Qui incontrarono l’immediato interesse degli albergatori verso tutto quello che potesse portare clienti e turisti nei cantoni, specie quelli dove si moltiplicavano le stazioni turistiche in prossimità di laghi e montagne.

La forza delle Chiavi d’Oro fu associare capacità individuali di singoli attori al fine di rispondere alle esigenze dei clienti creando un network che moltiplicasse ed amplificasse queste capacità anche a distanza. Il loro motto era ed è “l’amicizia al servizio dell’ospitalità”. Nello sviluppo frenetico del dopoguerra erano in grado di comunicare in maniera rapida e semplice e di delegare la soluzione di alcuni problemi ai colleghi. I primi congressi servirono soprattutto per conoscersi tra membri delle sezioni nazionali e internazionali. Questo facilitava lo scambio di informazioni utili a soddisfare la clientela e ad incrementare il portafoglio clienti. Ma era anche il momento in cui si “saldavano i conti”. Infatti ogni collega che avesse sostenuto una spesa in nome di un altro veniva ripagato. Tutto avveniva in cash e fiducia. I concierge facevano propriamente sistema. E col tempo queste capacità vennero esaltate.

Nel mio libro parlo dell’Associazione come di un “internet Ante Litteram” dove “la creazione di una rete e quindi la decentralizzazione del sapere, permetteva al singolo concierge di specializzarsi sul proprio territorio ma allo stesso tempo di avere accesso a qualunque informazione in maniera rapida, efficace e snella. Ogni portiere era paragonabile a un website, a un link, a un hard disk.”

Di questo sistema e di questo fare sistema Aldo è stato da subito pregno e forse per questo è stato in grado di dare, per un così lungo periodo, un contributo fondamentale alla crescita delle Clefs d’Or. “Questa grande famiglia è una piscina in cui ho sempre nuotato senza affanno. Fino ai miei quindici anni ho avuto l’enorme fortuna di vivere la prima generazione dall’esterno, osservare i maestri fondatori, i miti che erano già in sella da diversi anni. E sono rimasto talmente impregnato da ciò che facevano che, quando ho iniziato a farlo io, era una cosa che mi riusciva con estrema naturalezza. Manco mi accorsi che facevo come loro. Sono forse uno di quei casi in cui l’allievo supera il maestro. Non certo solo per miei meriti ma perché il progresso tecnologico, il cambiamento culturale, la mutazione dei bisogni fa poi si che la nuova generazione abbia risposte più efficaci.” L’amicizia è davvero stato il motore di un’associazione che ha cercato per decenni di mettere i rapporti personali davanti a tutto. Aldo ama ricordare come questa attitudine sia stata in grado, in diverse occasioni di andare oltre a situazioni consolidate a livello mondiale. “Quando c’era ancora la Cortina di Ferro, per amicizia tra ungheresi e austriaci, gli ungheresi vennero a conoscenza della nostra associazione. A Budapest c’era un personaggio che serviva la nomenclatura politica. Quando ebbero bisogno di un favore a Parigi, questo collega utilizzò la sua personale relazione con quello francese ed ottenne un servizio per un rappresentante dell’Ungheria in viaggio nella capitale. Questo gesto fu riconosciuto come utile ed in Ungheria fu permesso di creare una sezione delle chiavi d’Oro che era la prima attività a cui era concesso di legarsi ad un’entità dell’ovest. Vi fu un avvallo, non ufficiale ma ufficioso, perché fu ritenuto mancare il rischio politico.” Non era un caso isolato. Anni prima la Spagna franchista fu accolta come “osservatore” sebbene il regime non le permettesse di associarsi e, assai indicativo, il primo membro non europeo fu il musulmano Marocco che, contro ogni aspettativa, fu a sua volta il principale promotore dell’inclusione di Israele. Lo Stesso Gillet, quando lasciò la presidenza Europea, propose che il successore fosse un Tedesco. E negli anni ’50 vi era un forte sentimento anti tedesco. “Questo spirito ha reso oggi possibile l’espansione delle Clefs d’Or in tutto il mondo. Una sensibilità che permette a culture differenti di non contrapporsi ma di capirsi cercando nei punti di contatto la forza su cui appoggiarsi piuttosto che permettere ai punti di contrasto di sprigionare una forza disgregatrice.” Oggi più che mai lo spirito d’amicizia al servizio dell’ospitalità è il segreto del successo di un concierge Clefs d’Or in un hotel di prestigio. Se oggi hai un portiere d’albergo che per qualunque ragione non abbia voglia, tempo e capacità tecnico e morali per poter creare una differenza inserendosi tra tecnologia e cliente, le strutture alberghiere potrebbero pensare che la sua presenza fisica possa essere superflua. E, di conseguenza, appoggiarsi a figure terze pronte a “risolvere il problema” per loro. Come, peraltro, già avviene in altri campi dell’ospitalità. Tuttavia esiste un substrato invisibile che si colloca tra la tecnologia ed il cliente: l’emotività. Captarla in primo luogo e poi filtrarla ed interpretarla è ciò che produce la risposta più esclusiva. E, ad oggi, in questo aspetto nelle mani della sensibilità individuale del grande concierge è radicata la sua ragione d’esistere. La sua individuale capacità, inquadrata in una professionalità garantita dai severi parametri delle Clefs d’Or, genera un plus che collima con le esigenze delle strutture di altissimo profilo. I grandi gruppi sono oggi in grado di garantire un elevatissimo standard di servizio a livello globale. Il concierge ha invece il compito di innalzare questo standard. Ciò consiste nel saper percepire e tradurre l’emotività del cliente in azioni che soddisfino lo stesso regalandogli un’emozione. Qualcosa che trascende il numero di stelle ma che, sicuramente, è in grado di farle brillare più intensamente.” E questa brillantezza è ciò che mi ha fatto innamorare di una incredibile professione e della figura del portiere d’albergo. Altrove l'ho descritto come un supereroe che ha coraggio, risolve i problemi più intricati e raggiunge obiettivi che il comune mortale non può raggiungere. Come un uomo uguale a tutti gli altri, che a vederlo in metropolitana o al ristorante passerebbe inosservato. Ma che, una volta indossato un costume (la sua redingote), si trasforma e, chiamato in causa, dimentica se stesso e si dedica esclusivamente al bene degli altri. E Aldo è proprio così. Intuisci che avrebbe da raccontarti il mondo ma, come dice lui, “Gli eventi che ho vissuto sono talmente gratificanti da sentire il desiderio di proteggerli. Parlarne con eccesso è un bisogno che non sento.” Eppure attraverso le sue parole, per quanto misurate, avverti le forti emozioni che ha provato. Le stesse che, per generazioni, hanno fatto ribollire il sangue della sua famiglia così come, per ragioni diverse e non, della mia.