Le strade di Gianni Versace e della Zamasport spa di Novara s’incrociarono per la prima volta nel 1972. E prese così iniziò uno dei capitoli più intensi e fecondi nella storia dell’abbigliamento italiano, uno dei tanti che ancor oggi hanno per protagonista l’azienda piemontese, il palcoscenico privilegiato per rivivere la storia dell’industria italiana dell’abbigliamento e pure per capire traguardi e prospettive del futuro: dalla sapienza artigianale alla grande stagione degli stilisti fino all’eccellenza produttiva di oggi, punto di riferimento  per la produzione al servizio di marchi e colossi del lusso internazionali. Difficile trovare un osservatorio più completo di questa fabbrica simbolo, nascosta dietro la stazione della linea che collega Torino e Milano, affiancata da altri opifici, i capannoni che ospitano la Versace spa e uno dei poli produttivi di Gucci. È cominciata qui, nel 1966, l’avventura di Paolo Greppi, della moglie Giuse e della cognata Marisa, figlie d’arte cresciute alla scuola di papà Augusto Zanetti, titolare dell’omonimo maglificio che, prima ancora del boom economico degli anni Sessanta, aveva sfornato brevetti (un tessuto elasticizzato utilizzato per i primi dopo sci) e slogan pubblicitari che echeggiavano i primi Caroselli: “Ai primi freddi rapido metti la maglieria marca Zanetti”.

Ed è qui che può cominciare, grazie al racconto di Paolo Greppi e del figlio Luigi, questo breve viaggio alla scoperta del DNA della moda, uno dei settori chiave dell’economia italiana capace nel 2017 di sviluppare un fatturato di 64,8 miliardi di euro. E in questo quadro Zamasport (un giro d’affari di 50 milioni, 150 dipendenti in sede, circa 1.200 nelle varie aziende in giro per la Penisola, dal Veneto alla Puglia, costantemente monitorate dagli ispettori che vigilano sulla qualità della produzione) rappresenta non solo una delle aziende più innovative, capace di leggere in anticipo sia le tendenze del prodotto che quelle del business.

1966, CARNABY STREET SBARCA TRA LE RISAIE 

Ma facciamo un passo indietro. Quando i destini di Gianni Versace e dell’azienda novarese si incrociano per la prima volta il maglificio Zanetti, già ribattezzato Zamasport, ha smesso da tempo di produrre biancheria intima per lasciar spazio a Callaghan, il nome del marchio scelto da Paolo Greppi nel 1966 per avviare la nuova avventura con Giuse, sposata nel 1967, e la cognata Marisa che, per lasciare l’impiego in un negozio elegante della città, ha posto una condizione precisa: “Vengo per fare moda, mica mutande”. La pensano così anche i due soci. Anzi, la scelta di un nome british sta ad indicare la volontà di rompere con una tradizione che stava ormai stretta ad una società, quella italiana, allora giovane e decisa a sfruttare i benefici del boom.  “La nostra era una sfida. Ci sentivamo senz’altro più vicini allo spirito di libertà che arrivava da Carnaby Street, dalla rivoluzione della minigonna di Mary Quant ed alla musica dei Beatles piuttosto che all’atmosfera tranquilla, anche troppo, di Novara” ricorda Paolo Greppi, all’epoca fresco laureato in economia alla Cattolica che per inseguire questo sogno aveva rinunciato alla libera professione, come auspicato dal padre, stimato pediatra.

