«Se non ci fanno nemmeno comprare più i semiconduttori è arrivato il momento di invaderli». Primavera 2020, Donald Trump ha appena introdotto l'obbligo di licenze speciali per l'esportazione verso Huawei per i fornitori che utilizzano tecnologie o sistemi di produzione made in Usa. E la risposta non si fa attendere. Sul web cinese compaiono diversi messaggi che invitano il governo di Pechino ad attaccare Taiwan e completare l'unificazione. C'era un tempo in cui le guerre si combattevano per il petrolio, potrebbe venirne uno in cui si combatteranno per i chip. O meglio, per i semiconduttori, vale a dire i materiali speciali come silicio o germanio che si utilizzano per realizzare tutte le componenti di base dell'elettronica, dai chip ai transistor. O meglio ancora, per i wafer, cioè sottili fette di materiale semiconduttore sulle quali vengono realizzati i chip. Si tratta di piccoli strumenti che fanno funzionare pressoché tutto quanto abbia a che fare con la modernità: smartphone, televisori, lampade, automobili a combustione o elettriche, aerei militari F-35. O apparecchi acustici come quelli utilizzati da Morris Chang, il fondatore di Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, comunemente nota come Tsmc. Un acronimo attorno al quale gira la tecnologia del mondo, dunque anche la sua geopolitica.

Taiwan è la patria della produzione dei semiconduttori, Tsmc ne è il campione.

Coi dati del secondo trimestre 2021, si scopre che l'azienda possiede il 52,9% del mercato nel settore fabbricazione e assemblaggio. Sì, 52,9% del mercato mondiale. Tanto per intenderci, i primi due competitor sono la sudcoreana Samsung Electronics con il 17,3% e l'altra taiwanese Umc con il 7,2%. Stati Uniti e Cina sono solo al quarto e quinto posto con Globalfoundries (6,1%) e Smic (5,3%). Circa due miliardi e mezzo di persone utilizzano ogni giorno prodotti contenenti semiconduttori prodotti da Tsmc. La domanda globale continua ad aumentare ed è stata incentivata ancora di più dalla pandemia di Covid-19. Nel 2020 Tsmc ha aumentato i ricavi del 50%, mentre nel secondo trimestre del 2021 le assunzioni delle industrie taiwanesi di settore sono aumentati del 44% rispetto al 2020.

Basterebbero questi numeri per sottolineare l'importanza commerciale e strategica che ricoprono le aziende taiwanesi all'interno di un'industria profondamente interconnessa a livello globale. Se si aggiunge il complicato status di Taiwan, indipendente de facto ma rivendicata come sua provincia dalla Repubblica Popolare Cinese, si capisce perché è da queste parti che si deciderà molto del futuro di Pechino e della competizione tra le due principali potenze. Per lungo tempo le aziende taiwanesi sono riuscite a mantenere un equilibrio tra Stati Uniti e Cina. Huawei, per esempio, pesava tra il 14 e il 15% delle esportazioni di Tsmc. Un equilibrio che ora appare più sbilanciato verso gli Usa. Contestualmente al bando sull'export, è stata annunciata l'apertura entro il 2024 di uno stabilimento di Tsmc in Arizona. Il colosso taiwanese lavora per lanciare un impianto di fabbricazione e assemblaggio anche in Giappone, entro il 2023. E anche l'India prova a inserirsi. Funzionari di Taipei e Nuova Delhi stanno discutendo la possibile creazione di una sede produttiva di chip da 7,5 miliardi, dedicati a 5G e auto elettriche. Washington e gli alleati asiatici, insomma, stanno cercando di cooptare Taiwan per sviluppare una catena di approvvigionamento che tagli fuori la Cina e ne rallenti l'ascesa tecnologica.

Ma il cordone ombelicale è difficile da tagliare.

Tsmc mantiene in attività una fonderia a Nanchino e ha interrotto le spedizioni di chip alla Tianjin Phytium Information Technology, una delle entità cinesi che stanno sviluppando i cosiddetti "supercomputer" con possibili applicazioni anche in campo militare, solo dopo che le è stato intimato dall'amministrazione Biden. In seguito al divieto di esportazioni di Trump, il posto di Tsmc è stato preso da un'altra azienda taiwanese, MediaTek, che negli ultimi mesi ha conquistato una posizione dominante nella catena di approvvigionamento dei marchi cinesi di smartphone con il 54,1% delle spedizioni totali. Per non parlare di Foxconn, l'altro peso massimo tecnologico taiwanese.

Si tratta del più grande produttore di componenti elettronici del mondo, fornitore di aziende come Apple, Amazon, Dell e Microsoft. Il gigante di Terry Gou è il più grande datore di lavoro privato in Cina, dove ha 13 stabilimenti.

