Nel novembre 1934, John Maynard Keynes, che stava allora lavorando alla stesura della Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta- il suo maggiore libro, che sarebbe stato pubblicato all’inizio del 1936 e che avrebbe avuto, a partire da quel momento, un’influenza enorme sugli studi economici e sulle impostazioni di politica economica - tenne una conversazione radiofonica perla BBC. In essa Keynes sostenne che gli economisti si dividono in due grandi scuole:

Da un lato vi sono coloro i quali credono che, nel lungo periodo, il sistema economico nel quale viviamo si autoregoli, anche se con cigolii, gemiti e sussulti e con interruzioni dovute a ritardi temporali, a interferenze esterne e a errori...

Al capo opposto vi sono coloro i quali respingono l’idea che il sistema economico attuale sia in grado di autoregolarsi in misura significativa. Essi credono che l’incapacità della domanda effettiva di elevarsi fino a sfruttare pienamente le potenzialità dell’offerta risalga a cause molto più di fondo (J.M. Keynes, Poverty in Plenty: Is the Economic System Self-Adjusting? The Collected Writings of J.M.K., vol. XIII, pp. 486-7).

 

Keynes, ovviamente, sentiva di appartenere alla seconda di queste due scuole ed era impegnato, nel libro che stava scrivendo, a dare un fondamento analitico solido alla convinzione che nel sistema economico di mercato, che pure ai suoi occhi aveva molti meriti, non vi erano dei meccanismi automatici che consentivano di realizzare e di mantenere stabilmente la piena occupazione delle forze di lavoro. Dunque, questo compito – era la conclusione pratica alla quale giungeva Keynes - andava affidato allo Stato cui spettava di integrare con la propria azione, quando ciò fosse stato necessario, gli investimenti dei privati. Keynes però non era affatto, come talvolta è stato sostenuto nel corso delle polemiche di questi decenni, una specie di cripto-socialista. Al contrario, egli riteneva che il sistema di mercato fosse superiore alle sue possibili alternative, anche perché esso era – ed è - intimamente connesso con l’idea di libertà. Proprio nella Teoria generale Keynes descrive i vantaggi economici, ma anche politici, del sistema liberale:

In parte si tratta di vantaggi di efficienza – i vantaggi del decentramento e quelli del gioco dell’interesse individuale. Il vantaggio in termini di efficienza del decentramento delle decisioni e della responsabilità individuale è forse ancora maggiore di quanto non si sia ritenuto nel diciannovesimo secolo e la reazione contro il richiamo all’interesse individuale è andata forse troppo oltre. Ma, soprattutto, l’individualismo, se lo si può purgare dei suoi difetti e dei suoi abusi, costituisce la migliore salvaguardia della libertà personale, nel senso che, in confronto con qualsiasi altro sistema, esso amplia enormemente il campo delle scelte individuali. Esso costituisce, inoltre, la migliore salvaguardia di quella varietà dei modi di vivere che scaturisce proprio dal vasto campo delle scelte individuali e la cui perdita è la conseguenza più grave di uno Stato omogeneo o totalitario. È questa varietà, infatti, a preservare le tradizioni in cui si incarnano le scelte più sicure e più felici delle generazioni passate; essa colora il presente con la diversificazione della sua immaginazione e, essendo l’ancella della sperimentazione, oltre che della tradizione e dell’immaginazione, è lo strumento più potente per migliorare il futuro. (John Maynard Keynes, The General Theory, J.M. K., Collected Writings, vol. VII).

Dunque per Keynes non vi erano dubbi sul valore di fondo dei sistemi di mercato. Ma il problema era costituito dal fatto che non è automatico che il sistema di mercato porti alla piena occupazione. Vi possono essere situazioni in cui la spinta spontanea del mercato – gli animal spirits degli imprenditori, la loro vitalità innata - non è sufficiente a produrre la piena occupazione. La posizione di Keynes a questo proposito è espressa con grande chiarezza in questo passo dell’ultimo capitolo della Teoria generale:

In concreto, non vedo alcuna ragione per ritenere che, nell’utilizzare i fattori di produzione di cui si serve, il sistema esistente commetta errori particolarmente significativi nel loro impiego. Vi possono essere, ovviamente, degli errori di previsione, ma essi non si eviterebbero centralizzando le decisioni. Quando trovano occupazione 9 milioni di persone rispetto ai 10 milioni che vorrebbero avere un lavoro e sarebbero in grado di svolgerlo, non vi è alcun indizio che il lavoro di questi 9 milioni di uomini venga male impiegato. L’addebito da muovere al sistema attuale non è che questi 9 milioni di persone dovrebbero essere impiegati in modo diverso, ma che dovrebbe esservi lavoro anche per il restante milione di persone. È nel determinare il volume, non la destinazione dell’occupazione effettiva, che il sistema attuale non funziona (ibidem).