PRIMA TAPPA, SAINT TROPEZ

Decolla così l’avventura dei tre soci: il vecchio maglificio concede alla ruspante Callaghan un garage ove installare vecchie macchina di seconda mano riadattate da un tecnico di maglieria. I dipendenti, circa una quarantina, passano dalla produzione di mutande a quella di t-shirt, camicie e pure cappotti. Non esiste sabato, spesso si lavora anche di domenica, compresa Giuse che nel frattempo, dopo aver sposato Paolo, deve trovare il tempo per i due figli (Luigi, oggi al fianco del padre in Zamasport e Carlo, che si occupa dell’azienda risicola di famiglia). È Marisa l’anima creativa che si lancia nella produzione di camicie con colori e motivi grafici innovativi che suscitano l’interesse della stampa specializzata. “La nostra fonte di ispirazione – racconta Paolo – furono i viaggi a Saint-Tropez, la spiaggia più chiacchierata dell’epoca”. Ma anche la capitale d’eccellenza della rivolta nei confronti della haute couture insidiata dal più democratico prêt-à-porter.

È di quegli anni il duello tra Coco Chanel e Brigitte Bardot che, sfidando il mito dell’eleganza più raffinata, aveva dichiarato:” la moda non mi interessa, è roba per i matusa”.  “Prendevamo la mia Fulvia - ricorda Greppi - e andavamo verso il mare a curiosare per ora nelle boutique alla moda, a guardare la gente per strada per poi tornare, sfiniti ma soddisfatti, in fabbrica”. E lì, con sapienza artigiana, si cerca di tradurre in piccole collezioni di maglieria “le idee rubate”.  Questa strategia, però, ha le gambe corte. “Ad un certo punto – dirà Marisa - ho capito che non potevo andare avanti da sola: era il momento di ricorrere ad un contributo esterno”. La Callaghan è ormai pronta per una nuova tappa della storia, cioè il matrimonio con uno stilista: Walter Albini, grande talento creativo, il più apprezzato, dirà più avanti Santo Versace, dal giovanissimo Gianni alla ricerca di spunti e suggestioni sulle riviste del tempo.

ALBINI, LO STILE DIVENTAINDUSTRIA

L’alleanza tra Albini e Callaghan ha un effetto dirompente sul settore. L’intuizione dello stilista è che il progetto di un abito implica lo stesso processo industriale di un progetto di design. Cadono così su questa premessa, i confini tra moda ed industria, per la prima volta uno stilista italiano esce dall’atelier per entrare in fabbrica. Il vestito cessa di essere un prodotto “aristocratico” circoscritto a poche, fortunate, privilegiate, per essere il protagonista di una svolta “democratica”, più accessibile a tutti grazie all’abbattimento dei costi in reso possibile dalla serialità del prodotto. Il prodotto industriale, fino a quel momento magari di qualità discreta ma anonimo dal punto di vista dello stile, viene rivisitato alla luce dei canoni del prêt-à-porter che offre qualità e originalità a prezzi competitivi. Insomma, la vera missione dello stilista alle prese con una società più aperta che chiede, tra l’altro, nuove competenze al creativo.

“L’incontro con Albini – ricorda Greppi – fu per noi fondamentale perché alla sua grande creatività univa la profonda conoscenza tecnica della maglia. Sollecitato dalle sue richieste andai in Inghilterra a comperare macchine di seconda mano che i nostri tecnici modificarono per metterle in condizione di raggiungere il livello chiesto dallo stilista. La qualità dei nostri tecnici e dei nostri laboratori si sono formate grazie all’esperienza ed alla cultura del grande Walter”.

Il connubio culmina in una grande serata al Circolo del Giardino di Milano, il 17 ottobre 1971, quando sulla passerella sfilano le griffe (all’epoca cinque) coordinate dal vulcanico stilista che sconvolgeva la quiete di Novara quando arrivava, in taxi, da Milano, vestito di bianco, con una lunga pelliccia di lupo (allora non era ancora d’attualità la coscienza animalista), un grande cappello di feltro, l’orecchino al lobo dell’orecchio. Grazie al successo della collezione “Marine look” presentata alla sfilata si aprirono per la Callaghan le porte del mercato. “Ma come tutte le belle storie – sospira Greppi – anche questa è destinata a finire”. Albini decide che è giunta l’ora di far da solo, e di presentarsi sul mercato internazionale con il suo logo ed il suo nome. Ma non avrà fortuna, “Come tutti gli anticipatori non ottenne il successo che meritava”, lasciando al momento della prematura scomparsa, a soli 41 anni, una scia di rimpianti.  

