«Quando un Paese se la prende con i giochi, vuol dire che la situazione è davvero a rischio». Niall Ferguson, uno dei maggiori e più brillanti storici contemporanei, docente ad Oxford e ad Harvard ed autore di numerosi saggi di storia economica e di geopolitica, da «Ascesa e declino del denaro. Storia finanziaria del mondo» a «La verità taciuta» fino alla biografia (è appena uscito il primo volume) di Henry Kissinger. L’autore, protagonista di una violenta polemica con Paul Krugman nel 2009 (da allora annota puntualmente tutte le profezie mancate dal premio Nobel, compresa la mancata fine dell’euro) ha concesso una lunga intervista al giapponese Nikkei Times sul confronto nel Far East tra la potenza cinese e gli Stati Uniti.  C’è il rischio, è la sua tesi, che la ritirata precipitosa degli americani da Kabul possa indurre la Cina a prender l’iniziativa nei confronti di Taiwan. “I grandi conflitti – dice – cominciano quando l’aggressore pensa che il tempo non gioca a suo favore, perciò sia meglio giocar d’anticipo piuttosto che aspettare”. Riproduciamo un ampio stralcio dell’intervista allo storico inglese, senior fellow della Stanford University: polemico, partigiano e talvolta bizzarro (negli anni Settanta, tra i primi sostenitori della Thatcher fu un agguerrito fan dei Sex Pistols in risposta al conformismo dei laburisti), mai banale e ben introdotto nei circoli di Washington.

∞ Che cosa è cambiato in campo internazionale rispetto alla fine del millennio?

Vent’anni fa sembrava ovvio che, una volta esaurito il capitolo della “fine della storia” come definito da Frances Fukuyama e “esuberanza irrazionale” seguita alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti si potessero impegnare in una sfida proibitiva: non limitarsi cioè a deporre regimi ostili in Afghanista ed Iraq, ma creare le fondamenta di Nazioni stabili e moderne. Vent’anni dopo è facile dire che l’impresa era votata ad un sicuro fallimento. Per ragioni interne, quasi solo interne, Ci sono state tre gravi deficienze che hanno reso impossibile la creazione di un moderno impero d’oltremare. Primo, i limiti umani: gli Americani non vogliono rischiare di morire in posti come l’Afghanistan o l’Iraq. Anche le truppe sono state impiegate con una rotazione frequente, sei mesi sul campo e non di più. Secondo il deficit pubblico, che era un problema vent’anni fa ma oggi lo è ancor di più. Terzo, ma ancor più importante, il deficit di attenzione dell’opinione pubblica: gli Americani si sono indignati dopo l’11 settembre, ma quello stato d’animo, com’era prevedibile, è svanito nel tempo, Quattro anni dopo il sostegno popolare alla guerra contro il terrorismo, era del tutto evaporato.

∞ Come era prevedibile, del resto.

Il problema è che la Guerra Fredda non era affatto finita con la caduta del Muro di Berlino ma continuava con la repressione della rivolta di Tienanmen ed il rafforzamento del Partito Comunista Cinese. Ma l’enorme distrazione rappresentata dalla sfida del terrorismo ha assorbito le nostre risorse e ci ha distratto dal vero problema: l’ascesa della Cina.

∞ Come va giudicata la ritirata di Biden dall’Afghanistan?

Due pensieri. Primo, si può abbandonare un Paese in maniera ordinata. Prendi il caso dell’Impero britannico che ha lasciato le sue posizioni quasi sempre in modo ordinato. Ma, come era già successo a Saigon nel 1975, c’è un limite tutto americano che spiega quella baraonda. La ragione consiste nella drammatica caduta di consenso attorno a quelle imprese, cosa che rende impossibile una gestione ragionevole delle ritirate. E così all’improvviso, quasi di colpo, si è deciso di tagliare le risorse. È quanto è successo in Vietnam e si è ripetuto a Kabul: spegni la luce e ti stupisci se cala il buio. Ma c’è una seconda ragione, a mio avviso. Le responsabilità dei disastri vengono comunemente attributi ai Presidenti o ai Premier. Ma spesso gli errori ricadono sulle spalle della catena di comando affidata ai micro-managers. Qualcuno, ma non la Casa Bianca, ha deciso di abbandonare la base aerea di Bagram, una delle idee più stupide che ha in pratica limitato gli spazi per la ritirata al solo aeroporto internazionale di Kabul. Vorrei sapere chi ha dato quest’ordine demenziale. E si tratta di un problema che si ripete spesso nella politica estera americana, son iniziative prese senza l’assenso delle forze armate. Il comandante delle forze speciali, in questo caso, si è invano opposto al ritiro delle forze speciali prima dell’esodo dei civili. Al contrario, con una decisione folle, sono state evacuate le forze speciali quelle che, con un minimo di buon senso, avrebbero dovuto tenere le posizioni fino alla partenza degli altri.