Ancora più interessante è leggere, oggi, una lettera che Keynes inviò a Friedrich von Hayek, che è considerato come il principale teorico del liberalismo assoluto, all’indomani della pubblicazione del libro di quest’ultimo The Road to Serfdom nel 1944, nel quale Hayek aveva sostenuto che il pericolo dell’intervento pubblico consiste nel fatto che esso apre, quasi senza avvedersene, a una trasformazione in senso socialista degli Stati e questa a sua volta non può non condurre alla fine della libertà e della democrazia. Il libro di Hayek, che pure non discuteva esplicitamente le tesi di Keynes, venne interpretato, da molti, come il manifesto anti-keynesiano per eccellenza. Ma la lettera di Keynes è sorprendente. Scrisse ad Hayek di avere appena letto il libro e di averlo trovato “un grande libro.” E aggiunse: “trovo che io sono d’accordo virtualmente con l’intero libro, non solo d’accordo, ma d’accordo con un sentimento di profonda emozione.” Subito dopo, però, Keynes osservava che lo stesso Hayek aveva riconosciuto che certi compiti spettano comunque agli Stati – Hayek ovviamente pensava alla giustizia, alla difesa, alla politica monetaria – e questo –osservava Keynes – apriva la strada a considerare altre occasioni di azione pubblica. Il problema era quindi non di principio, ma di misura concreta degli interventi dello Stato:

la mia conclusione - scriveva Keynes a questo proposito - è che ciò di cui abbiamo bisogno non è abolire intervento pubblico, e neppure un minore intervento pubblico. Direi anzi che abbiamo bisogno di più intervento pubblico. Ma l’intervento dovrebbe aver luogo in una società in cui la maggior parte delle persone, in seno al governo e fuori, condividano la sua [di Hayek] posizione morale. Una pianificazione moderata sarà positiva se coloro che ne sono incaricati hanno un orientamento molto vicino a quello di cui lei è portatore (J. M. K., Collected Writings, vol. XXVII, pp. 385-8).

Che non si trattasse di pure espressioni di cortesia, ma riflettessero il pensiero di fondo di Keynes è confermato, tra l’altro, da una presa di posizione sul bilancio pubblico di qualche anno precedente nella quale Keynes aveva sostenuto che bisognasse introdurre un obbligo di mantenere in pareggio la parte corrente del bilancio dello Stato, ma che lo Stato dovesse predisporre dei piani di investimenti pronti per essere attivati nel momento in cui le condizioni economiche lo richiedessero. John Maynard Keynes morì all’età di 62 anni nell’aprile del 1946, dopo avere contribuito in maniera determinante alla ideazione e dalla realizzazione di quell’assetto economico del secondo dopoguerra, che ebbeil suo punto di forzanell’adozione diun sistema dicambi fissi, ma periodicamente aggiustabili in casi di squilibri sostanziali delle bilance dei pagamenti, sostenuto da due nuove istituzioni internazionali – il Fondo Monetario e la Banca mondiale – chiamate a contribuire alla stabilità del sistema economico internazionale. Contemporaneamente, in seno a tutti maggiori paesi occidentali, le idee di Keynes portarono all’impostazione e all’adozione dipolitiche economiche – intendendo con questo la politica monetaria e le politiche di bilancio – intese a preservare i sistemi da fluttuazioni troppo ampie ed a favorire il raggiungimento della piena occupazione. E per oltre trenta anni nel secondo dopoguerra, quel complesso di politiche ha contribuito alla grande crescita che si è manifestata nel periodo.

