Negli anni ’90, nel giro di pochi anni, la televisione cambiò profondamente. Si trasformò. Soprattutto negli Stati Uniti, dove all’improvviso nacquero tantissimi canali via cavo. Ognuno cercava la sua strada: fiction, intrattenimento; informazione. E ognuno aveva la sua ricetta per ritagliarsi il proprio pubblico. Tra i trionfatori, nemmeno a dirlo, la Hbo, che riuscì in – relativamente – poco tempo a costruirsi una sua credibilità, ad avvicinare un discreto numero di abbonati e a inserirsi prepotentemente, merito della libertà creativa data dai vertici, nella scia di grandi successi come “Twin Peaks”. Se oggi viviamo nell’era – golden o peak, dipende dai punti di vista – della televisione, è merito de “I Soprano” e, poco dopo, di “The Wire”. La serialità è diventata un business importante, da cui in pochi si tengono (ancora) lontani. Se negli anni ’90 si cercava un’identità, oggi si cerca un’idea. Da una parte c’è chi, come la già citata Hbo, prova a rivoluzionare senza rivoluzionare: televisione lineare, spot, pubblicità, appuntamenti settimanali; un potenziamento delle piattaforme on demand, ma senza esagerare. Dall’altra c’è chi, Netflix in testa, prova a scardinare il vecchio sistema, a lanciarne un altro e a non mettersi nemmeno di traverso ai vecchi network: perché quello è il passato, è già andato; oggi si gioca un’altra partita.

Una televisione profondamente diversa

In questi ultimi anni, le serie tv – per fare un esempio più pratico – hanno superato la domanda: se ne producono molte di più di quante, in teoria, se ne potrebbero vedere. E in tanti si stanno specializzando nella loro produzione. Anche qui in Italia, nondimeno. Sky ha fatto un lavoro certosino: con la sua “Gomorra”, figlia di “Romanzo Criminale”, è entrata prepotentemente nel mercato internazionale. È stata lei, prima ancora della Rai, a stringere un accordo con la Hbo per la produzione di “The Young Pope”. Ed è sempre stata Sky a introdurre – poco, forse – la figura dello showrunner, così fondamentale quando si parla di serie tv. Ma il mercato, tornando alla prospettiva internazionale, non si è ingigantito: è rimasto sempre lo stesso. Sono diminuiti i confini e i limiti; gli sceneggiatori hanno avuto più spazio, la classe creativa è cambiata: e nella famosa stanza dei bottoni, qui come negli Stati Uniti, New York, Los Angeles, o nel Regno Unito, Londra, sono entrate le “nuove” – si fa per dire – generazioni. E una visione che fino a qualche anno fa, i “nineties” di poco prima, era impensabile, è diventata una regola. Non è un rischio, produrre una serie come “True Detective”; è un obbligo. Il dinamismo economico e commerciale, poi, è stata solo una conseguenza. “Game of Thrones”, nata con un budget relativamente basso, è diventata la serie più costosa del momento (circa 10 milioni di dollari a puntata). E a ragione. Sono soldi che servono, ben spesi, che rispondono all’idea di intrattenimento della Hbo. La stessa cosa la stanno facendo le piattaforme streaming: Netflix continua a guadagnare terreno, ha superato i 117 milioni di abbonati in tutto il mondo; ha convinto autori e produttori come Shonda Rhimes (“Grey’s Anatomy”) e Ryan Murphy (“Glee”, “American crime story”) a unirsi ai suoi ranghi; ha distinto nettamente il proprio debito strutturale, valutato intorno ai 20 miliardi (almeno fino all’anno scorso) tra licenze (circa il 75%) e nuovi investimenti (25%). Il suo motto, ufficioso, è: produrre per continuare a crescere; e continuare a crescere per poter produrre. Le prime serie, come “House of Cards” e “Orange is the new black”, hanno mostrato che con – di nuovo, relativamente – poco si può fare tanto. Ed è cominciata anche la grande migrazione dei talenti, da un medium (il cinema) a un altro (la televisione): David Fincher, Kevin Spacey, Robin Wright.

