Quarant’anni fa sbarcai per la prima volta in Africa. In Uganda, per la precisione. Avevo appena concluso la mia tesi di laurea sullo sviluppo economico del continente facendo appello a tutto l’armamentario keynesiano senza giungere a conclusioni significative. Dopo due settimane mi resi conto che per quanti libri scritti da studiosi potessi leggere, per quante riviste sfogliassi stando comodamente seduto in una biblioteca, dell’Africa avrei capito poco: avrei avuto soltanto una visione deformata dalla prospettiva e dagli interessi europei e americani che non si discostavano dagli stessi che cent’anni prima, alla Conferenza di Berlino, avevano deciso la spartizione dell’Africa subsahariana tra le potenze coloniali di allora (Regno Unito e Francia in primis).
I luoghi comuni si consumavano. Valeva ancora, ad esempio, la frase pronunciata da Victor Hugo nel 1875: «L’Africa non ha storia… Come si potrà atteggiare la Civiltà di fronte a queste fauna e flora sconosciute?». Centotrent’anni dopo, nel 2007, un altro francese, il presidente Nicolas Sarkozy, ribadiva: «Il dramma dell’Africa è che l’africano non è mai entrato abbastanza nella Storia». In realtà, a esclusione del Sudafrica, quasi tutte le regioni del Continente nero, fino a metà dell’Ottocento, erano rette da regni indipendenti meno belligeranti e aggressivi delle nazioni europee da secoli lacerate in guerre economiche e di religione. Dal Sahara al Capo, le popolazioni vivevano in un equilibrio stabile e ancestrale, con ritmi naturali che non li avevano mai spinti a cercare fortuna al di fuori dei loro territori. Quell’equilibrio cominciò a sgretolarsi con la tratta degli schiavi, quando europei e arabi introdussero la valutazione dell’uomo in termini di denaro, tradendo ciò che aveva enunciato il più eminente africano dell’antichità, Sant’Agostino: «Nell’Africa non soggetta alla potenza romana, gli uomini non conoscono la religione cristiana, restano legati alle loro credenze senza che questo ci autorizzi a sostenere, in alcuna maniera, che essi non appartengano alla promessa di Dio».
Nel 1985 feci un’esperienza come jpo (junior professional officer) dell’UNIDO, l’agenzia dell’ONU per lo sviluppo industriale, a Kinshasa, nell’allora Zaire di Mobutu Sese Seko. Era un ristrettissimo punto di vista, il mio, ma ascoltando i discorsi dei funzionari più anziani mi resi conto che gli investimenti fatti dalla comunità internazionale per le grandi opere finivano per soddisfare più le esigenze di commesse da attribuire a multinazionali occidentali che non al miglioramento delle infrastrutture del continente. Grandi opere restavano inutilizzate perché le valutazioni iniziali erano sbagliate, oppure lasciate a metà perché nel frattempo i fondi per la loro realizzazione erano stati tagliati. Un po’ come è sempre accaduto nel meridione d’Italia. Sostenere che l’Africa, come viene spesso ribadito, vive dell’aiuto internazionale, quindi, è solo una mezza, anzi un quarto di verità.
Compresi anche che buona parte della narrazione riportata sui giornali e passata per le televisioni avallava una visione deformata della verità oppure la sottaceva, in quanto dell’Africa interessava far passare slogan destinati ad alimentare un’immagine pauperistica del continente utile a chi intendeva mantenerne il controllo e trarne beneficio. Restiamo legati, del resto, a visioni impresse nel nostro immaginario collettivo a partire dalla famosa frase pronunciata da quel mascalzone di Henry Morton Stanley quando ritrovò in Africa il missionario scomparso dai radar britannici: «Doctor Livingstone, I presume?». Stanley, passato alla storia come un grande esploratore innamorato del Cuore di Tenebra di conradiana memoria, in realtà era un guerrafondaio accaparratore di ricchezze che contribuì alle peggiori malefatte ai danni del continente, non ultima l’assegnazione del Congo al patrimonio personale del re del Belgio Leopoldo II, quello che tra l’altro fece tagliare le mani a migliaia e migliaia di giovani africani per far capire loro che dovevano lavorare come schiavi nelle miniere e non avanzare rivendicazioni.