GIANNI, IL GENIO RAGAZINO CHE ARRIVO’ DAL SUD

Le grandi svolte della storia non sono mai improvvise, era solito notare Bertrand Russell. Ci sono stati riformatori prima di Martin Lutero, pionieri delle quattro ruote prima di Henry Ford. E creativi del prêt-à-porter prima della grande esplosione degli anni Settanta, che in Zamasport veniva già annusata, se non percepita. Sulla carta la soluzione più logica e saggia, una volta consumato l’addio da Walter Albini, sarebbe stata l’assunzione di un collaboratore dello stilista, all’insegna della continuità. “Ma noi – ricorda Greppi -non volevamo imitatori, ma qualcosa di più, di diverso, di nuovo senza però tradire lo spirito della Callaghan”. La quadratura del cerchio si realizza con l’arrivo di un giovane, appena ventiseienne, talentuoso ma in pratica al suo primo contatto con un’esperienza industriale: Gianni Versace, che entra in contatto con Zamasport, perché figlio della titolare della boutique Elle di Reggio Calabria, da tempo cliente dell’azienda. E poco più che un ragazzo, che però aveva già dato una dimostrazione dei suoi talenti, vuoi sul fronte creativo che della sintonia con i mercati. Ricorda il fratello Santo: “Nel 1959-60 convinse mia madre a vendere anche gli abiti confezionati, oltre a quelli su misura; a neanche 14 anni aveva già capito che si andava verso quel tipo di consumi. Presto cominciò a farsi conoscere nell’ambiente e a realizzare i primi abiti. Negli anni ’60 Renato Balestra mandava a Gianni gli schizzi delle nuove collezioni e si confrontava con lui; in quel momento un rapporto più di amicizia che di lavoro”. “La prima vera occasione – continua il racconto di Santo -  si presenta agli inizi del 1972, quando Nicosia e Salvatore Chiovini mi chiedono di realizzare la collezione Florentine Flowers, che il nostro negozio vendeva benissimo ma ad un certo punto si era “inchiodata”, non riusciva più a rinnovarsi. Chiesi a Gianni se si sentisse in grado di affrontare l’impresa, Sì, mi rispose con sicurezza. Partì per Milano il 5 febbraio 1972. Andarono dal Lanificio Zegna di Valle Mosso a comprare i filati. Avviarono subito un pronto moda per la primavera-estate, che ebbe un grande successo, e poi presentarono la collezione autunno-inverno a Pitti in aprile, altro grandissimo successo. Trattai io direttamente il compenso, dopo essermi informato sugli onorari di Walter Albini, lo stilista che Gianni ammirava di più”. E che, per una fortuna combinazione del destino, proprio allora aveva lasciato libero il posto in Callaghan.

 1978, “IL VULCANO DI IDEE” SI METTE IN PROPRIO

Ci voleva un certo coraggio per puntare su uno sconosciuto del tutto digiuno di esperienza. “Ci colpì – ricorda Greppi -il suo carico di entusiasmo e di creatività. Peraltro, Gianni aveva una seria esperienza sartoriale alle spalle e presto dimostrò un grande interesse per il prodotto industriale. Ci convinse e cominciò per noi uno dei periodi più stimolanti in cui si costruì insieme l’immagine della Callaghan. Gianni era un vulcano di idee che metteva costantemente a dura prova le possibilità dei nostri tecnici”. Sempre munito di block-notes, lo stilista appuntava ogni suggestione, ogni possibile novità la traduceva in un input per la produzione.  “In un viaggio in Germania, ad esempio, scoprì i guanti da lavoro dei macellai realizzati in fibra di metallo. E subito immaginò un abito in quel tessuto”. “Per lui l’obiettivo del design – ricorda ancora Greppi – doveva essere quello di passare dal prototipo che sta alla base di ogni creazione, e che è un fatto artigianale, al prodotto industriale dove deve entrare in campo la tecnologia più avanzata”. 