Le differenze con Amazon

E anche se, in questo momento, Netflix sembra inarrestabile, pronta a proporre accordi da centinaia e centinaia di milioni di dollari a talent pur di averli nella propria squadra, non è la sola. C’è anche Amazon. Che sta mutando, trasformandosi, che – forse – a breve troverà un altro posizionamento, nel mercato. Contrariamente a Netflix, non è così rivoluzionaria o anti-sistema. Anzi. Le poche, vere differenze con i network più classici – distribuire i pilota, aspettare il giudizio di pubblico e critica; poi, solo poi, procedere – stanno, a quanto pare, scomparendo. Si investe tanto (la serie tv ispirata a “Il Signore degli Anelli” costerà, secondo le prime stime, circa 1 miliardo di dollari), si puntano determinati progetti; e – nella dialettica sempre troppo vaga e fumosa del giornalismo – si continua a sperimentare. Ne è un esempio “American Gods”: uno dei titoli più incredibili dell’ultimo anno, insieme a “Legion” di FX. Ora che Jennifer Salke, ex-NBC, è stata nominata a capo degli Amazon Studios, le cose andranno molto più velocemente. E non solo sul fronte “piccolo schermo”, dove gli investimenti continuano. Ma pure, forse soprattutto, per quanto riguarda il cinema.

Più tradizionalista dei tradizionalisti

Perché anche di questo, in questi anni, i nuovi competitor come Netflix e Amazon si sono occupati. E continuano, con un discreto successo, ad occuparsi. Amazon si è accaparrata Woody Allen (l’accordo, più o meno, è stato: tu facci una serie tv; noi, poi, ti affianchiamo per ogni nuovo film). Netflix ha rilanciato: prima titoli piccoli, scoperti al Sundance; poi sempre più grossi, fino ai primi blockbuster come “Bright” con Will Smith (circa 90 milioni di dollari di budget) e, prossimamente, “The Irishman” di Martin Scorsese (140 milioni di dollari). Amazon è più tradizionale (anche più, volendo, delle major), mentre Netflix ancora una volta va contro tutto e tutti, prova a riscrivere le regole e ad essere altro – il nuovo che avanza, volendo tentare un’iperbole. Amazon punta sull’uscita cinema; vuole, anzi, che i suoi film escano in sala. Netflix no. La polemica dell’anno scorso, al Festival di Cannes, con gli esercenti francesi è stata piuttosto significativa, in questo senso. A Netflix interessano poco le vecchie dinamiche: anche per quanto riguarda la stagione dei premi.

Serie tv contro film al cinema?

Ma a parte Netflix, la televisione può diventare, a modo suo, una risorsa per il grande schermo. Di esperimenti, al momento, ne sono stati fatti ancora pochi. Uno di questi, piuttosto significativo, c’è stato proprio in Italia. Ed è partito da Sky e dalla neonata Vision Distribution. Prima della messa in onda di “Gomorra” 3, si è deciso di portare al cinema i primi episodi, per due giorni, per un evento in anteprima. I risultati, specie considerata la fascia settimanale, sono stati incredibili. Solo il primo giorno sono stati incassati più di 280 mila euro. Una cosa simile, anche negli Stati Uniti, è stata tentata con “Inhumans”, ma non ha dato – con le giuste proporzioni – lo stesso effetto. Probabilmente in futuro ci saranno altri esempi simili di distribuzione ibrida (a modo suo, ci ha provato anche la Rai, con “Fabrizio De André – Principe Libero”, mini-serie prodotta da Bibi Film e Rai Fiction, uscita in sala per due giorni con Nexo Digital). Perché non è così impensabile che contenuti confezionati per il piccolo schermo, di qualità, d’avanguardia, tecnicamente validi, possano essere proiettati anche su quello grande. I film Marvel, in un certo senso, ne sono la dimostrazione: sono ancora film, escono con una cadenza particolare; eppure, tutti insieme, rispondono perfettamente a una logica seriale televisiva.

Ma qual è il futuro?