La mia generazione è rimasta segnata da immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo negli anni Sessanta che ancora oggi vengono utilizzate per comunicare l’Africa come il continente dove i bambini muoiono di fame e di malattie già pochi giorni dopo essere venuti al mondo (sì, esiste anche questo, ma non è l’Africa tout court). Nel 1967, in seguito alla scoperta di grandi giacimenti di petrolio, scoppiò una guerra di secessione della regione del Biafra dalla Nigeria. Era una subdola contesa economica. Il figlio del leader secessionista aveva studiato a Oxford, dove aveva stretto un solido rapporto di amicizia con il rampollo di un importante pubblicitario svizzero. Tornato in patria, diede man forte al genitore cercando di promuovere una campagna di stampa internazionale a favore dei biafrani. Piazzarono telescriventi nella foresta per far filtrare notizie e sensibilizzare i giornali internazionali alla loro causa. Ma nulla, non una riga veniva riportata su quella landa sperduta a ridosso dell’Equatore che nelle redazioni si faticava a collocare sulla carta geografica. Lo svizzero ebbe allora una bella pensata: scese in Africa con una troupe convinto che le immagini sarebbero state più efficaci di qualsiasi parola scritta. Ebbe fortuna. Una piccola enclave di circa duemila anime era rimasta tagliata fuori da ogni accesso all’acqua e al cibo perché schiacciata tra le truppe governative e quelle secessioniste. Vennero girati filmati dove si vedevano bambini con le pance gonfie e i volti scarnificati. Le pellicole giunsero alle televisioni di tutto il mondo e queste colsero immediatamente la potenza dirompente di quelle immagini. L’opinione pubblica internazionale si indignò, attribuendone la responsabilità al governo nigeriano, e il “caso Biafra” fini sui banchi delle Nazioni Unite dove, per la prima volta dall’inizio della Guerra Fredda, URSS e USA votarono insieme una risoluzione di condanna. Passarono alcuni mesi e dalle inchieste che ne seguirono si venne a scoprire la verità, vale a dire che quello era praticamente uno spot e che i colpevoli di quel degrado umano erano più i secessionisti che i governativi. Ma sarebbe stato uno smacco ammettere l’abbaglio. Così il leader secessionista con il figlio e le sue numerose auto di lusso presero la via dell’esilio, nel silenzio generale, e le immagini dei bambini del Biafra rimasero impresse nelle nostre menti.
Storie come questa continuano a ripetersi nella comunicazione internazionale dell’Africa. Nell’ottobre del 2021 ho fatto un viaggio in Etiopia. Addis Abeba, rispetto a qualche decennio prima, mi è parsa una città del futuro. Il Primo ministro Abiy Ahmed Ali, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 2019 per aver posto fine alla guerra con la vicina Eritrea, stava facendo un egregio lavoro. Grazie soprattutto ai cinesi, in città era sorte magnifiche costruzioni che ospitavano organizzazioni africane, ma anche immensi centri culturali, stadi, teatri. Alla periferia, ho visto in costruzione centinaia di grattacieli adibiti a case popolari, dove trasferire la gente che in città vive in miserevoli e malsane capanne. Ovunque parchi, dove lavoravano migliaia di uomini. Sarà pur stata una mia impressione, ma le cose erano alla luce del sole. Ho parlato con decine di missionari, imprenditori italiani e diplomatici stranieri (questi più abbottonati, salvo lasciarsi andare davanti a un superalcolico, off the record, naturalmente): tutti ammettevano che il premier stava facendo un buon lavoro. Eppure, la stampa internazionale, trascinata da quella statunitense, martellava contro questo «usurpatore del Premio Nobel» che in realtà stava massacrando i tigrini, l’etnia che, pur essendo un’esigua minoranza (a detta di tutti corrottissima), aveva governato per anni il paese. Nel nord, in effetti, accadevano cose terribili. Ma da entrambe le parti, perché i tigrini non accettavano di essere estromessi dal potere e dai lucrosi investimenti internazionali. Appena rientrato in Italia, i giornali cominciarono a scrivere che di lì a poco le truppe tigrine, armate da chissà chi, si sarebbero prese la capitale. Rare voci prendevano le parti del premier, accusato di essersi troppo abbandonato alle «mire imperialistiche» cinesi, mentre i bravi tigrini restavano fedeli agli Stati Uniti. Ora di quella guerra si legge solo nelle riviste missionarie. Forse, ai tempi dell’Ucraina, come l’Afghanistan, è diventata geopoliticamente poco interessante.
