Una delle principali abilità del grande navigatore sta nell’intrecciare storie. Non ero venuto a capo di questa verità tanto sottovalutata e tanto taciuta finché non mi apparve chiara, evidente, limpida, in una notte scura nell’Egeo, sotto una cascata omicida di stelle, sul ponte della barca di Giovanni Soldini. Aveva raccontato per ore, il grande navigatore. Era tornato su storie che avevo già ascoltato e ne aveva aperte altre e ancora altre e infine ero rimasto incantato. Così, quando tutti se n’erano andati sottocoperta, ero rimasto fra le bottiglie di vino vuote a godere della brezza calda che mi pareva arrivasse dalla Turchia. Era una di quelle notti in cui sembra che il tempo possa dilatarsi e che non esista il passato ma solo un eterno presente. Allora pensai a Odisseo, e in uno di quegli istanti destinati a non essere mai più dimenticati, ebbi l’intuizione su cui mi sono poi arrovellato per anni. Era roba di Odisseo, quella. Scoprendo Soldini stavo scoprendo Odisseo. Tutti sanno, infatti, una cosa: in quello che, stando al parere di molti critici e lettori, può essere considerato il primo esempio di romanzo della letteratura occidentale, le storie più famose sono quelle narrate in prima persona da Odisseo. È una questione stranota su cui però non si riflette mai abbastanza. Chi legge il poema, infatti, resta stupito. Gli eventi famosissimi del Ciclope, delle Sirene, di Scilla e Cariddi, di Circe, sono relegati in ben poche pagine fra le centinaia in cui si dipanano le vicende di Odisseo. Eppure, quando si parla di Odissea, non c’è nessuno che eviti di riferirsi a quelle storie come se fossero il cuore pulsante del grande racconto che ripercorre la rotta seguita da Odisseo per tornare a Itaca dopo vent’anni di lontananza. Ma come mai, fra i mille racconti che Omero scelse per illuminare il destino dell’eroe, il nostro immaginario è così profondamente segnato da accadimenti quantitativamente poco rilevanti e qualitativamente segnati da una vena di fantasia che li rende in buona parte incredibili e certo frutto di una creatività immaginifica?

In realtà la risposta l’avevano data già gli antichi lettori chiamando quella sezione del poema con un termine chiarificatore: Apologoi, ossia Narrazioni. E non perché il resto del poema non contenga narrazioni ma perché è in quei libri famosissimi (dal IX al XII) che noi ascoltiamo storie narrate proprio dallo stesso Odisseo. È lui, seduto a tavola al banchetto che gli stanno offrendo i re Feaci con tutti i dignitari di corte che ascoltano rapiti, è lui che racconta le proprie peripezie, diversamente dal resto del poema in cui è Omero a narrare. Qui invece il poeta mette in scena il navigatore che intreccia sapientemente storie proprio dopo aver rivelato a tutti la sua identità:

«Sono Odisseo, figlio di Laerte, che per tutte le astuzie / sono noto fra gli uomini e la mia fama vola al cielo». Così incisiva è la narrazione odissiaca e così potenti le immagini che usa e così geniali e appassionanti le sue storie che tutti i Feaci, immobili e quasi ipnotizzati, ascoltano fino a notte fonda come se il corso del tempo fosse sospeso. Esattamente ciò che capita spesso quando Giovanni Soldini, in mirabolanti infinite notti, ancorati alla fonda con la sua magnifica barca Elmo’s Fire, si lancia nei racconti e nessuno vorrebbe che smettesse più.

Ma come mai? Qual è il segreto? Bisogna partire dall’inizio. Proprio come fa Odisseo. Del resto, uno dei racconti che ho sempre amato di più e su cui Soldini torna ogni volta aggiungendo nuovi particolari e riavvolgendo il nastro da mille punti di vista diversi, è quello degli inizi, della giovinezza, del momento in cui Milano divenne una città impossibile per lui che bruciava di voglia d’indipendenza e libertà.