Al momento, tuttavia, capire quali influenze potranno esserci prossimamente tra cinema e tv resta difficile. Soprattutto perché il mercato delle serie non si è ancora stabilizzato. Non del tutto. E le forze in gioco, da una parte e dall’altra, nella televisione lineare e in quella non lineare, non sono ancora perfettamente definite. Nel 2019, per esempio, Disney lancerà la sua piattaforma di streaming, di cui si sa ancora poco: sarà disponibile in Nord America, all’inizio; e non conterrà contenuti “r rated”, vietati cioè a una fascia d’età; le serie Marvel già prodotti continueranno ad essere dove sono, e in teoria gli altri accordi che sono in valore dovrebbero continuare ad esserci. Poi c’è il discorso Hulu, ancora limitato ad alcune zone del mondo (e però, specie dopo il successo di “The Handmaid’s Tale”, sempre più interessato ad allargarsi). Il mercato, probabilmente, è destinato alla saturazione: troppi titoli in troppo poco tempo, come dicevamo. Eppure, va segnalato che, almeno qui in Italia, le cose sono ancora in una fase relativamente embrionale. In parte perché solo da poco colossi come Netflix e Amazon hanno lanciato il loro servizio; e poi perché, almeno dal punto di vista produttivo, ancora tanto deve essere fare ed essere tentato. Specie, per fare esempi più concreti, dalla televisione generalista, come la Rai e Mediaset, che stanno investendo in prodotti diversi e sempre – con le loro limitazioni – più sperimentali ma che hanno ancora il limite/ostacolo di un pubblico vasto e di età abbastanza alta.

Anche Netflix va verso una distribuzione generalista

E questo è un problema/non-problema che ha, ultimamente, anche Netflix. Avere così tanti abbonati, in così poco tempo, riduce di molto le possibilità di spaziare tra generi e storie. Perché bisogna accontentare molte persone, con – relativamente, ancora – poco. E quindi le serie mainstream, più action e più legate a un’idea classica di eroe americano, aumentano. Ci sono più film commerciali. Più volti riconoscibili. Più scelte – viste nella giusta prospettiva – facili. Ma non si fermano i costi e gli investimenti; non si ferma la voglia di diventare qualcos’altro – qualcosa, anzi, di più. Non un social network, ma quasi. Non una piattaforma come Youtube, ma nemmeno un canale via cavo come Hbo (le due cose, anzi, non potrebbero essere più diverse). Netflix vuole essere onnipresente, nella vita dei suoi abbonati. Essere un’estensione del loro tempo libero. Occupare tutto l’occupabile. Coinvolgere, appassionare, capitalizzare il più possibile. E questo sempre per lo stesso discorso: per produrre, servono abbonati; per avere abbonati bisogna produrre.

Che cosa cambia l’accordo Disney-Fox?

Facendo un passo indietro, ulteriore e più lungo, e provando ad osservare la situazione “intrattenimento” nella sua totalità, si nota che piuttosto velocemente, vuoi per accordi commerciali ed economici, vuoi per acquisizioni, il mercato si sta dividendo in macro-aree. Con nomi, volti, idee ben riconoscibili. Con direzioni editoriali quasi teorizzabili. Con mega-corporazioni sempre più presenti. Un esempio è l’accordo Disney-Fox, che ha riunificato, sotto un unico soggetto, due delle corporazioni più potenti e ricche dello show business. Sembra poco, un assestamento strutturale o un’evoluzione naturale del mercato. E invece è uno step importante. Perché, in questo modo, insieme ai prodotti, si vendono anche le intuizioni, le scelte e le già citate idee. Un modello che si allarga, quello cioè Disney, dimostra quanto la direzione intrapresa sia vincente, e spinge, indirettamente o direttamente, anche gli altri competitor ad adottarla – o, comunque, a prenderla in considerazione.

Benvenuti in Italia

L’Italia, come dicevamo poco prima, resta un’eccezione. Qui non è ancora iniziata l’era della “peak tv”: si produce, ma non così tanto. Arrivano le serie tv, ma sempre filtrate da una distribuzione poco ricettiva e ancora lenta. Si vive di momenti – e di realtà che, nel loro piccolo o grande, provano a cambiare le cose. A spingerle verso il cambiamento. Rai, per esempio, ha finalmente intuito come sfruttare al massimo i propri contenuti, utilizzando la sua piattaforma RaiPlay, il lascito probabilmente più importante di tutta l’eredità della direzione di Antonio Campo Dall’Orto: “Non uccidere”, “Ispettore Coliandro”, “La linea verticale” sono solo alcuni degli esempi di serie che, prima della messa in onda, sono state rese disponibili in streaming. Poi ci sono i super accordi con le produzioni straniere. Ancora una volta è il caso di Rai, che insieme a Hbo e a TimVision sta sviluppando “L’amica geniale”, serie ispirata all’omonima quadrilogia di Elena Ferrante; e di Sky, che sempre con Hbo è al lavoro su “The New Pope”, sequel di “The Young Pope” di Paolo Sorrentino. Altra particolarità, non da poco, del nostro mercato è la presenza di produzioni, più che di canali o network, importanti: Wildside, Cattleay e Palomar, per fare tre nomi, che hanno firmato a vario titolo alcuni dei titoli del momento (come “Gomorra” e “Suburra”, o lo stesso “The Young Pope”). C’è ancora un margine di crescita abbastanza ampio, insomma. E Netflix – che ha lanciato le sue prime serie – e Amazon – che si prepara, invece, a farlo – l’hanno capito. Non è El Dorado, per carità. Ma l’Italia può specializzarsi con i suoi prodotti, diventare – trainata da Sky – una penisola felice dove titoli à la Hbo, di qualità più che di quantità, possano essere scritti e pensati. Perché qui, più che altrove, c’è fame di creatività. Basti citare “Il Cacciatore”: prodotto da Cross Productions e Beta, insieme a Rai Fiction, ha trionfato a Canneseries e ha mostrato come un’alternativa chiara al racconto della fiction italiana, meno buonista, meno di parte, più – è il caso di dire – di genere sia possibile.

