EDITORIALE

Sette anni dal primo numero di Infinito. Sette anni della nostra vita. Pochi o molti? Magari è più difficile giudicarli nel proprio percorso personale, perchè possono passare in un lampo, possono veder crescere una bambina o un bambino (è il parametro più certo), possono servire a realizzare progetti oppure scivolare senza lasciare il segno, passare e basta, quasi contro la nostra volontà proprio perchè non siamo riusciti a fare tutto quello che volevamo.

Per il mondo esterno è diverso: tutto è misurabile, oggi molto più di ieri, e dunque le differenze sono lì, ci sono e non sono contestabili. Il punto dolente è invece uno solo, forse preferiamo vivere in una sorta di eterno presente senza mai fare i conti con quello che abbiamo fatto ieri, non esercitando la memoria con il rischio di perderla e preoccupandoci il minimo indispensabile del futuro, come se, tra conflitti bellici che drammaticamente ritornano ed egemonia digitale di poche aziende globali, esso ci appartenesse meno di prima, come se fosse già scritto.

In tempi normali (ma quali sono poi i tempi normali?) potrebbe anche andar bene. Ma stavolta di qualcosa ci siamo accorti: la velocità del cambiamento è gigantesca, e allora abbiamo deciso di andare a indagarla su noi stessi, su cosa pensavamo e scrivevamo sette anni fa nel primo numero di Infinito. Ringrazio gli autori di allora che hanno accettato di confrontarsi con i propri scritti di quella che oggi appare quasi come unera geologica fa, e vi prego di leggere gli articoli che seguono anche perchè di solito il giornalismo assai raramente è uso a guardarsi dentro, ad accennare unautocritica. 

Dunque sette anni dopo la storia non è finita, perchè non bastano i pur enormi passi in avanti dellintelligenza artificiale generativa a chiudere il cerchio quando invece il progresso non è piu un movimento necessario ma è frutto di volontà specifiche e di iniziative politiche e sociali che non sono nè scontate nè garantite.

Quando capitalismo e democrazia non vanno più automaticamente insieme, non sono più qualcosa di inconscio in tutti noi, quel binomio vincente e inevitabile che anche i paesi non democratici prima o poi  avrebbero riconosciuto diventando a loro volta delle liberaldemocrazie. Quando la democrazia americana è in crisi, con la polarizzazione estrema, con lo smarrimento della classe media, laumento delle disuguaglianze, le proteste delle Università contro Israele e a favore di Hamas. E poi multiculturalismo, gender politics e decolonialismo. Quando lEuropa è incapace di mediazione con la Russia sullUcraina, mentre leconomia tedesca ristagna, il Green deal non si cura della neutralità tecnologica per raggiungere gli obiettivi di giusta tutela dellambiente, mentre il livello di circolazione dei capitali sembra non possa più prescindere dalle amicizie e inimicizie tra Stati. Quando, intanto, la Cina mostra muscoli economici e militari.

 Il mestiere del tempo, in fondo, è passare. Il nostro è anche quello di essere consapevoli dei cambiamenti che esso provoca, di provare a governarli a favore dei più deboli, di fare le cose seriamente senza prenderci troppo sul serio. AllInfinito, o quasi.