Insomma, per uno strano processo burocratico anche stavolta si sono prese pessime decisioni che non credo siano dipese dalla volontà del presidente Joe Biden e nemmeno del consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan. Il limite si annida nella catena di comando. Ricordo quel che diceva Henry Kissinger nel 1960: «All’estero si pensa che esiste una politica estera degli Stati Uniti. In realtà è solo il prodotto della competizione tra le varie agenzie. Il risultato non può che riflettere la forza delle varie posizioni. Credo che questa sia la vera storia dell’Afghanistan. Ad ogni passaggio abbiamo assistito ad un confronto tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Pentagono, Cia ed i militari. La battaglia ha avuto esiti diversi nel corso del tempo, ma alla fine le rivalità hanno prodotto questo risultato».   

∞ Lei dice che la Guerra Fredda non è finita. Ma i protagonisti sono cambiati. Come vede la rivalità tra Cina e Usa? Nel 2001, subito dopo le Torri Gemelle, la Cina è stata ammessa nel WTO e Washington e Pechino hanno avviato iniziative congiunte contro il terrorismo. Uno scenario oggi inimmaginabile.

Quando è cominciata la battaglia sul 5 G per limitare l’espansione di Huawei io ho ridisegnato la mappa dell’economia globale dividendo il mondo tra chi apriva a Huawei e chi vietava il suo accesso.  E l’ho mostrata ai miei studenti: «Ecco la nuova Guerra Fredda». Ci ho messo un po’ a capirlo, confesso, ma ero in buona compagnia in America come in Europa. Almeno fino allo scoppio della pandemia quando la gente ha cominciato a vedere il vero volto di Xi JingPing. Il primo a capire che il vero problema era la Cina è stato Donald Trump che deve a quest’intuizione una parte del suo successo elettorale perché ha saputo interpretare quel che l’Americano medio pensava da tempo. Da allora si è creato un certo consento anti-Cina da parte delle elite, sia tra i democratici che tra i repubblicani. E di lì è partita la coscienza che stiamo affrontando la Guerra Fredda II.

∞ Guerra Fredda significa che le Superpotenze non si affrontano sul piano militare. Andrà così, magari per decenni?

Vi ricordo che, per un periodo limitato, la Guerra Fredda ha vissuto una fase calda in Corea. Perciò non escludo affatto che ci sia un possibile conflitto caldo. Dove?  Il posto più logico è Taiwan. E potrebbe avvenire presto. La domanda che dobbiamo porci è se Jingping vuole scommettere su un’azione militare: è un’opzione rischiosa ma i cinesi sono consapevoli dei limiti del potere di deterrenza americana rispetto a Taiwan.  I conflitti di solito scoppiano quando l’aggressore pensa che il tempo non giochi a suo favore, perciò è meglio agire in fretta. L’abbandono dell’Afghanistan da parte di Biden è un segnale che l’America, in questo momento, non intende battersi per nessun motivo. E se mi metto nei panni di Xi Jingping penso che il presidente Usa si comporterebbe come Obama di fronte all’invasione della Crimea limitandosi a sanzioni finanziarie e nulla più.  Di qui la tentazione di puntare all’annessione. Anzi, non si può parlare di annessione visto che dagli anni Settanta in poi gli Americani hanno sostanzialmente accettato il principio di una sola Cina. Per questo temo che Pechino ritenga che il momento giusto per agire sia adesso e non fra dieci anni.

∞ Ma come reagirebbero gli Americani?

Penso che Biden potrebbe affrontare la guerra, perché cedere su Taiwan vorrebbe dire perdere il controllo dell’area Indo-Pacific, così come la ritirata da Suez nel 1956 decretò la fine dell’influenza inglese in Medio Oriente. Potrebbero sbagliarsi i cinesi, convinti di un bluff ma potrebbero sbagliarsi anche gli Americani. E, come spesso è accaduto nella storia, il conflitto potrebbe essere il frutto di calcoli sbagliati di entrambi.

∞ Parliamo di economia. Nel 2001 il discorso riguardava l’ingresso della Cina nel Wto, l’accelerazione dell’economia globale e del libero mercato. Adesso, al contrario, si parla di ineguaglianza, di distribuzione iniqua del reddito e di barriere. Che cosa è successo?

