Per una nuova lettura aggiornata del pezzo di Francesca Gamberale «Billionaire survivalism» uscito per il numero VIII di Infinito nel marzo 2020. In quell’occasione Francesca Gamberale ci raccontava come molti miliardari americani avessero iniziato a comprarsi «fette di paradiso» in Nuova Zelanda. Una terra che offre motivi di interesse sia sotto il profilo esistenziale che della sicurezza in caso di disastri o sconvolgimenti mondiali.

 

I ricchi e i super-ricchi continuano a comprarsi oasi protette. Questo non è cambiato. Dagli acquisti in Nuova Zelanda di Peter Thiel, all’isola Culuccia di Marco Boglione, il fondatore di Basic-Net, a quella di Canouan, nell’arcipelago delle Grenadine, buen ritiro di grandi finanzieri mondiali. L’illusione di un bunker che preservi dalla fine della civiltà o di un luogo che nulla abbia a che spartire con il 99% degli altri abitanti della terra ha sempre fatto presa. Tuttavia, anni di pandemie, guerre e crisi militari, hanno concretizzato lo spettro dell’estinzione e lo hanno fatto discendere da velleità di qualche iperdotato finanziariamente a urgenza semi-collettiva. Leggiamo che continuano infatti a crescere gli ordini e le richieste per bunker sotterranei in questo vecchio continente, evidentemente schiacciato dal rischio atomico che aleggia sul fronte russo-ucraino. Non solo, si rivalutano anche case che il bunker lo hanno già. Anche questa notizia, un po’ rimbalzata sui social, è chiaramente gonfiata ad arte per strappare un wow - quante case in vendita avranno poi mai un bunker? Tutto questo frivolo vezzeggiare di miliardari o le pruriginose notizie un po’ inventate sulla «febbre da bunker che dilaga», che avrà si e no contagiato qualche decina di persone, però non rappresenta il punto interessante della vicenda. La vera questione è un’altra: ma che senso avrebbe sopravvivere? Salvarsi dal naufragio, dai tempi di Noè, ha sempre avuto fascino. Pensa che «sfiga» essere la coppia di elefanti che rimane giù dall’arca e viene sommersa dal diluvio. Nel caso di Noè salvarsi non è stato male, da lì è ricominciata la civiltà. Ma fuori dalle Sacre Scritture sarebbe così vantaggioso? Recentemente ad un non ben precisato programma radiofonico ho sentito dire che il periodo migliore in cui vivere, escluso il presente, s’intende, sarebbe stato l’Italia del dopoguerra. Fame di ripresa, boom economico, sogno. C’era tanto da fare e tanti che potevano farlo. Capisco il senso: si è comunque in molti, e ricostruire è più facile che partire da zero; serve tutto, la domanda è alta e l’offerta ha spazio per crescere. Ok. Ma sopravvivere a un disastro su larga scala in Nuova Zelanda o in un bunker davanti a La Maddalena ha un sapore un po’ diverso. Cosa fai una volta che esci dal bunker? Sei un miliardario che ha fondato Instagram o un’app di soft porn, o un sito per pagamenti virtuali. Peccato che la società è appena tornata all’età del bronzo e quello che ti servirebbe è un medico, un carpentiere, probabilmente un biologo o un fisico, gente comune e qualche scienziato. Ho già l’ansia. Forse e dico forse, era meglio se non mi invitavano a salvarmi la pelle nel bunker per poi morire di stenti in quaranta giorni o per un ascesso dentale non curato. Lasciatemi dunque ardere dal fuoco del meteorite come tutti gli altri.