Era il 1983 e, sedicenne, scappò di casa. La scuola non faceva per lui, certo. Ma non era soltanto questo. Piuttosto era la vita così come sembrava concepita fin dall’inizio, il piano perfetto di ogni famiglia borghese. Studiare con cura, prepararsi per l’università, scegliere una facoltà adatta, laurearsi, ingegnere o avvocato? un buon mestiere, lavorare sodo, guadagnare, una carriera piena di soddisfazioni. Ma quali soddisfazioni? E perché così lontane se la vita è adesso? Era l’idea del futuro che non andava e, insieme, il percorso perfetto, ben scandito in tappe, che viveva come una gabbia, una prigione, un tunnel senza luce. E quindi ecco la fuga. Il suo sogno, del resto, Giovanni Soldini, aveva cominciato a coltivarlo quando, ragazzino, era stato iniziato ai primi segreti della barca a vela di famiglia, proprio la stessa famiglia da cui ora fuggiva, ma senza risentimento. Tra i cinque e i quattordici anni, durante le vacanze estive, con i due fratelli Emanuele (oggi direttore dell’Istituto Europeo del Design) e Silvio (regista), Giovanni aveva iniziato l’apprendistato su un Alpa 12,70 chiamato Garbì che aveva molto amato. Notti di navigazione verso le Baleari, il brivido delle albe in mezzo al mare, le balene, i delfini, la paura. La scoperta di poter viaggiare su un mezzo autonomo dal punto di vista energetico. Ma soprattutto l’impressione di poter essere liberi. Di poter salpare da un porto senza dover chieder nulla a nessuno per arrivare chissà dove e magari ancorare in un porticciolo semiabbandonato e passare settimane vivendo di espedienti. Il sogno era quello di chiunque voglia conoscere il mondo. Non fermarsi alla casa e al paese a cui comunque si vuole tornare ma lasciarsi stupire da abitudini diverse, lingue sconosciute, altri modi di fare. Anche a costo di dover sfidare pericoli e imprevisti, proprio come capita a Odisseo durante le sue peregrinazioni, quando viene preso dalla voglia di sapere chi possa vivere in caverne così selvagge e finisce per conoscere Polifemo, il mostro monocolo che non conosce le regole del rispetto e dell’accoglienza e invece di offrire un banchetto agli ospiti se li mangia.

Seascapes #N2349 Rdi Hiroshi Sugimoto©

Ma il desiderio di conoscere supera ogni cosa, ogni possibile pericolo. E per un ragazzino pieno di fuoco interiore il pericolo non è che un’ombra lieve che offusca il desiderio di conquista. Giovanni sognava di vivere di caccia e pesca come una specie di nuovo avventuriero selvaggio. In realtà, fuggito di casa, non prese la via del mare ma quella della strada. Autostop assieme a un amico e un lungo viaggio in lungo e in largo per l’Italia fermandosi ovunque a vendere orecchini lavorati a mano. L’amico si chiamava Pino. Era un tipo filosofico e tendente all’intellettuale. Perfetto per far coppia con Giovanni che da sempre e ancora oggi è un grande teorico, ma le sue teorie – esistenziali, economiche, filosofiche in senso lato – sono sempre la conseguenza di un atteggiamento molto pratico e non precedono mai i fatti ma li seguono. Così, assieme a Pino a vendere orecchini, Giovanni arrivò fino in Sicilia, fino alle Eolie. E se è vero che il mercanteggiamento di oreficeria poteva apparire un gioco, è anche vero che quando tornarono a Milano, Giovanni aveva messo da parte 800.000 lire.

Il racconto della fuga, del nomadismo adolescenziale e della corsa nella libertà non si esaurisce mai nel ritorno a Milano. Anche perché c’è sempre qualcuno che dice a Soldini quel che il re dei Feaci, Alcinoo, disse a Odisseo a notte fonda, quando l’eroe propose di smettere con le storie e andare a dormire: “Il tuo racconto, come un aedo, con arte lo hai fatto / (…) La notte è lunga, infinita: e non è adesso l’ora / di dormire in palazzo: narrami ancora le tue prodigiose avventure. / Fino all’Aurora lucente io resterei, se tu / acconsentissi a continuare il racconto”.

Passarono pochi mesi e a una vendita di orecchini per le strade di Milano, Giovanni riconobbe il figlio di uno dei primi grandi progettisti e navigatori italiani: Franco Malingri. Si erano conosciuti anni prima, ai tempi del Garbì. Francesco e Vittorio, figli di Franco, imparavano l’arte dal padre che già s’industriava a metter su improvvisate scuole di vela per ragazzini: occasioni che Giovanni aveva colto al volo. Adesso venne a sapere che Vittorio stava costruendo una barca progettata dal padre. Non perse tempo. Chiese di partecipare e in pochi giorni partì per Pesaro. Qui, oltre al lavoro in cantiere, arrivarono gli insegnamenti decisivi per entrare definitivamente nel mondo che sarebbe stato la sua vita. Franco era più di un maestro per ragazzini pieni di voglia di imparare. Imponente, burbero, austero, dispensava consigli destinati a restare indimenticabili. Perché plasmarono nei suoi figli e in Giovanni quella che è la vera filosofia dell’andare per mare. Quando si è in barca, soli fra le onde, che sia l’Oceano o un mare apparentemente protetto, nessuno può aiutare il navigatore. Si deve conquistare una competenza su moltissimi aspetti, una competenza globale che permetta di affrontare e risolvere ogni genere di problema tecnico e non solo. A terra si possono chiamare gli esperti. In mare si deve fare affidamento soltanto su sé stessi e sulla propria capacità di immaginare soluzioni.

