Nella moda esistono almeno due «Africa». Il continente vero, complessissimo, di grandi contraddizioni come usa scrivere con una locuzione abusata ma che in questo caso rispecchia anche la realtà. Un’area geografica immensa, dove nazioni come la Nigeria assistono al contempo a flussi migratori imponenti verso l’Europa e a una crescita della business della moda, dello stile e del design, ben testimoniato dall’aumento, per esempio, dei buyer provenienti dall’Africa del centro-sud a manifestazioni europee come Pitti Uomo, e alla crescita rapidissima di centri di acquisto e di department store di lusso che presentano designer locali e brand italiani e francesi. E poi c’è il continente percepito, l’idea di un’Africa talvolta solo vagheggiata, in cross border fra Inghilterra, America del nord e coste dell’occidente africano, del genere che si ritrova anche nei romanzi di Bernardine Evaristo o di Chimamanda Ngozi Adichie. Un’idea dello stile africano che, a dispetto dei tentativi tutti occidentali di scinderlo dalle influenze coloniali (i famosi wax, batik coloratissimi di cotone cerato, in origine stampati da blocchetti di legno, di origine olandese secentesca) sta prendendo velocemente piede in Europa.

Le nuove generazioni.

L’esempio perfetto di questo continente percepito dalle seconde, terze o quinte generazioni di africani emigrati o deportati nel Seicento e Settecento dello schiavismo, un continente per certi versi addomesticato o, a volerla leggere positivamente, intellettualmente inclusivo, si è visto di recente proprio a Firenze, durante l’edizione estate 2023 di Pitti Uomo dove, accanto ai completi da uomo un po’ scontati e allo streetwear non sempre eccelso presentato in Fortezza, l’organizzazione ha allestito la collezione cross-culture, cross-gender, coltissima e sofisticata di Grace Wales Bonner, di cui molti preconizzano non a caso la prossima nomina a direttrice creativa di Louis Vuitton Homme al posto dello scomparso Virgil Abloh. Questa trentenne anglo-giamaicana timida e austera ha sfilato nel palazzo Medici Riccardi dove viveva Alessandro de’ Medici, il «duca moro» come da leggenda e storia mai perfettamente chiarita, in ogni caso un despota, e dove si tenne quel genere di incontri politici cosmopoliti rinascimentali che il mondo ignora siano mai avvenuti (per info, vale la pena di leggere il saggio propedeutico «Africani Europei» di Olivette Otele, edito da Einaudi). Grace Wales Bonner ha tappezzato e pavimentato il cortile d’onore con i sacchi dell’artista ghanese Ibrahim Mahama, che mescola le insegne del consumismo di stampo occidentale con il colonialismo, ha coniugato tagli e lavorazioni africane su tagli occidentali Anni Venti e ne è venuta fuori una meraviglia di linee e proporzioni moderne. Bellissima ma anche, a voler essere intransigenti come una certa frangia dell’attivismo americano, giocata sull’appropriazione culturale «bianca» come un «bianco» non oserebbe più fare con quella «nera». Quando parliamo di moda africana oggi, o di ispirazione al continente africano, non dobbiamo dimenticare su quale crinale pericolosissimo si muova chi voglia farsi ispirare dall’arte o dalla cultura africana senza essere un nativo o un oriundo. Wales Bonner, e pochi altri, possono volare dove gli altri non hanno più il coraggio di avventurarsi. Può giocare con la tradizione europea come nessun europeo si sognerebbe più di farlo con quella africana. Tre anni di campagne-contro, di accuse di appropriazione culturale, di siti à la Diet Prada scatenati contro qualunque genere di reato vero, presunto e spesso a comando contro il reato di mancata inclusione purchessia (ponderale, genetico-di genere, ma soprattutto culturale) hanno portato a una circospezione totale, molto sciocca naturalmente e in via di rimessa in discussione (come mi ha detto di recente Christian Loubutin, grande esploratore di tradizioni culturali altre, «non si può rifare il mondo» e il rischio della separazione fra tradizioni e culture è il razzismo e la ghettizzazione), eppure ancora molto presente, in particolare appunto negli Stati Uniti e in Inghilterra. Da qualche tempo, gli attivisti dell’«appropriazione culturale» hanno accolto e accettato un distinguo, quello dell’«apprezzamento culturale», che vedrebbe la propria massima espressione nell’inclusione di un esponente della tradizione o della cultura «apprezzata» nel progetto. Nulla che un «apprezzatore» possa fare da solo, insomma.

E' vera inclusione?