Non c’è altresì dubbio che, rispetto alle profonde crisi periodiche dei decenni precedenti, culminate nella crisi del’29, che avevano dato luogo alla conclusione anche da parte di economisti liberali tradizionali, come Joseph Schumpeter, che il sistema capitalistico non avesse un futuro e che il futuro fosse anzi dei sistemi socialisti, i “magnifici trenta anni del secondo dopoguerra” abbiano contribuito in maniera determinante alla sconfitta del comunismo. Poi, all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, la piena occupazione ormai raggiunta nella maggior parte dei paesi industrializzati ha provocato dei rialzi salariali spesso superiori all’andamento della produttività, mentre il prezzo delle materie prime, che era andato declinando in termini reali dalla metà del secolo XIX, ha preso a crescere, determinando così una spinta inflazionistica ulteriore.

A quel punto, la concezione di politica economica che era stata il prodotto della rivoluzione concettuale della Teoria generale è andata in crisi. Si è pensato che i governi avessero perso il senso del limite nella spesa pubblica e che le politiche monetarie fossero state corrive all’inflazione. Alla discrezionalità si è pensato che fosse necessario sostituire delle regole rigide, possibilmente affidate a dei corpi sui quali l’influenza politica fosse minore o minima. Così si è affermata l’idea dell’indipendenza delle banche centrali e della definizione nei loro statuti di compiti precisi e ristretti. E sempre così si è pensato anche che, spostando a livello sovranazionale certe responsabilità di politica economica, si sarebbe potuta limitare l’eccessiva facilità dei Governi nel disporre della spesa pubblica (questa idea è alla base delle proposte che l’ormai ex Ministro tedesco delle finanze, Schauble, ha rese note nel momento di lasciare il suo ministero).

Ed anche sul piano accademico alla rivoluzione keynesiana degli anni trenta si è sostituita la controrivoluzione monetarista degli anni settanta. Dalla fiducia nell’azione collettiva si è passata alla fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi. E così come i successi delle politiche keynesiane avevano portato agli eccessi dell’interventismo economico, così i successi delle deregolamentazioni degli anni’80 hanno creato le condizioni per la crisi del 2008-2009, simile in tutto e per tutto nelle sue cause e nei suoi inizi a quella del 1929. Ora, forse, alla luce di queste esperienze, è possibile giungere a una duplice conclusione sul piano teorico e sul piano pratico. Sul piano teorico bisogna concludere che la speranza degli economisti di giungere a una risposta definitiva sulla natura del sistema economico di mercato e sulla sua capacità di autoregolarsi si è rivelata ed è destinata a rivelarsi come un’illusione. Non perché non siano ingegnose le formulazioni teoriche che si avvicendano nel tempo, ma perché nelle scienze sociali non è possibile giungere alle conclusioni alle quali gli esperimenti e le osservazioni consentono di giungere nelle scienze fisiche. Noi non sappiamo – e forse non sapremo mai – se il sistema tende ad aggiustarsi, magari, con “dei cigolii dei gemiti o dei sussulti”. E non lo sapremo mai perché non possiamo osservare come il sistema reagirebbe a una perturbazione, perché mentre esso si aggiusta, interviene un’altra perturbazione, e un’altra ancora, cosicché non è possibile sapere se ciò che succede è il frutto del primo evento o della somma del primo e del secondo, o di questi e del terzo. Non sappiamo e non sapremo. Avremmo bisogno che il mare fosse calmo per un lungo periodo e che potessimo osservare, per così dire, un’onda alla volta, mentre invece esso non cessa di muoversi. Dunque, sul piano teorico, non sappiamo e ciascuno deve affidarsi alla sua sensibilità. In un certo senso le due scuole economiche di cui parlava Keynes nel 1934 differiscono a priori fra di loro e non sono in condizioni di mettere a confronto i propri risultati. In sostanza la scelta ha una natura politica e per questo dovrebbe essere assoggettate a delle regole democratiche per individuare che cosa pensano i cittadini che di queste politiche sono i destinatari ultimi e, spesso, le vittime. Sul piano pratico, vista questa prima conclusione, dobbiamo semplicemente essere molto attenti a non scegliere, per così dire, ideologicamente le politiche economiche. Dobbiamo essere pronti a valutare tutti gli elementi a favore delle une o delle altre. Conviene essere empirici e equilibrati, guardare con attenzione e cercare di sbagliare il meno possibile. Ma non dimenticare ciò che di importante vi è nel pensiero classico e ciò che di importante c’è nel pensiero keynesiano.