Ma il principe di tutti i luoghi comuni sull’Africa è: «Resterà sempre economicamente in ritardo proprio per il carattere degli africani». Sembra l’eco delle frasi pronunciate da Hegel in una sua lezione del 1830: «Ciò che determina il carattere dei negri è l’assenza di freni. La loro condizione non è suscettibile di alcuno sviluppo, di alcuna educazione…». Come potesse giungere a simili conclusioni un pur geniale filosofo che non è mai uscito dal suo triangolo germanico resta un mistero, il suo pensiero comunque resta ben radicato presso chi il Continente nero non la conosce (ovvero la maggioranza). Quando si parla di Africa ci si riferisce a un’immensa area geografica dove si trova tutto e il contrario di tutto. Dove imperversano le falangi jihadiste e dove le nuove tecnologie sono arrivare prima e funzionano meglio che in Italia; dove governano dittatori e dove invece la percentuale di donne in parlamento sono di diversi punti superiore che da noi; dove le malattie e le carestie fanno stragi e dove la ricchezza del sottosuolo e anche agricola è immensa e in larga parte tutta da mettere a frutto. Mentre l’Europa sarà sempre più vecchia e con poco interesse e visibilità sul futuro, l’Africa è giovane e la sua popolazione, sempre più acculturata, sente un irresistibile bisogno di riscatto. Tutte le previsioni la indicano come il continente del futuro: nel 2050 la demografia, l’agricoltura, le risorse minerarie e le nuove tecnologie saranno i fattori che ne determineranno il successo, nonostante le influenze europee, statunitense, cinesi e russe faranno di tutto per mantenerne il controllo.
La dimostrazione che l’Africa è in grado di riemergere dai suoi drammatici problemi è il Ruanda, la nazione vittima della più drammatica devastazione etnica che si sia vista negli ultimi trent’anni. Nemmeno quella seguita allo sfaldamento della Jugoslavia ha toccato aberrazioni simili. Ebbene, oggi il Ruanda è tra le nazioni africane con il più alto tasso di sviluppo economico, con la modernizzazione più incalzante e culturalmente significativa.
Tre anni fa, appena prima del Covid, sono tornato in Uganda, la mia prima tappa africana. Giunto all’aeroporto di Entebbe, allora, mi aspettava una vera e propria odissea per raggiungere Kampala; oggi, grazie all’autostrada costruita dai cinesi, in poco tempo ci si ritrova nella capitale. La Cina investe in Africa per i suoi interessi personali, ma è indubbio che, di conseguenza, le infrastrutture realizzate stanno cambiando l’Africa meglio di quanto hanno fatto per decenni le politiche pietistiche europee (del resto anche loro fatte per interesse). Il Paese è ancora governato da Yoweri Museveni, salito al potere con un colpo di stato nel 1986. Ha faticato molto per pacificare il nord del Paese, ma oggi la popolazione ugandese vive una prosperità che non aveva mai conosciuto. Anche questo fa riflettere sulla retorica occidentale di esportazione della democrazia. Di quale democrazia si parla, poi. Questo continente, più che a modelli occidentali, è giusto che si ispiri al vero padre dell’indipendenza africana, il poeta e primo presidente del Senegal Leopold Senghor, scomparso nel 2001. Tra le mille verità che scrisse e pronunciò ce n’è una che dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi: «La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi apporti delle civiltà straniere…».