© Fondazione Gian Paolo Barbieri

I risultati di questa ricerca non si fanno attendere. Sono gli anni dello shock petrolifero, Versace va alla ricerca di una risposta alla crisi, che mette al bando le fibre sintetiche, con i tessuti naturali. Sono anni all’insegna della creatività e della ricerca. Assieme ai tecnici di Zamasport lo stilista studia dei punti in maglia presi dalle lane rustiche lavorate nelle isole Aran in Irlanda. Cerca la tecnica per rendere la maglia imitazione di quella fatta ai ferri, mischia il ruvido con il liscio dello stile monacale, introduce il merletto a filo, le tele a punto stuoia”. Ma sono anche gli anni di Guerre Stellari, da cui Versace trae ispirazione per i materiali tecno, tipo anelli e mezze lune in plexiglas. Un’inquietudine creativa destinata ad allargarsi, alla ricerca di nuovi spazi. E così nel 1978 Versace decide che non gli basta più disegnare per altri. E’ giunto il momenti di creare una propria linea. Paolo Greppi commenta: “La fabbrica è diventata piccola per Versace. Lo stilista allarga i propri orizzonti modificando così anche l’aspetto contrattuale. Chiedi di poter realizzare una collezione di tessuti che porti il suo nome”. Conferma Santo Versace:” la prima sfilata Gianni Versace donna fu nel marzo 1978 a Milano, la prima collezione uomo a settembre dello stesso anno.  Quando presentammo la collezione uomo 1978 dicemmo agli amici della Genny e della Callaghan che Gianni avrebbe continuato a lavorare per loro sulla donna, ma sull’uomo avremmo fatto da noi.  La società nacque già con l’attività industriale integrata, facendo accordi con i Greppi a Novara e i Girombelli della Genny ad Ancona. Nelle società di produzione avevano la maggioranza (60%) i soci industriali, invece nella società di distribuzione avevamo il 60% noi e il 20% ciascuno i Greppi e i Girombelli. Il marchio invece era nostro al 100%. Negli anni seguenti progressivamente acquisimmo il controllo anche delle attività industriali”.

Il sodalizio dura fino al 1986, quando sia Callaghan che Versace decidono di comunque accordo di separarsi. Il bilancio dell’avventura è largamente positivo per entrambi. Per l’azienda di Novara si tratta di una scommessa vinta: il panorama della moda in pochissimi anni è cambiato, a tutto vantaggio di chi ha puntato sulla carta dello stilismo. 

ROMEO GIGLI, IL PRET A PORTER E’ ITALIANO 

L’uscita di Versace non interrompe l’ascesa di Callaghan. Anzi, sta per iniziare, dopo stagioni interlocutorie, la stagione di Romeo Gigli, una soluzione felice che schiude all’azienda le porte di un grande successo internazionale. È la fase suprema dello “stilismo”, l’arma che ha portato il prêt-à-porter italiano a scavalcare quello francese. “Cominciammo con tanto timore con Walter Albini – è la testimonianza di Marisa Zanetti -. Fu per noi l’inizio di una bella avventura. Poi la scelta di un nuovo, che non era cosa da poco. Ma fummo fortunati con Gianni Versace che ha portato la nostra griffe ad un livello molto importante. L’arrivo di Romeo Gigli ci ha travolto, ci ha dato una spinta in avanti da un prodotto ad un altro diverso”. Ma negli anni Novanta l’azienda familiare, arricchita dall’arrivo di Luigi (classe 1969, primi passi dopo la laurea nell’azienda risicola di famiglia oggi gestita dal fratello Carlo), ha un’altra intuizione vincente: è l’ora di cambiare perché lo stilismo, da solo, non è più sufficiente.