È il lato duro e oscuro, ma decisivo, dell’indipendenza. Franco Malingri, del resto, rimane per Soldini un maestro non tanto a livello di approccio tecnico alla navigazione, ma soprattutto a livello mentale. Il racconto migliore sul suo stile di vita, Soldini lo riporta sempre per quel che è, ossia un racconto di seconda mano, ma è come se fosse di prima. Era il 1977 e Franco con sua moglie e i figli partì per uno dei giri del mondo con cui svezzò i ragazzi introducendoli alla navigazione estrema. Mentre veleggiava nell’Oceano Indiano, però, fu raggiunto da un’urgente richiesta di far ritorno a casa. Non poté sottrarsi. Questo tuttavia non significò chiudere il viaggio. Franco prese con sé la moglie e lasciò la barca ai tre figli, il maggiore dei quali, Vittorio, aveva 17 anni. Stilò per loro un catalogo preciso di accorgimenti, trucchi, soluzioni, un catalogo che chiuse con una frase rimasta epocale: “Ricordatevi sempre che se non avrete paura sarete morti”.

Si deve avere paura quando si vuole essere autonomi e indipendenti nel mondo che si desidera conquistare. La paura è decisiva e non la si può rifiutare o scansare. Solo accettandola e affrontandola possiamo lanciarci nelle nostre imprese. I racconti dei navigatori intrecciano molte storie e finiscono per rimanere incastrati nella mente di chi ascolta. Ma perché? Non è nei racconti stessi che dobbiamo cercare il motivo, ma fuori, prima di essi. Nel tempo che è seguito all’intuizione che m’illuminò in quella notte nera dell’Egeo, ho cercato di sondare molte possibilità. Da un punto di vista pratico avevo sempre l’impressione che il motivo di quella potenza narrativa risiedesse nell’attenzione estrema con cui i navigatori sono costretti a far uso delle parole. In barca, mentre si naviga, non si può chiacchierare e non si possono usare termini fraintendibili. I comandi devono essere semplici e veloci. Le parole dunque rarefatte e precise, chirurgiche.

Mi pareva che un’abitudine del genere non potesse che produrre un’abilità estrema a usarle anche dilungandosi in racconti iperbolici, nei momenti che seguono o precedono le navigazioni, quando si è in porto o alla fonda, oppure ovunque fuori da una barca, proprio come mi capitò un giorno ascoltando Vittorio Malingri parlare ininterrottamente su un volo Atene-Roma, con i passeggeri accanto attoniti, sconcertati, quasi drogati dal flusso di storie. Ma questa spiegazione tecnica mi è parsa insufficiente quando ho riletto Il vecchio e il mare e ho notato quel che mai mi era parso tanto chiaro e decisivo. Ossia il fatto che il vecchio, nella sua solitudine in mare, parla a tutto ciò che lo circonda – un uccello, il pesce con cui sta lottando, la propria mano ferita, gli squali che gli divorano la magnifica preda attaccata al fianco della barca – pur di parlare con sé stesso, pur di fare i conti con sé stesso. Perché i grandi navigatori, in mare, durante ore e ore di solitudine, non possono che parlare con sé stessi. E anche se viaggiano in equipaggio, nella loro rotta verso la libertà, non possono che fare i conti con le decisioni che hanno preso e la vita su cui si sono lanciati. E sono costretti a parlarsi, a dialogare con i propri pensieri, a mettersi in gioco e raccontarsi ciò che stanno cercando, e l’indipendenza nel mondo a cui stanno aspirando. Per questo, poi, sono tanto abili nell’intrecciare parole come reti, come cime, come tutti quegli strumenti che essi liberano per volare sulle onde e guardare sempre un po’ più lontano, sempre oltre, sempre più in là rispetto a dove tutti sono portati a credere che si debba arrivare.