Dove sta andando l’industria dell’intrattenimento?

Non è facile, a oggi, prevedere con più o meno precisione quello che sarà il futuro dell’intera industria dell’intrattenimento. Quella in atto tra piattaforme streaming, piccolo schermo e grande schermo non è una guerra; ma è sicuramente uno scontro epocale, culturale e – soprattutto – produttivo. Si spendono molte più risorse per la televisione di quante se ne siano mai spese. Anche major storicamente legate al cinema cominciano ad interessarsi alla serialità (per esempio Paramount). Lo streaming – e, più in generale, l’on demand – stanno diventando un’ottima alternativa alla distribuzione più tradizionale. Sono un’oasi sicura. Meno rischi, meno costi; ricavi immediati per i produttori derivati dalla vendita dei diritti. Ma la differenza tra modelli di business, più o meno sostenibili, ha portato a una chiarissima rottura nei mercati, come quello francese, dove c’è invece una stretta correlazione tra esercenti, quindi sale, produttori, quindi investitori dei film, e pubblico. Il caso di Netflix che ha deciso di non partecipare in alcun modo alla 71° edizione del Festival di Cannes dopo il ban della direzione dal concorso ufficiale è piuttosto significativo. È un picco, per usare la terminologia statistica. È un caso interessante, da analizzare, che rappresenta un punto estremo. Forse, addirittura, un punto di non ritorno. Non c’è più la mediazione tra nuovo e vecchio, tra innovazione e tradizione. L’ago della bilancia, stavolta, pende tutto da una parte. Partendo da Cannes, quindi, sembra che le distanze tra cinema e piattaforme streaming stia aumentando e siano sempre più incolmabili. Ma la vera novità, almeno dal punto di vista tecnologico, forse è altrove. Sempre quest’anno è stata diffusa la notizia dell’accordo tra Sky e Netflix: per tutti gli abbonati Sky ci sarà l’accesso a Netflix e ai suoi contenuti, non viceversa; sarà un’offerta particolare del pacchetto Sky Q (uno degli ultimi e, contemporaneamente, più costosi). L’intenzione di Sky (ma pure di Netflix) è piuttosto chiara: puntare a un altro target di abbonati, allargare la propria offerta, concentrare – almeno in Europa – le forze. E poi c’è l’altro passo avanti, forse ancora più importante: il tentativo di spostarsi dal via cavo alla connessione internet e di creare una piattaforma tecnologica che offra al cliente, per un determinato costo, più servizi. Nel Regno Unito, infatti, questo accordo è stato esteso anche a Spotify. E allora eccolo il futuro: tecnologia-centrico, maggiore vicinanza ai consumatori; più accessibilità a costi e a servizi. L’industria cinematografica può arroccarsi sulle sue posizioni (e in alcuni casi, va detto, dovrebbe: è giusto preservare il “circolo della vita” delle produzioni dei film, specie se basati su leggi interne). Ma dovrebbe anche cercare di trovare un punto d’incontro con ciò che è nuovo. Meglio: diverso. Perché oggi, convincere qualcuno ad andare al cinema – uscire di casa, spostarsi; pagare più costi, compreso quello del biglietto – è diventato più difficile. Siamo in una società dell’immagine. E dovrebbe prevalere l’immagine migliore. La più bella. La più memorabile. L’epoca delle questioni di principio è finita.