  

 CAMBIA IL MERCATO, ZAMASPORT CAMBIA PELLE

A cambiare la natura del mercato contribuirono varie cause: l‘esplosione della concorrenza asiatica e nuovi stili di vita e nuovi modelli di consumo che incidono sulla propensione alla spesa sono all’origine di una progressione ma severa contrazione dei margini.  Il mercato globale, intanto, impone forti investimenti sul fronte della distribuzione e su quello della comunicazione.  Le griffe indipendenti vengono assorbiti dalle ammiraglie del lusso le quali, oltre a fare incetta di marchi, compensano i margini più ridotti del sistema moda grazie ai profitti garantiti dagli accessori.  È in questo contesto che a Novara decidono di congelare il marchio Callaghan, destinato ad assorbire troppe risorse per assicurarsi un futuro all’altezza del suo rango, per concentrarsi sul valore aggiunto di una produzione ai massimi livelli di qualità da offrire alle maison più titolate, sia in funzione delle sfilate che della produzione seriale.

 “In pratica – spiega Luigi Greppi – abbiamo eliminato i costi degli show room e della distribuzione, concentrando le risorse sull’engineering”.  Qualcosa di molto diverso dall’attività di un terzista. Quest’ultimo è l’esecutore materiale di un prodotto pensato e sviluppato dal committente. Al contrario, i tecnici della Zamasport traducono lo schizzo iniziale dello stilista prima in un prototipo per le sfilate, poi in un modello per la produzione di serie. Si sviluppa così un costante flusso di idee e di proposte dalle capitali della moda, Parigi (vedi Givenchy ad esempio) o Londra (Burberry) a Novara, dove ogni progetto viene affrontato da un team dedicato composto da un responsabile di linea, modellisti, campionariste e tutto quel che occorre per assicurare la vestibilità del prodotto.

LASER, 3 D E SARTINE CHE CUCIONO: LA MISCELA VINCENTE

C’è molto tecnologia nella fabbrica che sorge a ridosso del canale Quintino Sella, che in archivio ospita più di 5 mila capi conservati lungo un nastro meccanico. L’azienda dispone di un sistema di taglio automatico che, in collegamento con il sistema di disegno computerizzato, consente al gruppo dei modellisti creativi di realizzare i prototipi in tempi brevissimi con la massima precisione-Ma ancor oggi i modellisti creativi realizzano anche modelli “a manichino” che consentono di mantenere per alcuni capi il livello sartoriale d’eccellenza. C’è ancora tanta manualità, quell’arte del saper fare che, come diceva Carlo Cipolla,  è da sempre l’ingrediente decisivo dei successi dell’economia del Bel Paese, povero di materie prime e perciò obbligato a ricorrere alla sapienza artigiana, quella che sfoggiano le sartine di Novara che  in vista delle sfilate partono, per l’ultimo e decisivo tocco agli abiti cuciti in fabbriche, lavoranti preziose e importanti dietro le quinte quanto lo sono i meccanici ai box della Formula 1 prima di un Grand Prix. 

UN MASTERCHEF DELL’AGO E FILO? UNA BUONA IDEA

Un’arte difficile che un tempo si tramandava in casa. E oggi? “Stiamo lavorando con il Comune – spiega Luigi Greppi – assieme ad altri aziende per avviare una scuola. E’ importante stimolare l’attenzione dei giovani per mestieri creativi ingiustamente trascurati eppur strategici per la nostra filiera. Credo che ci vorrebbe una trasmissione tv, una specie di Masterchef della sartoria”. Buona idea: la cucina dove ambientare la serie tv potrebbe essere la fabbrica di Novara. Potrebbe proprio essere questa la prossima avventura della famiglia Greppi: la culla del prêt-à-porter del Bel Paese.