Tra questi, quello di Longhua, nei pressi di Shenzhen, è il più grande della compagnia ed è una sorta di città nella città (non a caso l'area è stata ribattezzata Foxconn City), dove sono impiegati tra i 300mila e i 400mila dipendenti. Il ruolo di queste entità diventa talvolta anche politico. In assenza di dialogo politico tra le due sponde dello Stretto, tocca ai privati farsi "ambasciatori" diplomatici dei rapporti tra Pechino e Taipei. Cosa successa di recente, quando proprio Tsmc e Foxconn hanno concluso l'acquisto di dieci milioni di dosi di vaccino Pfizer-BioNTech da Fosun Pharma, un'azienda di Shanghai che detiene il diritto esclusivo di distribuzione del siero tra Cina, Hong Kong, Macao e Taiwan. L'importanza dei produttori taiwanesi non è solo quantitativa, ma anche qualitativa. Per i semiconduttori, le dimensioni contano: più piccoli sono, meglio è. Tsmc è pronta alla produzione di massa di chip a 3 nanometri nell'impianto di Tainan. Ad agosto è stato approvato il piano per la costruzione di una nuova fonderia nel cluster di Hsinchu, dove si produrrà a 2 nanometri. Nei prossimi anni si arriverà fino a 1 nanometro. Tanto per avere un parametro, i competitor cinesi hanno abbattuto solo di recente il muro dei 10 nanometri. E la stessa Tsmc non porta al di fuori del territorio le sue tecnologie più avanzate. A Nanchino fabbrica chip a 28 e 16 nanometri, negli Usa ne fabbricherà a 5 nanometri: quando aprirà l'impianto in Arizona saranno di fatto obsoleti in confronto a quelli che produrrà a Taiwan. Anche per questo, la Cina ha avviato un'aggressiva "campagna acquisti" che ha portato all'assunzione di circa tremila ingegneri taiwanesi dal 2017 a oggi.

La carenza di chip

Quando negli ultimi mesi si è verificata una carenza di chip che ha portato a un forte rallentamento della produzione, soprattutto in un settore come l'automotive che vive secondo il modello just in time, un po' tutti si sono accorti del rischio di avere una dipendenza eccessiva dall'Asia, e in particolare da Taiwan, per l'approvvigionamento di semiconduttori. Un po' tutti stanno lanciando piani strategici sul settore. Biden ha predisposto un piano di investimenti nel settore tecnologico da 250 miliardi, oltre un quinto dei quali dedicati allo sviluppo dell'industria dei semiconduttori. Non tanto quanto la Corea del Sud, che intende mettere sul piatto 450 miliardi. Più del Giappone, che dal 1990 ha visto la sua quota di mercato precipitare dal 50 al 10%. Tokyo ha approntato una task force sull'argomento, con il coinvolgimento diretto niente meno che dell'ex premier Shinzo Abe. Anche l'Europa si muove. A dicembre 2020 l'Unione europea ha approvato un piano di sviluppo digitale che prevede di incrementare gli investimenti in chip-making e arrivare a produrre in-house il 20% (rispetto all'attuale 10%) della produzione totale mondiale, nonché di abbassare a 2 nanometri la dimensione dei semiconduttori prodotti. Compito difficile, anche perché il mercato logico, cioè quello di prodotti come gli smartphone, si è da tempo spostato in Asia.

Intanto, nel suo piano quinquennale 2021-2025, la Cina ha stanziato 1,4 trilioni sulle industrie strategiche, compresa quella dei semiconduttori. Sul suo territorio ha oltre 90 nuovi stabilimenti pianificati o già entrati in funzione. Il timore degli operatori è che in dieci anni, grazie alle sovvenzioni del governo, le aziende cinesi possano scombussolare il mercato mondiale producendo sotto costo e sconvolgendo la domanda. Gli Usa hanno reagito con un irrigidimento del controllo delle esportazioni, giustificato dai timori legati ai diritti umani: i wafer potrebbero infatti essere utilizzati in droni intelligenti, in telecamere di sorveglianza oppure essere installati nella stella del berretto dei poliziotti per esercitare forme più avanzate di controllo. Ma il calcolo è anche e soprattutto strategico. Impedire alla olandese Asml di spedire in Cina i propri macchinari per la produzione di semiconduttori significa rallentare la corsa di Pechino. "Nessuno vuole la guerra sullo Stretto di Taiwan, perché nessuno vuole interrompere la catena di approvvigionamento dei semiconduttori", ha dichiarato recentemente Mark Liu, presidente di Tsmc. Diversamente dal petrolio, un chip ha valore solo perché inserito in una supply chain globale con una serie di azioni e operazioni compiute ogni giorno in diversi paesi. Al centro della mappa, però, c'è Taiwan. E la Cina, per ora, ne ha ancora bisogno.