Mentre il dibattito prosegue, con molte forzature soprattutto da parte delle multinazionali del lusso, le prime ad essere finite nel ciclone, dove le commissioni paritetiche, i diversity and inclusion program e tutte le attività molto pubblicizzate per rassicurare i vari stakeholder sulla volontà dei vertici di garantire la multiculturalità hanno portato all’assunzione immediata di creativi che in molti casi, non avendo alcuna preparazione tecnica specifica, sono stati lasciati a occupare gli uffici senza essere mai davvero coinvolti nell’operatività quotidiana (anche le tradizioni commerciali occidentali vanno apprese ed acquisite, disgraziatamente: un’inclusione che non sia solo di facciata ha bisogno di tempo, di accademia, di preparazione vera, e proprio per questo vanno apprezzati i programmi di studio che Gucci e Prada hanno avviato nel mondo). In Italia, dove operano a favore dell’affermazione della moda africana un’ abilissima stilista di origine romano-haitiana, Stella Novarino nota come Stella Jean dal cognome della madre Violette, e Michelle Francine Ngonmo, fondatrice nel 2015 dell’associazione Afro Fashion e nel 2020 di WAMI-We are Made in Italy, che ogni anno, insieme con Camera della Moda, promuove cinque giovani stilisti BAME (Black Asian Minority Ethnic), che lavorano e producono in Italia, si iniziano a valutare i primi risultati positivi: lo scorso febbraio, sono stati presentati i lavori di cinque stilisti di origine senegalese, nigeriana, camerunense, marocchina e del Burundi, Gisèle Claudia Ntsama che ora lavora da Ratti, Frida Kiza, Mokodu Fall, Karim Daoudi e Joy Meribe. «La multiculturalità in Italia è un fatto che non si può ignorare», spiegava in quei giorni Stella Jean, aggiungendo come fosse possibile riempire le copertine e le passerelle con modelle nere e poi dietro le quinte lavorare con strutture completamente bianche». Il cammino, come si indicava nelle righe precedenti, è meno semplice di questa affermazione, ovviamente condivisibile. Anche in Africa, l’evoluzione inclusiva della moda opera su binari che non sempre si incrociano. Anzi, come già accaduto in Cina si assiste a una progressiva disaffezione per i brand occidentali a favore di quelli locali, o dei locali che, come il talentuosissimo (e giovanissimo) sudafricano Thebe Magugu, protegé del gruppo Lvmh, hanno avuto successo in Europa. Brand come Maxhosa by Laduma, uno delle stelle emergenti di Johannesburg, i cui completi uomo (come in tutti le aree emergenti del mondo, la moda maschile precede e guida quella femminile) costano oltre 700 euro. Laduma Ngxokolo, premiato già nel 2015 da Vogue Italia (cioè da Franca Sozzani, che era molto impegnata nel sostegno ai giovani stilisti africani), vincitore di molti premi e anche di una scholarship alla Central St Martin’s di Londra, non emula la moda occidentale; piuttosto, reinterpreta e include nel suo knitwear le molte sfaccettature del black empowerment, in particolare i disegni, i simbolismi e i colori della comunità etnica Khosa, una delle più vaste dell’Africa. Funziona così bene da aver iniziato a vendere non solo nel Merchants on Long, il concept store nel cuore di Cape Town della figlia di Johann Rupert, Hanneli, ma anche allo shop del BlueBird di Londra, sulla King’s Road. Ma al di là del design di questi stilisti, che parla da sé ed è semplicemente fantastico, il vero problema restano l’educazione tecnica, che molti vengono appunto a cercare in Europa, ma soprattutto la produzione. Chi può permetterselo, viene a far realizzare capi e accessori in Italia, Francia, Spagna. Oppure, impianta, con il rischio imprenditoriale che si può immaginare, propri laboratori in loco. Ma, come lamentano molti stilisti nigeriani, uno dei paesi dove esiste un potere di spesa vero per prodotti di alta qualità, mancano tuttora le cosiddette infrastrutture della moda: showroom, sistemi di promozione commerciale, ma anche investitori locali che credano nel potere della moda come leva economica potenzialmente utile anche per altri settori. I supporti migliori per giovani designer come Abrima Erwiah, fondatrice di Studio 189, cresciuta a New York e già membro dello staff marketing e comunicazione di Bottega Veneta, restano infatti le iniziative solidali, i programmi delle Nazioni Unite come Ethical Fashion Initiative o le iniziative di sostegno dei grandi retailer di e-commerce, come Yoox.