Sono tentato di definirla la “rivincita di Keynes”. C’è stata una fase di declino del pensiero di Keynes in corrispondenza del trionfo di Milton Friedman, diciamo a partire dalla fine degli anni Settanta. Allora il monetarismo divenne la teoria dominante, la legge dei mercati preferita agli Stati. La riscossa di Keynes è cominciata nel 2008 quando, sotto la pressione della crisi, la maggior parte degli economisti, capitanata da Krugman, ha preso a sostenere che avevamo bisogno di una forte dose di keynesismo o sarebbe precipitati in una nuova crisi del ’29: c’è stato da allora uno straordinario revival del keynesimo, oggi più radicale di Keynes come dimostra il successo della Modern Monetary Theory che si spinge là dove Keynes non avrebbe mai osato. Resta qualche aspetto delle teorie di Friedman: il reddito di base universale, ad esempio, è un’idea di Friedman anche se lui non pensava ad un reddito aggiuntivo, bensì alternativo al welfare state. Ma, a ben vedere, la risposta alla crisi da parte di Ben Bernanke ha più il sapore delle teorie monetariste che del keynesismo. È al Fondo Monetario che si va imponendo un cambio di rotta dal Washington Consensus a favore di altre soluzioni, a partire dal controllo dei movimenti di capitale.  Ci stiamo muovendo verso un mondo con cambi quasi fissi e controllo del movimento dei capitali. Prevale così tra gli economisti una visione pre-Friedman accettata tra i politici, e questo favorirà l’inflazione. Già, le teorie di Friedman sconfissero l’inflazione. Oggi sono destinati a tornare gli anni Settanta per ricordarci come eravamo finiti negli anni Ottanta.     

∞ Avrà successo il piano Biden di forti investimenti nelle infrastrutture?

No, perché l’America non è in grado di tradurre un forte stimolo fiscale in investimenti con un forte moltiplicatore economico. Abbiamo già avuto diversi esempi del genere. Infrastrutture, poi, possono significare qualunque cosa. Compreso il verde.  La verità sulla rivoluzione verde riguarda l’aumento dei costi. Se hai un briciolo di serietà, ti devi rassegnare ad un aumento del costo dell’energia, ovvero a quella che definisco la “greenflation” che non sarà pesante come lo shock petrolifero degli anni Settanta ma comporterà comunque alta inflazione, più alta di quella che gli ambientalisti ammettono. Per questo non credo che funzionerà. Prima o poi la gente si renderà conto dell’aumento effettivo del costo della vita e voterà contro. 

Come andrà a finire? Quale sarà la situazione tra vent’anni?

È sempre importante diffidare dei luoghi comuni del tipo che “gli Stati Uniti sono in declino” oppure che “la Cina è in ascesa, il secolo asiatico è appena cominciato”. Ma credo che sia un errore. Così, come a suo tempo l’Unione Sovietica, la Repubblica Popolare Cinese rappresenta un’impresa sostenibile nel tempo, che poggia sulla centralizzazione del potere in poche mani senza alcun serio controllo sull’affidabilità degli organi di controllo del potere. Il risultato non può che essere la corruzione ed un modello economico insostenibile. Ed il declino è giù in atto: l’andamento demografico è terribile, così come la dinamica dei debiti. Il sistema poggia su un sistema di controllo della popolazione sempre più pervasivo cui fa da corona una propaganda sempre più assillante. Quando un leader si spinge a dire che i ragazzi passano troppo tempo a giocare al videogame, possiamo dire che la fine si avvicina. Così mi spingo a dire he tra vent’anni il modello cinese sarà andato in crisi a differenza di quello degli Stati Uniti se sapranno tutelare una politica di apertura delle frontiere all’immigrazione. Finché gli Stati Uniti sapranno attrarre i talenti, saranno i vincitori della sfida. A far la differenza saranno i talenti di tutto il mondo attrattati dall’America, capaci di esser i leader nell’Intelligenza Artificiale o nel quantum Computing, mentre la Cina non potrà che basarsi sui talenti di casa. 

Per questo, nonostante tutte le patologie che affliggono l’America, sono pronto a scommettere che i prossimi vent’anni saranno come i venti che hanno preceduto il tracollo dell’Urss nel 1989. Detto questo, in più di un’occasione sembrerà che l’America sia in difficoltà e che il comunismo sia avviato alla vittoria. Ma poi si capirà che non è vero: l’America è capace di reinventare sé stessa e risolvere i problemi, I regimi autoritari, invece, sono condannati a implodere nelle proprie contraddizioni interne.